quarta di copertina da "I Simpson e la filosofia"

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domenica 5 agosto 2007

LA PROPAGANDA FASCISTA

LA PROPAGANDA
IL CINEMA, GRANCASSA DEL REGIME FASCISTAL'attrice Elsa Merlini in una tipica scena del cinema dei "telefoni bianchi"
Quando nel 1922 Mussolini prende il potere in Italia, subito afferma pubblicamente di ritenere il cinema “l’arma più forte dello Stato”. Già allora, quando il sonoro era ancora di là da venire e la produzione italiana era scarsa e di non eccelso livello, con la sua ben nota “lungimiranza fascista”, il duce aveva capito l’importanza dell’immagine per fare presa sul popolo. Eppure il regime non cercò mai di asservire totalmente il cinema alla propaganda della sua ideologia, come avrebbe invece fatto il nazismo. Grazie anche all’intelligente consiglio di alcuni responsabili politici, in primis Luigi Freddi, Mussolini lasciò al cinema italiano la possibilità di realizzare pellicole con sufficiente autonomia, tenne leggera la scure censoria e si limitò a controllare i documentari didattici e i cinegiornali educativi.
Egli imbocca così una via italiana al cinema che permetterà a registi come De Sica e Visconti, in un certo senso anche a Blasetti, di non sentirsi troppo frustrati e di preparare, già alla fine degli anni Trenta, il neorealismo del dopoguerra. I film di evasione, quelli storici, quelli romantici, non interessano più di tanto il partito, che invece ci tiene ad esportare nel mondo un’immagine vincente dell’Italia, anche attraverso i suoi lungometraggi. Diverso è il discorso per quanto riguarda l’informazione, che viene proiettata in tutti i cinematografi prima di ogni spettacolo, e alla quale è affidato il compito di mostrare alla popolazione i fasti del regime. Nel 1923 nasce L’Unione Cinematografica Educativa (LUCE) per la produzione di documentari e, soprattutto, di cinegiornali. Tutta la produzione LUCE è tesa a fornire al pubblico sia italiano che straniero una documentazione precisa delle imprese e dei successi dell’Italia fascista.
Fino al 1931 i cinegiornali sono muti. Con l’avvento del sonoro, le parole pronunciate enfaticamente e la musica acquistano un’importanza fondamentale nel sottolineare le immagini, anzi a volte sono proprio le parole che danno senso ad immagini banali, magari anche riciclate.
La grandezza e il valore del duce, i progressi dell’Italia, l’aumento di produttività dell’industria e del grano nei campi, il prestigio in campo internazionale, sono i temi ricorrenti in tutti i cinegiornali. L’Italia è il Paese nel quale si vive onestamente, dove tutti lavorano, dove le famiglie sono numerose e serene, dove insomma tutto va bene… perché come un buon pater familias il duce veglia sulla nazione: le disgrazie, la delinquenza, la violenza, sono sempre mostrate come brutture che possono avvenire in altri Paesi, ma dalle quali noi siamo fortunatamente immuni. Ampio spazio è sempre dedicato alle inaugurazione, ai taglio di nastro o alla posa della prima pietra, alle strette di mano tra personaggi illustri, ad ogni campagna lanciata dal partito, così come alle imprese sportive, alle prove atletiche, alle vittorie italiane in campo internazionale. Durante la guerra d’Africa si vedono gli indigeni stringersi grati attorno alle truppe italiane, apportatrici di benessere e di civiltà… Dal 1940 al 1943 i cinegiornali si prefiggono tre scopi ben definiti: mostrare la perfezione dei nostri armamenti, lodare la vittoriosa esecuzione delle nostre imprese belliche, prevedere l’inevitabile sconfitta del nemico.
Un tema particolarmente importante è quello che riguarda l’immagine del duce. Lui, l’artefice di ogni successo, l’incarnazione di tutti i valori dello Stato, il solo responsabile del bene del Paese, è mostrato sempre sicuro di sé, forte, robusto, un punto di riferimento per tutti sia quando passa in rassegna le truppe che quando visita un ospedale, falcia il grano o stringe la mano ad un capo di Stato straniero. Quando declama un discorso, la sua posa e la sua intonazione, le lunghe e sapienti pause tra una parola e l’altra, sono un invito a nozze per riprese enfatiche e glorificanti. Solo dopo la tragedia del 1943 la sua immagine si appanna, e neppure i cinegiornali possono nascondere la stanchezza dell’uomo, la sua delusione e la rassegnazione con cui compie i gesti ufficiali di sempre: la rivista delle truppe repubblichine, il taglio di un nastro, il saluto a un gerarca nazista. La produzione LUCE comprende anche numerosi documentari, destinati alle riunioni politiche, alla didattica, spesso anche al normale pubblico delle sale cinematografiche. I titoli sono molto illuminanti e vanno da “Mussolinia” a “Dall’acquitrino alle giornate di Littoria”, a “Nell’agro pontino redento” e “Nella luce di Roma”. Per quanto riguarda invece la produzione cinematografica indipendente, negli anni che vanno dal 1923 al 1929, prima dell’avvento del sonoro, i produttori italiani cercano di riprendere le fila interrotte dalla I guerra mondiale, e realizzano una serie di film fastosi in costume: è del 1923 “Quo Vadis?”, del 1924 “Cirano de Bergerac”, del 1926 “Maciste all’inferno”. La storia passata è vista come preparazione all’avvento del fascismo, e i grandi avvenimenti storici sono volentieri mostrati come precorritori dei fasti dell’Italia mussoliniana.
Queste pellicole non riscuotono però il successo sperato, e il cinema italiano stenta a trovare la via per conquistare il suo pubblico, tutto preso dall’ammirazione per il cinema straniero, soprattutto americano, cosicché nel 1926 vengono prodotti solo venti lungometraggi italiani. Va ricordato, del 1929, il primo grande film fascista, “Sole”, per la regia di Alessandro Blasetti. Esso è incentrato sui temi relativi alle bonifiche delle paludi pontine e ci mostra grandi scenari naturali colti attraverso belle fotografie, mentre anche le nuove angolazione delle riprese rendono questo film degno di essere menzionato. Molto lodato dai critici, “Sole” è però completamente ignorato dal pubblico. Nello stesso filone ispirato al mito del buon contadino, si collocano altri film come “Forzano”, “Quattro passi fra le nuvole”, “Selvaggio”, “Strapaese”, che riprendono le campagne per l’aumento della produzione agricola e criticano il capitalismo basato sulla rendita fondiaria dei grandi proprietari terrieri. La buona e sana vita contadina esce vincente dal confronto con la logorante vita di città. L’avvento del sonoro apre una nuova era nella cinematografia italiana.
Alla fine dell’anno una trentina di sale si sono già dotate delle moderne apparecchiature e nel giro di cinque o sei anni tutti i cinematografi in Italia offrono film parlati. All’inizio non mancano comunque le difficoltà, per offrire al pubblico una traduzione accettabile dei film stranieri: il doppiaggio presenta ancora molti problemi tecnici, e si tenta addirittura di rifare i film americani con attori italiani! Il personaggio fondamentale dell’industria cinematografica degli anni Venti è l’industriale Stefano Pittaluga che, nel 1931, produce addirittura il 90% dei film italiani, col marchio Pittaluga Cines. Egli riesce anche a fare approvare una prima legge protezionistica a sostegno del settore (ne seguirà una seconda nel 1933), ma non riesce a goderne i benefici effetti poiché muore poco prima della sua entrata in vigore.La Cines continua comunque, sotto la direzione di Emilio Cecchi, la produzione di film con registi di valore come Blasetti, Camerini, Bragaglia, e autori come Pirandello e Alvaro, ponendosi come punto d’incontro tra cinema e cultura: fino al 1933, anno in cui viene acquistata da Carlo Roncoroni.
Un'inquadratura di "Sole", girato dal registaAlessandro Blasetti nel 1928
Produttori come Gustavo Lombardo, Giuseppe Amato e Angelo Rizzoli sono interessati soprattutto a film commerciali, con grande successo di pubblico. Nel 1932 Mussolini inaugura la prima Mostra del Cinema di Venezia, il festival che avrebbe contribuito molto al prestigio della cultura italiana nel mondo, portando a girare in Italia registi come Max Ophuls, Abel Gance, Jean Epstein. A Venezia, a testimonianza della notevole autonomia di giudizio della commissione giudicante, riceve un premio anche Jean Renoir per “La grande illusion”. In questo periodo si affermano le case produttrici Lux, Titanus, ERA, mentre lo Stato continua la sua opera di sostegno istituendo una Direzione Generale per la Cinematografia guidata da Luigi Freddi. Pur provenendo dalle fila del partito, Freddi sostiene idee liberali. Egli è infatti convinto che lo Stato debba sostenere il cinema senza costringerlo entro i ristretti argini dell’ideologia fascista. Critico del metodo coercitivo applicato alla decima musa dal nazismo, Freddi incoraggia un cinema che non entri in conflitto con le tematiche di partito, ma che si rivolga invece a temi d’evasione, a imitazione del cinema americano. E’ il momento dei film coi telefoni bianchi, delle storie sentimentali a lieto fine, degli attori che riscuotono grande successo di pubblico.
Quando nel 1935 gli studi della Cines vengono distrutti da un terribile incendio, Freddi coglie l’occasione per realizzare il suo sogno di una Hollywood italiana, e fonda, alla periferia di Roma, “Cinecittà”. Si devono a Freddi anche l’istituzione di un Centro Sperimentale di Cinema e la nascita della rivista “Bianco e Nero”, veri vivai di giovani talenti. Tra le altre riviste di critica cinematografica ricordiamo: “Film”, “Lo Schermo”, e soprattutto “Cinema”, diretta prima da Luciano De Feo, poi da Vittorio Mussolini, e infine da Gianni Puccini. Si può dire che fino al 1938, anno in cui diventa più stretta l’unione tra Mussolini e Hitler, il fascismo segue da vicino il cinema italiano, ma interviene più per sostenerlo che per sottometterlo: si limita a controllare che i film non promuovano comportamenti immorali e che non presentino situazioni in contrasto con la cultura fascista, ma per il resto preferisce porsi come osservatore che come padrone.
Sono di questi anni molti film comici, anche dialettali, e si affermano in questo periodo attori come Petrolini, Vittorio De Sica, Totò, in quelle commedie popolari che precedono il neorealismo del dopoguerra. Sempre molto ricca la vena di registi come Blasetti (“1860”, “La tavola dei poveri”), Camerini (“Gli uomini, che mascalzoni”, “Il signor Max” “Il cappello a tre punte”), Brignone (“Passaporto rosso”, “Sotto la croce del sud”), ecc… Nei primi anni della seconda guerra mondiale, ai successi bellici corrisponde un grande fiorire di pellicole e una crescente affluenza di pubblico. Si affermano nuove tendenze, ispirate in parte al teatro del Novecento, in parte alla letteratura realistica americana. Accanto a Blasetti con “La cena delle beffe” troviamo Antonioni, De Sica regista con “I bambini ci guardano”, Soldati con “Malombra”, Luchino Visconti con "Ossessione"; si mostrano ora alcuni problemi che prima erano sempre stati tenuti ben lontano dall’obiettivo della macchina da presa. Nei mesi bui della Repubblica di Salò la produzione cinematografica continua “come se niente fosse”, anzi proprio per far sì che “tutto sembri come sempre”. Tra i molti film prodotti, ben pochi se ne possono ancora ricordare: forse “Aeroporto”, di Pietro Costa, soprattutto perché su questo film fu esercitato un diretto controllo da parte della censura nazista.
Un cenno a parte merita il filone dei film realizzati a partire dal 1935 sulle conquiste coloniali in Africa: vi si sentono influssi del cinema statunitense e di quello francese, ma soprattutto vi si cerca di mostrare il valore dei conquistatori italiani, che portano ai poveri selvaggi i doni della moralità e del benessere. Ricordiamo: “Il cammino degli eroi” di Corrado D’Errico, “Sentinelle di bronzo” di Romolo Marcellini e “Jungla nera” di Jean Paul Paulin. E’ del 1938 “Sotto la croce del sud”, di Guido Brignone, il film che esalta la possibilità di rinnovamento interiore nell’esaltante esperienza di vita nel continente africano.
Va infine ricordata la produzione cinematografica dei giovani universitari dei GUF, anche se in gran parte è andata perduta. Il ruolo degli intellettuali all’interno della rivoluzione fascista, ancora in marcia verso il superamento delle realtà piccolo-borghesi, si esprime in diversi campi all’interno dei circoli universitari di varie città italiane. Esce nel 1932 a Venezia la rivista di critica cinematografica “Il Ventuno”, più tardi vedono la luce in Emilia Romagna periodici come “Architrave” e “Spettacolo”. Facendo cinema, i giovani dei GUF, sempre molto attenti al cinema francese, si richiamano anche al cinema sovietico soprattutto per quanto riguarda le strutture del montaggio, le inquadrature, i contrasti posti a sottolineare l’idea sottostante, che è sempre e comunque l’affermazione dell’ideologia fascista.
Bibliografia· Cent’anni di cinema italiano, di Gian Piero Brunetta, Laterza Editori, Bari 1991.
· Storia del cinema italiano, volume II, Il cinema del regime 1929-1945, di Gian Piero Brunetta, Editori Riuniti, Roma 1979.
· Cinema italiano tra le due guerre, di Gian Piero Brunetta, Casa editrice Mursia, Milano 1975.
· Storia del cinema e dei film, volume I, Dalle origini al 1945, di David Bordwell e Kristin Thompson, Editrice Il Castoro, Milano 1998.
· Era Cinecittà, di Oreste Del Buono e Lietta Tornabuoni, Bompiani Edizioni, Milano 1980.
· Ma l’amore no, di Francesco Savio, Edizioni Sonzogno, Milano 1975.
· Storia del cinema, di Gianni Rondolino, UTET, Torino 1977.
· Dizionario universale del cinema, di Fernaldo Di Giammatteo, Editori Riuniti, Roma 1990.
MARIA GRAZIA MAZZOCCHI


UN FISICO BESTIALE"Lo sport abitua gli uomini alla lotta in campo aperto": così Mussolini concepiva il senso della pratica sportiva nel ventennio. E il fascismo si appropriò di palestre e campi di gioco usandoli come cassa di risonanza per "il prestigio internazionale del paese", come strumento di consenso, ma anche come elemento educativo per preparare la "nazione in armi". Dai successi della nazionale di calcio a quelli delle rappresentative olimpiche, gli atleti venivano trasformati in ambasciatori del regime.
Nel panorama degli studi sul fascismo, le indagini sullo sport e l'educazione fisica rientrano nell'ambito di quelle ricerche relative alla grande macchina messa in moto dal regime per l'organizzazione del consenso. Questo filone di studi, che ha assunto negli ultimi anni un peso e un'importanza sempre maggiori, se per alcuni settori, come la radio, il cinematografo, la stampa, la scuola, ha già dato risultati più che soddisfacenti, per altri necessita ancora di un notevole lavoro di scavo.
Per quel che concerne sport ed educazione fisica, una corretta impostazione del problema non può prescindere dalla distinzione tra i due momenti. E questo sia per ragioni tecnico-scientifiche [si tratta di discipline attigue ma diverse], sia perché non uniformi si presentano le nostre conoscenze sull'una e sull'altro nel corso del ventennio: più ampie sono infatti le indagini riguardo alle tematiche ideologiche, politiche e sociali connesse con l'educazione fisica, meno particolareggiate quelle sullo sport. Fino al primo conflitto mondiale non aveva compiuto grandi passi in Italia. Pochi impianti, poche strutture e, soprattutto, uno scarso livello di praticanti. Questo era dovuto essenzialmente allo stato di arretratezza economico- sociale in cui versava il nostro paese, ma anche, in parte, al quasi totale disinteresse su di esso mostrato dallo stato liberale. Tuttavia lo sport ufficiale si era già dato una sua fisionomia. Erano sorti il Coni [1906] e quasi tutte le federazioni [la prima, la Federazione ginnastica, risaliva addirittura al 1869] ed esisteva già un buon numero di giornali specializzati [la Gazzetta dello sport datava 1896]. Con l'inizio degli anni Venti, in sintonia anche con quanto avveniva in altri paesi, lo sport segnò una fase di decisa crescita anche in Italia. Spingevano in questa direzione la razionalizzazione del tempo di lavoro e una generale evoluzione del costume e della socievolezza urbana. Il fascismo al potere si trovò, dunque, di fronte ad un fenomeno in grande ascesa e quasi completamente da ridefinire. Mussolini, che sportivo non era [si era al più entusiasmato per qualche incontro di boxe] intuì l'importanza del fenomeno per la grande capacità di mobilitazione di cui era capace e lasciò a Lando Ferretti, un ex redattore capo de la Gazzetta, il compito di tracciarne le coordinate. Seguace delle idee di Angelo Mosso [cui avrebbe dedicato un ritratto nel secondo dopoguerra], Ferretti si ispirava ad una linea cultural-sportiva che, tenendo sullo sfondo i "collegia iuvenum" di Augusto, la "Giocosa" di Vittorino da Feltre e i moderni colleges inglesi, vedeva nell'attività fisica un mezzo per migliorare l'abilità e la destrezza del corpo, temprandolo alle più ardue fatiche, in una proficua collaborazione con il mondo scientifico.
Vinte le resistenze dei cosiddetti "integralisti", di coloro cioè che vagamente ispirandosi ad alcuni principi futuristi vedevano nello sport una forma di "esaltazione dello spirito combattivo del nuovo regime", Ferretti opera in primo luogo una netta distinzione fra sport spettacolo e sport per tutti.
Riguardo al primo punto rinforzò l'autorità del Coni [di cui divenne presidente nel 25], favorì l'espansione delle federazioni e promosse una grande campagna di costruzione di nuovi impianti [piscine, campi da tennis, piste per l'atletica], In tal modo lo sport venne ad assumere in Italia, se in taluni casi non superò, le stesse caratteristiche dei paesi più avanzati, con la differenza che, mentre nelle liberaldemocrazie lo stato si limitava a favorire e coordinare gli impulsi e l'attività dei singoli, nei regimi totalitari come il fascismo quest'opera di promozione veniva direttamente dall'alto, sottendendo proprie specifiche finalità
La nascita del tifo Soprattutto il calcio, che piaceva al fascismo per il suo carattere collettivo, che esaltava lo "spirito di squadra", conobbe un'ascesa senza precedenti. Nel 1926 la Carta di Viareggio, che prese il nome della città nella quale fu emanata, nel disciplinare parecchi aspetti ancora poco definiti [organi di giustizia, status dei calciatori, organizzazione arbitrale] stabilì finalmente un campionato a girone unico, cui fu dato vita a partire dal 1929. Nel 1926, frattanto, era divenuto presidente della Federazione Leandro Arpinati, interventista e nazionalista, che pro- fuse il suo grande attivismo in una notevole opera di modernizzazione. Nel decennio 1926-1937 si costruì un notevole numero di stadi, dei quali alcuni apprezzabili anche sotto l'aspetto architettonico, come il "Littorale" di Bologna [la città di Arpinati], il "Berta" di Firenze, quello di "San Siro" a Milano. Ma anche Torino, Napoli, Palermo e in pratica quasi tutte le più grandi città italiane furono dotate di impianti di notevole efficienza [alla fine degli anni Venti 83 capoluoghi di provincia su 94 possedevano proprie strutture]. Ma soprattutto alla fine degli anni Venti, a dimostrazione di come il fascismo tendeva ad appropriarsi di fenomeni sovente insiti nello sviluppo stesso delle cose, il calcio conobbe due eventi per certi versi decisivi: la nascita del tifo,nel senso moderno del termine, e l'incontro con la grande industria.
Sul primo punto rimandiamo alle belle pagine contenute nella recente Storia sociale del calcio di Antonio Papa e Guido Panico; sul secondo basterà ricordare come Piero Pirelli fu per anni presidente del Milan Football Club, Borletti dell'Internazionale, Edoardo Agnelli della Juventus e l'elenco potrebbe continuare. Anche la pubblicità fece la sua massiccia apparizione negli stadi e l'immagine dei calciatori più popolari venne utilizzata per propagandare sia prodotti di largo consumo, come la brillantina, sia generi di lusso, come le automobili.
La "sportivizzazione" della nazione Il grande impegno profuso nell'organizzazione e nella diffusione dello sport portò, nel giro di pochi anni, a risultati davvero sorprendenti in diverse discipline, come le vittorie ai campionati del mondo di calcio del 1934 e del 1938, il secondo posto quanto a numero di medaglie all'Olimpiade di Los Angeles, i trionfi ciclistici di Bottecchia [che tuttavia era strenuo antifascista], Binda, Guerra, Bartali, i primati di Italo Balbo nelle trasvolate oceaniche, i successi nell'automobilismo, nel motociclismo e nella motonautica, discipline molto amate dal fascismo per il loro carattere di esaltazione della macchina e della velocità. Tutti risultati che il regime tentò ovviamente di sfruttare al meglio sia per dimostrare come in poco tempo l'Italia fosse assurta al ruolo di grande e temuta protagonista internazionale, sia per incrementare a dismisura spirito e orgoglio nazionale.
"Le prodezze sportive - dichiarava Mussolini - accrescono il prestigio della nazione e abituano gli uomini alla lotta in campo aperto, attraverso la quale si misura non soltanto la prestanza fisica, ma il vigore morale dei popoli".
Tuttavia chi si è spinto a parlare di "sportivizzazione" della nazione nel corso del ventennio ha ingigantito di molto i termini della questione. Al di là, infatti, delle attività ricreative dopolavoristiche, sulle quali torneremo più avanti, nel 1930 i tesserati del Coni si aggiravano intorno alle 600.000 unità. Se si tiene conto che più della metà era costituita da cacciatori, si tratta di una media dello 0,75% dell'intera popolazione. Dieci anni più tardi si sarebbe appena giunti a toccare gli 800.000 iscritti. Ma anche gli incassi dello sport, se rapportati con quelli di altre attività spettacolari, risultano abbastanza modesti. Una statistica del 1938 relativa alle spese sostenute dagli italiani per assistere a spettacoli ci dice che il cinema primeggiava con 586,8 milioni di incassi, vale a dire il 70,6% dell'ammontare complessivo. Seguivano gli intrattenimenti [ballo, divertimenti popolari, fiere, circhi] con 105,5 milioni e il teatro con 102,2 milioni. Buon ultimo lo sport con 36,5 milioni, vale a dire poco più del 5% dell'intera spesa. Ma anche lo stesso spettacolo sportivo ci offre dati tutt'altro che omogenei. Un'inchiesta del 1936 - riportata da Ronchini e Triani nella Storia della società italiana curata dall'editore Teti - ci rileva infatti, da un lato "l'assoluto rilievo del calcio rispetto ad altre forme sportive", con il 73,4% degli incassi totali; dall'altro il suo carattere eminentemente urbano [il 91,2% della spesa concentrata nelle città]. Un terzo elemento di squilibrio ci viene dalla ripartizione geografica degli incassi per spettacoli sportivi: 64,9% al nord, 23,9% al centro, 11,2% al sud.
Decisamente più ragguardevoli i dati riguardanti lo sport praticato nelle sedi dell'Opera nazionale dopolavoro, l'istituzione di massa più rappresentativa del regime, creata appositamente per attirare i lavoratori più giovani. Nel 1935 l'Ond contava 11.159 sezioni genericamente definite "sportive" con oltre 1.400.000 praticanti e 4.704 sezioni propriamente dette "agonistiche" con 243.000 praticanti. Tuttavia se si tiene conto dei contenuti, della qualità della partecipazione e, in molti casi, del tipo di attività [pesca, bocce, tiro alla fune, tamburello] anche in questo caso è difficile parlare di "nazione sportiva", nulla togliendo ai grandi progressi comunque compiuti rispetto al passato. L'uomo integrale Diverso il discorso per quanto riguarda l'educazione fisica che conobbe nel corso del ventennio un incremento davvero notevole, in quanto fortemente legata all'idea fascista di forgiare un carattere nuovo per gli italiani, temprato alle fatiche, alle asprezze e a ogni genere di avversità. Per "preparare i giovani fisicamente e moralmente in guisa da renderli degni della nuova norma di vita italiana" fu appositamente creata, nel 26, l'Opera nazionale balilla, che doveva "provvedere ad infondere nei giovani il sentimento della disciplina e dell'educazione militare, le istruzioni ginnico-sportive, l'educazione spirituale e culturale". Al centro dell'insegnamento e dell'addestramento sovrastava ovviamente Mussolini, la cui figura, inarrivabile, poteva solo essere imitata, mentre la meticolosa coreografia dei saggi, delle sfilate, delle parate costituiva lo scenario nel quale si tentava di compiere l'autoesaltazione dell'unità morale e della vigoria fisica della "nazione nuova".
A presiedere l'Onb fu chiamato un fascista della prima ora, il carrarese Renato Ricci, che si riprometteva di offrire, "al Duce e all'Italia, dei fascisti al cento per cento, duri di muscoli e ancor più duri di carattere, preparati nello spirito e nel corpo a tutti i cimenti". Ricci, che aveva il culto dell'educazione fisica e della disciplina, per rendere autonomo e immediatamente operativo il nuovo organismo, punta in primo luogo all'edificazione di una grande rete di strutture [Case dei balilla, impianti di ogni tipo oltre al famoso "Foro Mussolini" o "Città dello sport"] utilizzando le forze giovani e più promettenti della architettura italiana, al punto che nel 1937 si contavano 890 case balilla, 1470 palestre, 2568 campi sportivi, 22 piscine. Per dare maggiore incisività all'insegnamento fondò inoltre l'Accademia fascista di educazione fisica e l'Accademia femminile fascista. Quando nel 1937 l'Onb, considerata con grande interesse anche in diversi paesi stranieri, fu soppressa e sostituita con la GIL [Gioventù italiana del Littorio] alle dirette dipendenze del segretario del partito, allora Starace, Ricci lasciava un'eredità davvero ragguardevole con i suoi 2.478.768 balilla; 2.130.530 piccole italiane; 960.118 avanguardisti; 483.145 giovani italiane. Un totale, cioè, di oltre 6.000.000 di iscritti, cifra comunque considerevole anche se l'iscrizione all'Onb era praticamente obbligatoria.
Con la GIL il panorama non mutò di molto, salvo il tentativo, sulla spinta dell'esempio tedesco, di puntare con maggior determinazione sul carattere militaresco e guerriero dell'addestramento. "Noi miriamo a fare l'uomo integrale, il fascista" teneva a ribadire Bottai, aggiungendo che solamente da questo tipo di educazione del cittadino "si forma naturalmente il soldato consapevole della sua missione a tutela e gloria della Patria e del Regime". Tuttavia, nonostante gli sforzi compiuti, al progettato "uomo nuovo" fascista non si arrivò mai. Qualcuno ha visto, alla base di questo insuccesso, la riprova dell'incapacità del regime a creare preparati quadri umanistici in grado di trasmetter nuovi insegnamenti e valori alle giovani generazioni [come afferma Renzo De Felice] ; altri vi hanno notato invece, ancora una volta, il prevalere su ogni altra considerazione del "moderatismo italiano", di quel desiderio, cioè, "di quieto vivere" insito nella piccola borghesia italiana e che contraddistingue tutto il percorso storico.
Lauro Rossi