quarta di copertina da "I Simpson e la filosofia"

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sabato 4 agosto 2007

INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA ORIENTALE

1 LA FILOSOFIA INDUISTA

Caratteristiche generali del pensiero induista
Il pensiero filosofico indiano mostra una ricchezza, una sottigliezza e una varietà tali che non ha nulla da invidiare al pensiero occidentale. L'aspetto più importante del pensiero filosofico indiano è il suo carattere pratico. Fin dal primo inizio, 4000 anni prima di Cristo, le speculazioni dei saggi indiani erano rivolte alla risoluzione dei problemi fondamentali della vita. La loro filosofia nasce dai loro tentativi di rendere migliore la vita. Dalla vita pratica veniva l'esperienza delle forme di dolore e sofferenza più comuni - malattia, povertà, fame, morte. Agiva poi l'innata curiosità umana di comprensione e conoscenza. La comprensione e la conoscenza, frutto della curiosità speculativa, furono utilizzate nel tentativo di sconfiggere la sofferenza. In che modo? La risposta dell'India fu quella di mettere in primo piano il controllo dei desideri. Ne risulta che i filosofi indiani tendono ad insistere sull'auto-disciplina e sull'auto-controllo come pre-requisiti per raggiungere una vita felice. Questo bisogno di regolare e controllare i desideri annette un'importanza fondamentale alla conoscenza di sé. La stessa parola che indica la filosofia, è il termine darshana, che in realtà significa visione, nel senso di ciò che si riesce a vedere dopo che si è indagata la realtà suprema. Naturalmente è possibile che una visione contenga degli errori e le cose possono non essere viste come sono in effetti. Di conseguenza, il filosofo deve giustificare la sua visione fornendo le prove della sua veridicità. Ebbene, i filosofi indiani hanno sempre insistito che la pratica è la vera prova della verità. Le visioni filosofiche devono essere messe in pratica e e la vita deve essere vissuta in conformità con gli ideali di quella particolare concezione. La qualità della vita che è vissuta in conformità con questi ideali costituisce la prova finale di qualsiasi concezione. Migliore diventa la vita, più prossima alla verità totale è la visione. La visione che rende possibile una vita liberata dalla sofferenza, è giustamente chiamata una vera filosofia. Per cui non ha senso, nel pensiero indiano, dire ad es. "Buona in teoria,ma non in pratica". Buona in teoria, significa, necessariamente, per il pensiero indiano, anche buona in pratica. Se una teoria non può essere messa in pratica in essa c'è qualcosa di sbagliato. L'identificazione della via verso la vita felice con la visione della vita felice stessa, in India, è il fattore di integrazione tra la filosofia e la religione. Filosofia e religione non sono considerate due attività separate. L'insistenza indiana sulla pratica come banco di prova della verità filosofica ebbe anche un altro effetto, quello di porre l'accento sull'approccio introspettivo. Per vincere la sofferenza il filosofo deve guardare dentro se stesso, nella propria vita, e valutare ciò che vi andava accadendo. Era necessario osservarne i cambiamenti e darne una valutazione affinché l'individuo potesse proseguire nella propria auto-analisi. In filosofia la verità dipende dal soggetto umano, e l'esperienza di un altro può essere conosciuta soltanto come un oggetto. Di conseguenza non si può rifiutare l'esperienza altrui come insoddisfacente o inadeguata. Il riconoscimento di ciò ha portato ad un atteggiamento tollerante e sintetico che viene comunemente espresso dicendo che, sebbene non ci possa essere una visione, in se stessa, assolutamente vera e completa, nondimeno ogni visione contiene almeno dei barlumi di verità, e tenendo conto dei punti di vista e dell'esperienza delle varie visioni, si arriva ad ottenere la verità assoluta ed una visione totale.
Oltre a questi aspetti che sono frutto del suo orientamento pratico, nel pensiero indiano c'è una diffusa tendenza a presupporre una giustizia morale universale. Il mondo è visto come una grande rappresentazione morale governata dalla giustizia. Qualsiasi cosa, buona o cattiva o indifferente, è guadagnata e meritata. L'effetto di questo atteggiamento è quello di rendere l'uomo stesso direttamente responsabile della sua condizione umana. In quanto individuo, è responsabile di ciò che è e di quello che diventa. Ne pensiero filosofico indiano c'è anche un consenso piuttosto esteso nei riguardi del non-attaccamento. La sofferenza proviene dall'attaccarsi a ciò che non si ha, o anche a ciò che non si può avere. Così il non-attaccamento è riconosciuto come il mezzo essenziale per la realizzazione della vita felice.

L'induismo in generale
Nell'Induismo l'intuizione fondamentale è che la realtà è Una. Il mondo, l'uomo, gli dèi, le cose che sono state, sono e saranno. Tutto questo è l'unica e medesima Realtà: "Tutto è Brahman" (Chandogya Upanisad). E quando la persona ha attinto una conoscenza illuminata, anche lei può dire: "Io sono Brahman" (Brhadaranyaka Upanisad).Il Brahman è l'"Uno, senza secondo" (Chandogya Upanisad).L'io profondo dell'uomo, l'Atman, è anch'esso identico al Brahman. "Questo Atman dentro il mio cuore è più piccolo di un grano di riso o di frumento, di un seme di senape o di un grano di miglio; e tuttavia questo Atman dentro il mio cuore è più grande della terra, più grande dello spazio atmosferico, più grande del cielo…Questo Atman dentro il mio cuore è il Brahman stesso" (Chandogya Upanisad). E per quanto riguarda l'uomo, l'Induismo ripete da secoli la frase di Uddalaka a suo figlio Svetaketu: "Tu sei Quello" (Tat tvam asi) (cfr. Chandogya Upanisad). Viene così riconosciuto che il Brahman-Atman è l'unico Assoluto, la radice e il fondamento di tutto, il Signore che regge e sostiene ogni cosa, la guida interiore e il fine di ogni vivente. In questo senso, il mondo non è creato e non ha consistenza in se stesso. Sia che esso venga concepito come Maya (illusione) presso il saggio Sankara (788-820 d.C.), o venga piuttosto descritto come il gioco di Dio, lila, presso i Visnuiti, esso è l'eterna manifestazione dell'eterno esistente, il volto fenomenico dell'Eterna Persona, la dimora mutevole del Permanente Inabitante. Quando si parla di inizio o di fine, di creazione e di distruzione, le parole si riferiscono ai processi ciclici di apparizione e di sparizione delle cose, di uscita e di rientro delle medesime nella loro eterna Origine.
Tutto ciò che appare è lo stesso Brahman, che si manifesta attraverso ogni cosa. Egli è la Realtà vera di ogni manifestazione. Solo se si considera un fenomeno a sé stante, si può parlare di inizio e di fine, di nascita e di morte; ma il fenomeno stesso è sempre stato in seno al Brahman, e sarà in lui eternamente custodito. Allora l'uomo non muore con la sua morte fisica? Non solo l'uomo non muore, ma in realtà egli non è mai nato. La risposta che Krsna dà ad Arjuna nella Bhagavad Gita è la seguente: "Non ci fu mai un tempo in cui non ero, io, tu, e questi prìncipi tutti, né ci sarà mai un tempo in cui non saremo, noi tutti, dopo questa esistenza. A quel modo che in questo corpo il sé incorporato passa attraverso l'infanzia, la giovinezza e la vecchiaia, così, alla morte, egli assume un altro corpo. Il forte non è su ciò mai perplesso" (2,13-14). In altre parole, l'io profondo di ogni uomo, la verità della sua persona, è l'Atman, ed esso è identico al Brahman. "Egli non nasce e non muore mai, né, essendo stato, v'è tempo in cui non sarà ancora. Innato, eterno, permanente, antico, egli non muore, quando muore il corpo…A quel modo che un uomo abbandona i suoi vecchi vestimenti e ne prende di nuovi, così il suo sé abitante nel corpo abbandona i suoi vecchi corpi e ne prende di nuovi"(Bhagavad Gita, 2, 21-23).
Com'è possibile che un uomo assuma diversi corpi? Per rispondere dobbiamo ricordare che l'induista è un uomo di fede e perciò dà fiducia a quello che i Rsi (i saggi ispirati che hanno veduto gli inni vedici e conoscono la verità) gli hanno tramandato. In base a questo, il singolo uomo che viene al mondo, era in cammino fin dall'eternità, per quel giorno, e l'eternità è di nuovo il resto del cammino che deve percorrere. Egli è sempre stato e sempre sarà. E come egli è emerso dal seno del Brahman alla superficie della storia, così pure - a livelli più o meno elevati - egli ha sempre fluttuato tra le onde di quell'oceano, che è il fenomeno cosmico, e ancora fluttuerà, se la Grazia della Liberazione(Moksha o Mukti) non lo riporterà di nuovo in seno al Brahman. Come poi questo avvenga, che cosa significhi assumere diversi corpi, e come sia possibile per l'uomo conservare la propria identità attraverso tutto questo, è una risposta che richiede una conoscenza che non necessariamente coincide con quella che l'uomo ha ora. E qui l'Induismo da interrogato diventa interrogante e chiede: "tu che non ti ricordi neppure che cos'eri durante la tua infanzia, che non sai nulla di quello che eri nel seno di tua madre, che cosa puoi sapere di quello che eri prima di essere concepito, e di quello che sei in seno a Dio?". Gettato nel mondo, l'uomo rimane in balia del ciclo delle nascite e delle rinascite (samsara). L'uomo non potrà uscire dal samsara finché non attingerà l'Assoluto. Questo è il problema della Liberazione. Per l'Induismo si tratta allora non di fuggire dal mondo quanto piuttosto di rientrare in seno al Brahman. Ciò che lega l'uomo al ciclo delle nascite e rinascite è il karma (azione). L'uomo è normalmente spinto all'azione dal desiderio (kama) dei suoi frutti, dei suoi esiti. Ora, il desiderio dell'uomo nasce dal contatto con la realtà fenomenica e rimane chiuso entro i suoi confini. Per cui l'azione umana piuttosto che essere un fattore di liberazione, è la causa che vincola l'uomo al ciclo delle nascite e rinascite. Anche se l'uomo osservasse perfettamente tutta la Legge (Dharma), potrà ottenere una rinascita nobile, ma mai la liberazione. La Bhagavad Gita dice chiaramente che l'uomo non può essere liberato grazie alle azioni compiute secondo la Legge, mentre la liberazione è il perfetto congiungimento con l'Origine ultima di tutte le cose. Questo presuppone che si faccia pieno spazio alla sua presenza e alla sua azione. Essa è opera del supremo Signore; a Lui l'uomo deve affidarsi. Krsna dirà ad Arjuna: "Abbandonando tutte le idee di Dharma, prendi rifugio in me soltanto. Io ti libererò da ogni peccato. Non ti addolorare" (Bhagavad Gita, 18,66).
Ma allora Dio è per l'Induismo è personale o impersonale? Il Brahman-Atman delle Upanisad è un Assoluto impersonale, mentre la Bhagavad Gita introduce una concezione personale di Dio. Egli è la Persona suprema, che salva il suo fedele. Tale concezione è fondamentale per capire il tipo di Yoga che la Bhagavad Gita presenta come strumento di liberazione.
Yoga significa anzitutto unione e, in riferimento al diverso modo di concepire il termine di questa unione ed i metodi per realizzarla, si danno diversi tipi di Yoga. Lo Yoga classico comprende un insieme di tecniche che mirano al completo possesso di sé. La Gita accetta le tecniche dello Yoga, ma sostiene che, dopo tutti gli sforzi umani, è comunque Dio che viene incontro al suo devoto, ed in questo incontro si realizza la liberazione. Vi è una triplice via per la liberazione (trimarga): l'azione (karma yoga), la conoscenza (jnana yoga) e la devozione (bhakti yoga).
la via dell'azione è la via di colui che, sapendo che è Dio che agisce in ogni cosa, affida a Lui ogni sua azione e la compie senza attaccamento ai frutti;
la via della conoscenza non è la conoscenza che tutto è Brahman, ma è piuttosto la Grazia di una Rivelazione, manifestazione della Forma suprema di Krsna;
la via della devozione è la vera e propria essenza dell'Induismo, quella che permette di raggiungere la liberazione, ed è opera solo del Signore stesso. "Non per Veda, per i sacrifici e gli studi, non per le elemosine, non per i riti, non per le dure penitenze, posso io esser visto in tale forma qui nel mondo degli uomini: a te soltanto io l'ho rivelata, o campione dei Kuru…ma per la devozione diretta a me solo, o Arjuna: per essa io posso essere così conosciuto, veduto secondo realtà e penetrato, o Arjuna. Colui le cui azioni sono fatte per me, il cui supremo bene son io, colui che è a me devoto, privo di attaccamento, privo di odio verso i vari esseri, costui entra in me, Arjuna" (Bhagavad Gita, 11, 53,59-60).
Dopo il superamento di ogni concezione politeistica, l'Induismo ha tranquillamente rimesso in luce figure di dèi del pantheon vedico, quali Vishnu, Shiva e le Shakti, sapendo perfettamente che questi non erano degli dèi, bensì aspetti manifestativi dell'unico Dio personale. Dobbiamo anche precisare qui, perché molto nota in Occidente, che la celebre Trimurti (Brahma come creatore, Visnu come conservatore e Shiva come distruttore) è una elaborazione teologica posteriore che non riproduce reali movimenti devozionali all'interno dell'Induismo. Non esistono movimenti devozionali rivolti alla Trimurti. Inoltre essa non ha nulla a che vedere con la Trinità cristiana: non sono tre distinte persone, ma è il triplice modo di manifestarsi dell'unica sostanza divina. Insomma, quando l'Induismo parla di dèi, è solo per esprimere, attraverso essi e alle relative mitologie, i vari aspetti dell'unico ed identico Dio. Fatta questa premessa, si può parlare degli dèi dell'Induismo, che sono molti. Shiva rappresenta l'aspetto paterno di Dio, ma è anche distruttore e ricreatore di tutte le cose. La sua shakti (l'energia eterna di Dio) è anche vista come Kali, dea della distruzione (ma poiché distrugge anche i demoni, è anche dea della protezione). Vishnu è l'immagine di Dio che ha forse il culto maggiore perché è legata alla sue numerose incarnazioni o discese (avatar), alcune delle quali, come Krsna e Rama, sono universalmente popolari. E poi vi è Ganesha, col corpo umano e la testa di elefante, figlio di Shiva, dio della conoscenza e della liberazione; Karttikeya, anche lui figlio di Shiva, dio del coraggio e della potenza; Hanuman, in forma di scimmia, personificazione della fedeltà, alleato di Rama; Agni, dio del fuoco, invocato nei sacrifici. Manasha, regina dei serpenti (naga) ecc.
I testi sacri. Sono divisi in due categorie: i testi uditi o della rivelazione (srti), e i testi appresi o testi della tradizione (smrti).Ai primi appartengono i Veda e le Upanishad, chiamate anche Vedanta, ovvero fine dei Veda. Le smrti più note sono invece le due epiche: il Mahabharata (o grande India), che contiene nel sesto libro la Bhagavad Gita; e il Ramayana, in cui appaiono rispettivamente le due più popolari incarnazioni di Visnu, e cioè Krsna (nella Bahagavad Gita) e appunto Rama.
Le cerimonie. Anche nell'Induismo moderno rimane il rito del sacrificio (Yajna), che consiste nell'offerta alla divinità di burro fuso, cereali, talvolta anche animali e del soma (liquore estratto da un vitigno, che è una sorta di bevanda dell'immortalità, offerta in libagione agli dèi; è anche sinonimo della Luna, per la somiglianza del colore; è estratto dalla asclepias acida). Normalmente queste offerte sono consumate nel fuoco e il sacerdote prega Agni di portarele offerte al cospetto divino. Il rito post-vedico più comune è la puja, la cerimonia di venerazione della divinità, durante la quale una statua del dio viene unta, vestita, ornata e profumata; vengono offerti cibo e bevande che però non sono consumati nel fuoco ma ridati ai fedeli; in particolari occasioni l'immagine del dio è portata in processione fuori del tempio. La forma normale della preghiera è la japa, che consiste nella recitazione e ripetizione di mantra, ossia parole e formule sacre. Il mantra più importante è la ripetizione del suono Om o Aum, che indica il Brahman. Ci sono poi ovviamente riti particolari per i diversi stadi della vita: nascita, ammissione ai doveri della propria casta, matrimonio, malati, defunti ecc.
Le feste. In primavera si celebra Holi: la festa coincide con la luna piena del mese di Phalguna (febbraio-marzo). È appunto celebrata con la holi, una mistura di acqua, calce e altro che i fedeli si spruzzano reciprocamente. Oggi è connessa con la venerazione soprattutto di Krsna. In autunno c'è la festa di Dashara, nei primi dieci giorni del mese di Ashvina (settembre-ottobre). In essa viene onorata la shakti di Shiva (cioè Durga o Kali), ed è cara ai Shivaiti. Ma al decimo giorno si uniscono anche i Visnuiti perché si celebra la vittoria di Rama sul demone Ravana e la liberazione di Sita, sposa di Rama. A Shiva è consacrato ogni 14° giorno del mese lunare, ed in particolare è celebrato il 14 del mese di Magha (gennaio-febbraio), detto la notte di Shiva.
L'etica induista in generale
Nell'Induismo in generale la morale mantiene il suo carattere distaccato di mezzo e di purificazione (non è, come vedremo, come quella buddhista, in cui conta anche la partecipazione, la compassione, l'amore). Propedeutica della vera conoscenza, trascura le esigenze della vita associata o non vi insiste; ha di mira non i rapporti dell'uomo con la comunità ma dell'uomo con l'assoluto, è pertanto ascetica piuttosto che morale. La morale si riduce ad un conflitto tra i desiderio, cioè il richiamo della vita, e la saggezza, cioè il superamento della vita. Quindi le proibizioni prevalgono sulle ingiunzioni; il peccato interessa più della virtù, e per peccato si intende il prevalere dell'istinto e dell'ignoranza. Nella Bhagavad Gita precetti morali e ingiunzioni religiose sono ancora congiunti.
La vita viene considerata dagli indiani duplice, come sotto una doppia luce. Da un punto di vista relativo, conmvenzionale, la società è divisa in caste e l'uomo è sottomesso a regole e doveri diversi a seconda dell'età. Ogni uomo passa per quattro momenti: la giovinezza, quando la continenza dei sensi è d'obbligo; l'età matura, quando col matrimonio e l'operosità attiva si assicura la continuità della famiglia e si assolve il dovere verso gli antenati; la rinuncia, quando giunge la vecchiaia; in ultimo lo stato di vanaprastha,il ritiro nella selva, in un completo distacco nell'attesa della morte.
Ma oltre questa vita, vi è l'altro piano, il piamo al di là del samsara, lo stato del Brahman, l'isolamento definitivo dell'anima da ogni contatto o suggestione dai vincoli della materia. Questo stato si consegue non con l'azione ma con la cessazione dell'azione. Ogni nostra attività deve quindi essere volta al supremo bene(naihsreyas), che coincide con l'arresto e il superamento del samsara. Perciò l'attenzione è tutta portata non tanto sui doveri umani quanto sulla ricerca della conoscenza che conduce all'arresto definitivo della vita. Il bene compiuto e io rispetto delle regole religiose sono certo preferibili al male, ma ci legano comunque all'esistenza, il loro frutto è perituro, limitato nel tempo. Non l'azione dunque, ma lo yoga, l'ascesi, agevolata e preparata dallo yoga, la gnosi, la conoscenza, il superamento del bene e del male. Ecco perché anche l'azione meritoria dev'essere disinteressata, non la deve accompagnare nessun pensiero di ricompensa futura.
Ma come si fa a predicare la rinuncia quando la vita stessa con le sue richieste implacabili ci getta in braccio al peccato? Non c'è dunque conflitto tra le ingiunzioni della religione e della mistica ed i doveri sociali? Fu il problema che si pose e cercò di risolvere il Bhagavad Gita. La risposta di Krna ad Arjuna è: l'atman che abita in fondo a ciascun uomo, amico o nemico che sia, è uguale in tutti. Colpendo i corpi, privando della vita i propri nemici, Arjuna non commette peccato perché egli è un guerriero e ciascuno deve assolvere i propri doveri, fissati dalla nascita. Peccherebbe invece non già uccidendo i nemici ma abbandonando il campo, perché questo sarebbe viltà e coprirebbe di vergogna sé e la sua famiglia. Ciò che occorre è compiere il proprio dovere. L'azione non si può evitare, visto che la vita stessa è incessante azione, ma bisogna stare attenti ad agire senza desiderio od odio, senza che le passioni ne siano il nascosto movente.

1. 1 Scuole filosofiche classiche
GIAINISMO (o JAINISMO)
Il Giainismo deriva il nome dal suo fondatore, Mahavira (morto nel 476 a.C.), che fu chiamato Jina, (il vittorioso), con un appellativo che non è proprio solo di lui ma di tutti quelli che hanno superato il mondo e vinto le passioni, come ad es. Buddha.
La filosofia giainista è una sorta di pluralismo dualista. Da un lato c'è l'anima, dall'altro la materia. Le anime, le forze vitali (jiva) sono infinite e pervadono la materia ed i corpi. In noi è presente una tendenza innata alla perfezione, anche se è offuscata dalla materia. Per cui vi sono due tipi di anime: quelle legate al samsara, e quelle libere (kevalin), che sono diventate pura coscienza e pura luce.

LE SCUOLE MATERIALISTICHE
Le scuole materialistiche sono chiamate con vari nomi: Charvaka, Lokayatika, Nastika. Esse negano il karma, la responsabilità morale come causa della ricompensa o dell'espiazione in un'altra esistenza. Molti indirizzi erano arrivati alla conclusione che il karma non esiste, che l'azione buona o cattiva non porta frutto di cui poi l'uomo debba godere o soffrire. Alcuni affermavano che la vita è retta dal destino. Gli ajivika, per esempio, che riconoscevano come loro maestro Makhali Gosala, ammettevano l'esistenza dell'anima, ed erano dell'opinione che il ciclo del samsara si svolgesse per 84 milioni di eoni, dopo di che la liberazione poteva essere raggiunta indipendentemente dal karma, perché tutto ciò che avviene si svolge per opera del destino (niyati).
Altri affermavano che ogni avvenimento è dovuto all'impulso della natura propria delle cose in virtù di un automatismo del loro essere stesso o alla maturazione del tempo. Altri, infine, negavano l'esistenza del bene e del male, e non ammettevano che un cieco impulso vitale: alcune correnti si riducevano ad un semplice edonismo senza pretese speculative. Il che indica quanto complessi e vari fossero gli indirizzi della speculazione induista.
IL SANKHYA E LO YOGA
I due sistemi sono in genere considerati insieme perché hanno molte dottrine comuni, tranne il fatto che alcune correnti del Sankhya non ammettono l'esistenza di Dio mentre lo Yoga la postula. L'esposizione più antica del Sankhya è l'opera di Isvarakrsna intitolata Sankhyakarika(4°-5° secolo d.C.) in 72 versi. Invece la letteratura yoga si incentra intorno agli Yogasutra di Patanjali (2° sec. a.C.).
Sia il Sankhya che lo Yoga ammettono due sostanze opposte ma ugualmente eterne: da un lato le anime (purusha), che sono infinite e semplici, e dall'altro la prakrti,che sarebbe un po' la nostra natura o materia, unica, dinamica, complessa. Il processo cosmico o, come diremmo noi, l'evoluzione della natura o della materia è ciclico (teoria accettata da tutte o quasi le scuole dell'India) e può avvenire ovviamente in due sensi: o dall'alto verso il basso, dalla natura evoluta alle sue forme più semplici, o dal basso verso l'alto, prendendo in considerazione le forme più semplici fino ad arrivare a quelle più evolute. Le anime sono luminose, pura intelligenza, ma inattive, impassibili, non soggette né a gioia né a dolore: sono all'incirca l'io della coscienza. Le anime devono conquistarsi la liberazione definitiva attraverso l'esperienza della vita: occorre che avvenga il contatto con la materia, e quindi la conquista della consapevolezza attraverso la sofferenza vissuta, perché sia per sempre rotto l'incanto e la materia non possa più avere presa sull'anima. Fino a quanto ciò non avviene, l'anima è incatenata al fascino del materiale. Il ciclo samsarico avrà fine quando nascerà nella psiche, attraverso la conoscenza data dal Sankhya e dallo Yoga, la consapevolezza della distinzione tra l'anima (purusha) e la psiche stessa (buddhi). Essendo così eliminata l'ignoranza, la psiche (buddhi) ritorna allo stato di purezza originaria.
Lo Yoga, a differenza del Sankhya, ammette l'esistenza di un Dio come supremo regolatore del moto della natura, la quale, non essendo intelligente, non potrebbe svolgersi con la necessaria regolarità intesa alla liberazione delle anime. Dio non è creatore ma è un'anima somma, che con la sua perfezione stimola l'uomo a liberarsi dai vincoli materiali. Il concetto di Dio è così passato per diversi stadi: dalla primitiva, indifferente presenza, Dio è diventato a poco a poco il Supremo signore onnipotente, Isvara. Altra differenza notevole tra Yoga e Sankhya è il fatto che la liberazione, per lo Yoga, non deriva soltanto dalla conoscenza, quanto dalla rigida disciplina ascetica. Deve cioè compiersi un progressivo svuotamento dell'individuo: astensione dall'offesa ad ogni creatura vivente, rispetto della verità, desistenza dal furto sia pensato che eseguito, rifiuto di possedere ogni cosa che non serva al puro sostentamento, purezza di spirito e di corpo, indifferenza a tutto ciò che può succedere, ascetismo, studio dei testi sacri e devozione verso Dio. Si prescrive quindi l'uso di posture convenienti alla meditazione, il controllo del respiro (pranayama),che è premessa essenziale per il controllo del pensiero e la sottrazione dei sensi da ogni influsso dei propri oggetti, in modo che la loro funzione sia ridotta a semplice percezione senza partecipazione dell'io (pratyahara). Alla fine vi sarà lo stato supremo in cui è raggiunto l'arresto delle funzioni mentali (nirodha-samadi o asamprajnata).

NYAYA E VAISESIKA
Anche questi due sistemi sono stati tradizionalmente abbinati, anche se hanno fondamenti diversi. Il Nyaya è, almeno alle origini, prevalentemente un sistema di logica che aiuta a motivare le proprie opinioni; solo in seguito diventerà un sistema metafisico. Il Vaisesika si occupa di classificare i dati dell'esperienza e di ridurli ad alcune categorie fondamentali, e quindi propone una teoria atomica che indaga la natura degli atomi, della loro combinazione e degli elementi che ne derivano. I testi canonici sono i Vaisesikasutra attribuiti ad un brahmano chiamato Kanada, redatti verso il 1° o 2° secolo d.C; i Nyayasutra, attribuiti ad Aksapada, nel 3° secolo.
Secondo il Vaisesika, tutto ciò che si percepisce è reale. Le cose esistono indipendentemente dal fatto che noi le percepiamo. Il mondo è eterno ed è il risultato di una combinazione di atomi in continuo movimento. Dio non è creatore ma è la causa efficiente dell'universo e il regolatore del karma. Quando avviene la liberazione, l'anima tornerà nella sua essenziale immobilità, inattività e inconsapevolezza, distaccata dal mutevole mondo terreno.
Lo scopo del Nyaya è la conoscenza della realtà conoscibile attraverso quattro mezzi appropriati: percezione, inferenza, analogia o comparazione, testimonianza autorevole. Per cui conoscenza vera è quella che non sarà mai soggetta a contraddizione o dubbio, che riproduce l'oggetto come realmente è, e ci presenta insomma in maniera fedele un oggetto qualunque. Questa soltanto è conoscenza, ed è da distinguere dal ricordo, dal dubbio, dal ragionamento puramente ipotetico.

LA MIMAMSA
Questo sistema si riallaccia ai Veda. I primi Mimansasutra sono stati redatti tra il 200 a.C. e il 200 d.C. Pensatori famosi di questa corrente furono Kumarila e Prabhakara (entrambi del 7°-8° sec. d.C.) e Khandanadevamisra( 16°-17° sec.). Il karma domina sovrano, inteso non solo come atto morale, ma soprattutto in senso rituale, come atto liturgico: l'universo e l'uomo sono retti dal sacrificio. Da ciascun momento del rito, quando esso sia compiuto secondo le regola, si sprigiona un risultato parziale, che sommandosi con gli altri risultati parziali dell'atto sacrificale, si trasforma in un risultato complessivo e globale. Il rito conduce al proprio fine in maniera puramente meccanica. Tale sistema non ammette nell'ordinamento dell'universo nessun intervento divino, per il fatto stesso che un Dio creatore e distruttore dell'universo non esiste. La Mimamsa accetta una concezione realistica dell'universo: le cose che cadono sotto i nostri sensi sono reali. Al di là della materia, esistono innumerevoli anime, che sono eterne, le quali trasmigrano di corpo in corpo per scontare i risultati delle azioni compiute, fino a quando l'atto sacrificale non abbia eliminato del tutto il residuo karmico. Rinuncia e devozione non servono a nulla: soltanto il rito cancella il karma e separa l'anima dal corpo, interrompendo il ciclo samsarico. La liberazione consiste nella interruzione del processo karmico volto sia al male che al bene, perché anche il bene fatto con la speranza di ricompense, in questa o nell'altra vita, mantiene sempre legati all'esistenza e al samsara. La Mimamsa resta dunque soprattutto una severa ed austera disciplina ed una teoria sacrificale precisa, minuta e cavillosa. Ma come si può essere certi che l'atto sacrificale abbia tanta infallibile efficacia? I mimansaka (seguaci del Mimansa) poggiano la loro certezza sui Veda, considerati come la massima inconfutabile autorità. I Veda sono eterni.

IL VEDANTA DI SHANKARA
Shankara (788-820) muove dall'assoluto e a quello contrappone lo stesso mondo dell'esperienza quotidiana come il non-essere illusione (maya), ignoranza (avidya). Nella rivelazione delle Upanishad, dice in sostanza Sankara, è contenuta intera la verità. La ragione non serve a scoprire la verità ma a dimostrare la legittimità di quella rivelazione e la coerenza logica delle sue osservazioni. Egli vuole così opporsi alle teorie del giainismo e del buddhismo.
Siccome l'io assoluto (Atman e Brahman) è l'unica realtà rivelata dalle Upanishad, tutto ciò che non è questo io è un non essere, è irreale. Il rapporto tra l'assoluto e l'apparenza è illustrato da Shankara con esempi: di notte vedo luccicare qualcosa e prendo per argento quella che è invece una semplice conchiglia. Così, in virtù della maya, l'Uno mi appare molteplice, riflesso in un numero infinito di io particolari; ma essi scompaiono quando si giunge alla consapevolezza dell'unico Io. La maya è dunque una libertà magica che è presente nel Brahman come il potere di bruciare è inerente al fuoco; in virtù della maya, il Brahman nasconde la propria essenza e si proietta in una molteplicità apparente che lo fa sembrare come diverso da quello che è, cioè come mondo o come io singolo.
Commisurate alle possibilità degli uomini, esistono due forme di verità: una assoluta, riservata a pochi eletti, e l'altra relativa. La maggior parte degli uomini è ottenebrata dall'ignoranza per cui vive nella convinzione della realtà del mondo fenomenico, retto da un Dio personale. Al contrario, per colui che è giunto alla percezione dell'unica autentica realtà né i riti, né le opere buone, né adorazione di una divinità particolare hanno più valore; però, questi atti, uniti all'osservanza dei precetti morali e sociali insegnati nei Veda, sono efficaci affinché coloro che sono ancora nell'errore possano risalire, nel corso delle esistenze, ad un grado tale di perfezione tale da raggiungere la verità assoluta e con essa la definitiva liberazione. Giustificando in tal modo da un lato le tradizioni antiche e ponendo dall'altro le basi per un misticismo religioso intellettualmente elevato, Shankara è stato in grado di soddisfare i bisogni religiosi tanto dell'uomo colto che dell'ignorante: di qui la straordinaria fortuna della sua dottrina e l'unanime stima goduta dalla sua persona.
RAMANUJA
Ramanuja (1017-1137, vissuto secondo la tradizione ben 120 anni), è il fondatore di un altro famoso indirizzo nella filosofia indiana, la scuola del Visistadvaita (monismo differenziato). Partendo anch'egli dalle Upanishad, elabora un sistema teistico: Dio ha creato il mondo lo crea traendolo da sé. Infatti in Lui c'è tutto, sia spirito che materia. Il mondo quindi è parte di Lui ed è dunque reale, non è solo un'apparenza (come diceva Shankara) e costituisce il corpo di Dio, il quale è immanente in tutto l'universo ma, nello stesso tempo, lo trascende. Tra Dio da una parte e le anime individuali ed il mondo dall'altra, c'è lo stesso rapporto che c'è tra l'anima e il corpo umano: come i difetti del corpo non sono i difetti dell'anima, così le nostre imperfezioni e quelle del mondo non sono le imperfezioni di Dio. La via che conduce alla liberazione è il bhakti-yoga, o via della devozione, che consiste nell'abbandono del fedele al Signore. Conseguendo la liberazione, l'anima del fedele si unisce a Dio (Vishnu), rimanendo però da Lui distinta e conservando la propria personalità.
1.2 Pensatori moderni
RADHAKRISHNAN (1888-1975)
Sarvepalli Radhakrishnan, che è stato anche presidente dell'India, è autore di moltissimi articoli e dozzine di libri di filosofia. IN primo luogo egli non ritiene contraddittorio che un filosofo partecipi attivamente agli affari politici e sociali, poiché questi sono apparenze del Brahman e sono quindi dei mezzi da utilizzarsi nello sforzo di raggiungere l'esperienza della realtà suprema. La filosofia di Radhakhrisnan è stata dunque un tentativo di elaborare una esauriente filosofia della religione. Il compito della filosofia della religione com'è intesa da lui è quello di sviluppare una teoria sulle natura delle cose nel mondo che possa rivelare le relazioni tra il mondo, l'anima e Dio. La teoria deve spiegare i fatti dell'esperienza religiosa e nello stesso tempo ammettere la ragione: in altre parole, ammessa la coerenza razionale, la teoria deve avere le sue basi nell'esperienza religiosa stessa. Per Radhakhrisnan la teologia, il dogma, il rituale, le altre varie istituzioni sono le eterne trappole della religione, non la sua essenza. L'essenza della religione è invece il tentativo di scoprire le possibilità ideali della vita umana. Questa ricerca è personale e coinvolge necessariamente l'intera persona. La religione include quindi la sensazione, la ragione, la volontà e va ancora oltre tutto questo verso il centro più profondo della persona, dov'è la vera sorgente dell'uomo e, integrando queste facoltà, le guida per trasformare la vita della persona in qualcosa di completo e di integro. Questo sé interiore è descritto come Spirito, e la sostanza e l'essenza della religione è l'esperienza della vita dello Spirito. Così come cambiano le forme della cultura e della civiltà, debbono mutare anche le forme di religione, in modo da poter manifestare adeguatamente l'esperienza dell'incontro spirituale. Se nell'esperienza religiosa viene coinvolta tutta la persona, essa è radicalmente da qualunque altra esperienza l'uomo possa fare. In questo senso, le distinzioni che normalmente si fanno tra soggetto e oggetto e tra una facoltà e l'altra, sono abbandonate per affermare che nell'esperienza religiosa il soggetto e l'oggetto si fondono divenendo un'unità. Ma quando è abbandonata la distinzione tra soggetto e oggetto sono abbandonate anche tutte le altre consuete distinzioni presupposte dal pensiero. Passato, presente e futuro diventano pure astrazioni, prive di realtà. C'è soltanto l'adesso, privo di dimensioni ed il qui, senza collocazione.
L'intento fondamentale della religione consiste nell'aiutare l'individuo a rendersi conto che può elevarsi oltre i limiti imposti dalla materia, dalla vita o dalla coscienza, fino a capire che nel suo essere più profondo egli è identico con lo Spirito Assoluto ed è in verità completamente libero dalle limitazioni inerenti all'identificazione con un particolare modo o funzione dello Spirito. Tutto ciò è possibile soltanto per mezzo di un'attività pratica, un'attività dell'essere piuttosto che della conoscenza. È la realizzazione spirituale dell'insegnamento di Uddalaka a suo figlio Shetaketu: "Tu sei quello".

AUROBINDO (1872-1950)
Per Sri Aurobindo il grande problema del giorno d'oggi è la trasformazione dell'uomo attuale nel grande essere spirituale che potenzialmente è. La vita divina è per Aurobindo la vita vissuta nella piena realizzazione del Brahman, e lo yoga è il mezzo per questa vita. Lo yoga dev'essere praticato come mezzo per cambiare la condizione attuale dell'umanità. Il Brahman ha dato origine all'universo senza alcuna ragione, traendolo semplicemente fuori dalla pura esuberanza del suo essere. L'universo esiste perciò come gioco di pura esistenza. Ma non è un gioco capriccioso, poiché è diretto dall'Assoluto. L'evoluzione dell'universo verso forme sempre più alte di vita e di coscienza è così un ritorno verso la fonte di ogni cosa, verso il Brahman. La tendenza dell'esistenza umana è quella di spingersi verso livelli superiori di esistenza: per fare ciò viene in aiuto lo yoga, che comprende però ogni cosa e non è riducibile a mera ascesi fisica. Per questo ci vogliono anche condizioni materiali e sociali che permetteranno all'uomo di arrivare oltre se stesso, elevando la sua esistenza fino alla vita divina. Perciò devono essere instaurate e garantite la giustizia e la libertà della società come condizioni necessarie per la superiore evoluzione dell'uomo.

ALTRE IMPORTANTI FILOSOFIE ORIENTALI

2. IL BUDDHISMO
Le origini
Il termine Buddha in lingua pali significa "chi conosce o raggiunge l'illuminazione". Il fondatore del Buddhismo si chiamava in realtà Siddharta, ed aveva come patronimico quello di Gautama o Gotama. Nacque in una famiglia principesca, del clan dei Sakya, che viveva a Kapilavastu, in una regione che oggi fa parte del Nepal, a 170 chilometri circa dall'odierna Benares. Nacque verso la metà del 6° secolo a.C. Suo padre si chiamava Suddhodana e la madre Mahamaya. Il giovane principe venne allevato in mezzo al lusso, avendo a disposizione tutte le comodità ed i piaceri. A 19 anni sposò una donna bellissima, Yasodhara. Per molti anni condusse una vita fatta di lusso e felicità domestica. Ma un giorno il giovane incontrò un vecchio, un malato, un morto ed un monaco. Quelle quattro realtà lo colpirono profondamente. Dopo essersi reso conto che la vecchiaia, la malattia e la morte sono la sorte dell'umanità e che vi sono delle persone che aspirano ad una vita diversa, decise di dedicarsi anche lui alla ricerca della verità. Aveva 29 anni quando decise di lasciare tutto e di ritirarsi in luoghi solitari per meditare. Si addentrò nella foresta, si rase il capo, indossò l'abito giallo di un eremita e per sei lunghi anni cercò una soluzione. Interrogò famosi sapienti, si diede all'ascetismo più rigido ma non riuscì a trovare la Risposta. Una notte, infine, si sedette sotto un albero e promise che non si sarebbe mosso da lì finché non avesse trovato la Risposta. Sotto quell'albero combatté l'ultima battaglia, quella contro le inclinazioni e i desideri del cuore umano, la battaglia contro l'amore per il mondo, l'illusione, l'aspirazione ad esistere e a gioire, contro il desiderio dell'onore, della felicità, della vita familiare, del benessere, del potere ecc. Fu assalito dal demone Mara, ma Siddharta superò le tentazioni. Dopo quarantanove giorni di meditazione, in una notte di luna piena del mese di maggio, in un luogo noto come Buddhagaya, egli raggiunse l'illuminazione. Da allora fu noto come "il Buddha". Aveva circa trentacinque anni. Da quel giorno percorse per altri quarantacinque anni il nord dell'India insegnando e predicando il suo messaggio di speranza e di felicità. Buddha morì all'età di 80 anni a Kusinara, in una notte di luna piena nel mese di karttika (ottobre-novembre).
Alla sua comunità, Buddha aveva lasciato solo la dottrina (Dhamma o Dharma), che è conosciuta come le Quattro Nobili Verità. Esse sono: 1)c'è il dolore; 2)il dolore ha una causa; 3)il dolore può essere superato; 4)il modo per eliminare il dolore è pratica l'Ottuplice Sentiero. Vediamo in breve i vari punti.
Il dolore o la sofferenza (dukkha) è un fatto universale. "E questa, o monaci, è la santa verità circa il dolore: la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore; l'unione con quel che dispiace è dolore; la separazione da ciò che piace è dolore; non ottenere ciò che si desidera è dolore; in una parola, dolore sono i cinque elementi dell'esistenza individuale".
La causa del dolore è il desiderio ovvero brama ovvero sete (tauha). "Questa, o monaci, è la santa verità circa l'origine del dolore: essa è quella sete che è causa di rinascita, che è congiunta con la gioia e col desiderio, che trova godimento ora qui ora là; sete di piacere, sete di esistenza, sete di estinzione".
Come può cessare il dolore? "Questa, o monaci, è la santa verità circa la soppressione del dolore: è la soppressione di questa sete, annientando completamente il desiderio, è il bandirla, il reprimerla, il liberarsi da essa, il distaccarsi". Esiste dunque uno stato in cui c'è libertà completa dalla sofferenza e da ogni schiavitù, uno stato in cui si gode della pace assoluta, che è il Nirvana (o Nibbana).
La via che conduce alla soppressione del dolore è l'Ottuplice Sentiero: "Questa, o monaci, è la santa verità circa il sentiero che conduce alla soppressione del dolore: è l'augusto ottuplice sentiero, e cioè: retta fede, retta decisione, retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto ricordo, retta concentrazione". Questo Ottuplice Sentiero porta a prendere coscienza di sé, del proprio intimo, porta alla sapienza e fuga l'ignoranza; il suo frutto consiste nella serenità, nella conoscenza e nella illuminazione, che è il Nirvana, lo stato di pace perfetta e di perfetta felicità.
Per chiarire meglio in che cosa consiste il Nirvana, dobbiamo ricordare che il Buddhismo ha ereditato dall'Induismo il concetto del karma. Il karma è la nostra azione o, meglio, in senso morale, è il frutto della nostra azione, il nostro merito o demerito. Fintanto che vi sarà karma, un essere nascerà e rinascerà. Questa però non vuole essere una dottrina deterministica poiché si è sempre liberi di agire per il meglio o per il peggio. È la volontà e non tanto la sola azione che riveste importanza nel produrre nuovo karma. Questa situazione è forse destinata a continuare per sempre? No, per il Buddhismo non sarà sempre così. C'è infatti la possibilità di arrivare al Nirvana per porre fine alle sofferenze, per essere liberati dalla ruota delle nascite e delle rinascite. Si tratta di uno stato di beatitudine suprema, di pace e di tranquillità interiore, accompagnato dalla certezza di aver ottenuto la liberazione; è uno stato non descrivibile a parole; solo chi lo ha sperimentato può sapere che cos'è. Infatti può essere raggiunto in questa vita e non in uno stato futuro. Né è una condizione che solo pochi possono fare propria. Tutti sono in grado di raggiungerlo, anche se sono molto pochi coloro che vi giungono in maniera perfetta durante questa vita. La beatitudine dei perfetti (Arahat) dopo la morte è chiamata Parinirvana, e costituisce ovviamente l'ultimo stadio del nirvana.Tale è il traguardo a cui l'Ottuplice Sentiero può condurre il fedele.
La teoria della anatta. Il Buddhismo respinge la nozione di anima intesa come la sostanza individuale, personale, autonoma e immortale nei confronti del corpo. Esso sostiene al contrario che non c'è nessuna anima, dunque c'è una non-anima, che chiama anatta. In altre parole, l'anima o l'io o il sé non esistono. Quel che è detto "io" è una combinazione continuamente mutevole di forze ed energie mentali e fisiche, che sono di per sé vuote, irreali. Noi siamo abituati a dire che il corpo o le abitudini o i pensieri di una persona appartengono ad un sé, ed in questo modo suggeriamo che, oltre a ciò che è posseduto, vi sia anche un possessore - l'io - di tali processi. In realtà, secondo il Buddhismo, questo è soltanto un modo di dire: la dottrina della anatta nega insomma che il cosiddetto sé sia una sostanza indipendente dai processi che formano una persona. Si tenga inoltre presente che per il Buddhismo la credenza in un sé sostanziale è proprio alla base della sofferenza, perché tale credenza rende possibile l'attaccamento dei vari processi appunto ad un sé che soffrirebbe: io soffro, io gioisco, io agisco… Questo errore fondamentale, questo ignorare quale sia la verità (per il Buddhismo) permette l'attaccamento e rende perciò reale la sofferenza ed impossibile a superarsi.
3. IL CONFUCIANESIMO

Caratteristiche generali del pensiero cinese
Con quella indiana e quella ebraica, la cultura cinese è fra le più antiche civiltà che si siano perpetuate senza interruzioni sino ad oggi. Essa ha mantenuto una serie di caratteri peculiari che ne hanno salvaguardato l'originalità. I differenti atteggiamenti mentali coinvolgono l'idea stessa di religione e di divinità, di bene e di male, di trascendenza e di spirito, e il rapporto individuo-società e individuo-universo. A differenza della storia europea in cui il ruolo della Chiesa è stato determinante, e così pure l'antagonismo tra Stato e Chiesa e le guerre di religione, in Cina la religione non soltanto è stata subordinata allo Stato, ma è stata funzionale più alla condizione sociale dell'uomo piuttosto che allo sviluppo di una dimensione individualistica. La storia cinese non ha in pratica conosciuto la contrapposizione fra un ordinamento politico ed uno soprannaturale che lo trascende e travalica (come nel caso della Chiesa) ed i rapporti fra Impero e Chiesa buddhista non sono paragonabili a quelli fra le Chiese cristiane e gli Stati europei. Del resto, se per religione intendiamo un fenomeno analogo a quello giudaico-cristiano, difficilmente potremmo rintracciarlo in Cina. Religioni istituzionali e religioni diffuse si equilibrano e si intersecano a differenti livelli, nel sincretismo della cosiddetta religione popolare come nell'interazione tra taoismo, buddhismo e confucianesimo. Il cinese può venerare più divinità di religioni diverse senza che questo gli crei dei problemi perché è fondamentale per lui la funzione pratica della religione, e non la sua identificazione. Esempi di religione istituzionale sono il buddhismo e il taoismo, in quanto posseggono una propria organizzazione ecclesiastica, propri culti e dottrine. La religione diffusa, invece, è costituita da culti come quello rivolto agli antenati o alle divinità celesti. In campo religioso non esiste una fede monoteistica, né l'idea di un Dio personale in diretta relazione con l'individuo. Ciò significa inoltre l'assenza dell'esclusivismo di un "Dio geloso", di un'assoluta opposizione fra una divinità identificata con il Bene e il demonio identificato con il Male. Significa anche assenza di un rapporto personale e individuale con la divinità, che in campo etico si traduce in un diverso concetto di responsabilità che deve fare i conti con i legami fra il soggetto e il suo gruppo sociale. Anche l'idea di retribuzione ne viene influenzata perché è spesso intesa come una conseguenza automatica di un certo comportamento umano, ed il ruolo degli spiriti e delle divinità popolari è ridotto ad una funzione contrattualistica e propiziatoria. La multifunzionalità dei templi contribuisce quindi al consolidamento dei legami familiari, alla protezione della comunità locale e del suo benessere, della salute individuale, dell'ordine morale, dello Stato e dell'ordinamento politico. Il pensiero cinese non ha neppure conosciuto il dualismo spirito-materia e l'opposizione fra anima e corpo - caratteristici della tradizione occidentale - e la conseguente distinzione fra il sensibile ed il razionale. Il termine xin indica la mente ma anche il cuore, vale a dire la sede del pensiero e allo stesso tempo delle emozioni e delle reazioni sensoriali. La funzione razionale non è intesa in Cina come la più alta nell'uomo, contrapposta alle passioni e agli istinti. La ragione non è neppure prerogativa dell'anima che, secondo la dottrina ad es. cristiana, avrebbe la capacità di discernere fra il bene e il male, e di compiere liberamente il bene o il male. In Cina si preferisce un universo in continua trasformazione, costituito da una sostanza fondamentale, la cui dinamicità (evoluzione ed involuzione, nascite e morti, contrazione ed espansione) è dovuta alla polarità di energie opposte ma complementari. In Cina è assente una concezione assoluta ed esclusiva degli opposti, intesi piuttosto come bipolarità complementari, come interazione e alternanza.
Confucio
In Cina la filosofia non è staccata dalla vita, e la sua pratica è considerata inseparabile dalla teoria. In Cina vi sono stati pochissimi filosofi di professione. Quasi tutti i grandi filosofi cinesi hanno ricoperto delle cariche amministrative nel governo, oppure sono stati artisti. In Cina, insomma, i filosofi vengono ritenuti tali soprattutto per le loro caratteristiche morali. Non è concepibile che un uomo cattivo possa essere un buon filosofo, o che un buon filosofo possa essere un uomo malvagio. La prova reale di una filosofia è la sua capacità di trasformare i suoi sostenitori in uomini più grandi.
Biografia di Confucio
Il nome Confucio è dovuto ai missionari del secolo 17° che latinizzarono il nome del saggio cinese K'ung fu tzu (ovvero maestro Kung) in Confucius. Confucio nacque a Tsou, una borgata dello stato di Lu (odierna Chueh-li nello Shantung) nel 551 a.C (il 27 agosto o il 28 settembre). Suo padre era governatore di Tsou e di stirpe nobile. Confucio rimase orfano di padre a tre anni. La famiglia si trovò in condizioni disagiate e Confucio dovette fare molti sacrifici e lavori umili. Si sposò a 19 anni, ed ebbe due figli, un maschio e una femmina. Nello stesso periodo ricoprì modesti incarichi governativi. Ma la sua vocazione era l'insegnamento e nel 530 a.C. aprì una scuola in cui erano ammessi tutti quelli che dimostravano di avere intelligenza, buona volontà e dai quali si faceva pagare a seconda delle possibilità. La sua era una scuola di tipo tradizionale, in cui si insegnavano le sei arti: riti, musica, tiro con l'arco, guida dei carri, annali, calcolo. Quando, nel 528 a.C., gli morì la madre, Confucio si uniformò ai riti che prescrivevano al figlio in lutto di non esercitare alcuna carica pubblica per tre anni e allora egli si ritirò a vita privata. Dedicò questo periodo allo studio delle discipline a lui preferite: musica, riti e testi antichi. Questo studio profondo gli permise di tradurre in massime la saggezza degli antichi e di formulare poi norme che dovevano regolare il comportamento dell'uomo quale membro di una società. In seguito, per ampliare le sue conoscenze, nel 515 a.C. si recò a Loyang, la capitale del regno di Chou, dove la musica e i riti erano stati tramandati nella loro purezza originale. Pare che in questo periodo abbia incontrato Lao Tzu. Confucio ritornò poi a Lu e riprese l'insegnamento. Nel 514 il sovrano di Lu dovette fuggire per motivi politici e chiese ospitalità al duca di Ch'i. Confucio seguì il sovrano in esilio. Alla morte del sovrano il ducato di Lu passò nel 509 a.C. al duca Ting e Confucio ottenne finalmente, nel 501 a.C. (aveva ormai cinquant'anni), un incarico politico. Il duca Ting lo nominò governatore di Chung-Tu, capitale dello stato di Lu, permettendogli di attuare il sogno della sua vita: dimostrare sul piano pratico la fondatezza delle sue idee etiche e politiche. La sua amministrazione si rivelò talmente perfetta che poté essere paragonata al periodo aureo dei sovrani mitici ed inoltre le leggi penali non vennero più applicate perché non furono commessi più crimini.
I felici risultati ottenuti gli valsero però l'invidia e l'inimicizia della corte e Confucio fu costretto ad andarsene da Lu. Cominciò così le sue peregrinazioni, che durarono ben tredici anni, attraverso vari stati. Ritornò a Lu quando aveva ormai 69 anni. Il nuovo duca, Ngai, lo onorò, lo invitò a corte ma non gli affidò nessuna carica pubblica. Egli allora si dedicò, con i suoi discepoli, a raccogliere e a riordinare i testi antichi e scrisse una cronaca di Lu, intitolata Primavere e autunni. Si dice che, sette giorni prima di morire, un sogno l'avvertisse della prossima fine. Dopo aver recitato alcuni versi del Libro delle Odi ("Ecco come frana il monte T'ai/il grande albero viene abbattuto/e il saggio sfiorisce come un fiore) e avere ancora una volta espresso il suo rammarico per non essere riuscito a far accettare ai principi le sue idee, si ritirò nella sua stanza e morì. Era il 479 a.C.

4. IL TAOISMO

Il Taoismo sorse sullo stesso terreno culturale in cui nacque il Confucianesimo e si servì degli stessi elementi utilizzati da questo, che formavano il patrimonio intellettuale della Cina della seconda metà del 1° millennio a.C. Ma mentre il Confucianesimo ne dedusse dei modelli da imitare per ritornare alle virtù morali degli antichi re "santi", il Taoismo li sottopose ad aspra critica, additando nei portatori di quelle virtù i corruttori della primigenia virtù del Tao, fatta di naturalezza e spontaneità. D'altro canto, essendo Lao Tzu e Confucio contemporanei, la medesima situazione storica di decadenza della dinastia Chou (che regnava ormai da sei secoli ed aveva perduto lo slancio riformatore dei primi sovrani), spingeva i due capiscuola ad evocare i tempi aurei in cui vigeva la semplicità del Tao, per Lao Tzu, o la carità e la giustizia dei santi imperatori, per Confucio. Bisogna ammettere però che i concetti che troviamo alla base del Taoismo e del Confucianesimo preesistevano ai fondatori delle due scuole, i quali non fecero che elaborarli e fissarli in un corpo di dottrine: Lao Tzu con lo scritto, Confucio con l'insegnamento.
La tradizione ci dice che Lao tzu(o Lao tze) - che è in realtà un soprannome che vuol dire "vecchio maestro" -, si chiamava Chung-erh o Po-yang o anche Lao tan. Visse nel 6° secolo a.C. ed era di qualche anno più vecchio di Confucio. Nacque nel villaggio di Ch'u-jen, nel territorio dell'odierno Honan (Cina orientale, a sud di Pechino). Fu storiografo negli archivi imperiali. Si dice che Confucio si sarebbe incontrato con lui e sarebbe stato colpito dalla sua saggezza. Lao tzu abbandonò il suo incarico quando la corta cominciò a dare segni di decadenza e se ne andò verso l'ovest. Arrivato al passo di Han-ku, il guardiano Yin Hsi gli chiese di scrivere un libro per lui e Lao tzu espose allora le sue dottrine nel Tao Te ching. Poi partì e non se ne seppe più nulla.
L'opera di Lao Tzu è divisa in due parti, la prima sul Tao e la seconda sul Te. In seguito fu suddivisa nel numero mistico di 81 capitoletti, e il nome di Tao Te ching fu dato, sembra, da uno dei suoi commentatori, Ho-shang Kung. L'opera ci è anche giunta in un'altra redazione, non molto diversa dalla prima, curata da Wang Pi.
Il libro si apre con una descrizione del Tao. La parola significa propriamente via e quindi anche modo di condursi, sistema. Il Tao è una astrazione metafisica che indica la legge universale della natura, lo spontaneo modo di essere e di comportarsi dell'universo. In questo senso è indicibile, ineffabile, indeterminato. Essendo il principio primo e assoluto, è privo di caratteristiche, giacché è la stessa fonte di tutte le caratteristiche; non è però il nulla, dato che è l'origine di ogni cosa. Esso è prima di tutte le cose, dà loro l'esistenza. "Il Tao che può essere detto non è l'eterno Tao, il nome che può essere nominato non è l'eterno nome" (In cinese suona più o meno così: Tao ke Tao fei chang Tao; ming ke ming, fei chang ming: cfr. Tao Te Ching, 1). In altri termini, il Tao è oltre ogni denominazione, visto che la fonte da cui tutto deriva non può essere nominata, costituendo l'origine dei nomi e di ogni descrizione possibile. Tao è quindi un non-nome; indica, piuttosto, ciò che consente alle cose di essere quello che sono; è ciò che dà loro l'esistenza (come se si dicesse: il questo da cui derivano l'essere e il non essere). Sebbene non si possa dire ciò che il Tao è, ma si possa soltanto accennarlo, lo si può in un certo modo comprendere considerando il suo "funzionamento", le sue manifestazioni. Il Tao si manifesta nell'universo, nella natura, dato che ciò che le cose individuale possiedono del Tao è il Te. La parola Te, tradotta il genere con virtù, non ha un significato strettamente morale bensì quello di vigore, potenza, facoltà, efficacia. È in pratica la manifestazione del Tao, come già accennato. Il Tao, in quanto origine, fonte, sorgente, dà l'esistenza alle cose, mentre il Te dà loro diversità.
Tutte le cose esistono nel Tao e il Tao è presente in tutte le cose. Finché le cose avvengono naturalmente, tutto è armonico e nulla turba l'equilibrio cosmico. L'uomo, se vuole vivere felice, deve seguire il Tao senza ostacolarlo. In questo senso, egli non deve agire, nel senso che non deve modificare l'armonia dell'universo. Se lo fa, allora non è più in accordo col Tao. Il principio della inazione (wu wei) non indica quindi il rimanere ozioso, senza far nulla, ma è piuttosto basato sul riconoscimento che l'uomo non è la misura e la sorgente di tutte le cose, ma lo è soltanto il Tao. La vita è vissuta bene solo quando l'uomo è in completa armonia con tutto l'universo e la sua azione è l'azione dell'universo che fluisce attraverso di lui. Il bene non viene compiuto dall'azione spinta dai desideri, ma dalla inazione (wu wei) che è ispirata alla semplicità del Tao. "Il Tao in eterno non agisce eppure non c'è nulla che non sia fatto. Se chi governa si attenesse ai suoi principi, gli esseri si svilupperebbero da soli. Se durante questo sviluppo crescesse il desiderio, basterà risvegliare in essi l'originaria semplicità di quello che non ha nome. La semplicità del senza-nome genera l'assenza del desiderio; l'assenza del desiderio genera la serenità, così l'impero si consolida da solo" (TTC, 37).
Il problema riguarda dunque il modo in cui si dovrebbe agire. La risposta è che si dovrebbe agire adottando la semplice via del Tao, non imponendo i proprio desideri al mondo ma seguendo la natura stessa. L'uomo deve conoscere le leggi che regolano i mutamenti delle cose per confermarsi ad esse; conoscendo tali leggi, l'uomo si renderà conto che è vano perseguire un fine diverso, poiché ogni cosa segue il proprio sviluppo, la propria intima legge. L'uomo deve liberarsi da ogni pensiero, passione, interesse, desiderio particolare per ritornare alla semplicità di quando era bambino; egli deve fare solo ciò che è necessario e naturale. Vivere semplicemente vuol dire vivere una vita in cui è ignorato il profitto, lasciata da parte la scaltrezza, minimizzato l'egoismo, ridotti i desideri. Non bisogna cioè agire con artifici e deformazioni ma lasciare che le cose si compiano in modo spontaneo e naturale.
Anche in ambito sociale, le istituzioni sono giuste quando si permette loro di essere ciò che sono naturalmente; anche la società deve essere in armonia con l'universo. Se il legislatore si attenesse alle norme del Tao, il governo procederebbe in modo spontaneo e naturale. E non ci sarebbe bisogno di leggi severe e di guerre. Quando si governa un paese, si dovrebbe badare a non opprimere troppo la gente, portandola a ribellarsi. Quando invece le persone sono soddisfatte non ci sono guerre e ribellioni. Perciò la semplice norma del governare consiste nel dare al popolo ciò che vuole, e nel rendere il governo conforme alla volontà del popolo, piuttosto che tentare di rendere il popolo conforme alla volontà di chi governa. Il lavoro di chi governa è quello di lasciare che il Tao operi liberamente, invece di tentare di opporsi alla sua funzione e di cambiarla. Così, chi vuole governare con l'aiuto del Tao, è avvisato di non fare uso di forza o violenza, poiché ciò finisce per determinare un rovesciamento. "Colui che assiste il principe col Tao non fortifica l'impero con le armi…tutto ciò che è contrario al Tao non può durare". Quando chi governa conosce il Tao e il suo Te, da in che modo deve starsene al di fuori della vita del popolo e servirlo senza intromettersi. Così Lao Tzu dice che le persone "sono difficile da governare poiché chi governa agisce troppo". "Più leggi e divieti ci sono nel mondo, più povero sarà il popolo… più si emanano leggi e decreti, più ci saranno ladri e predoni" (TTC, 57). Eliminando i desideri e lasciando che il Tao entri e ci pervada, la vita supererà le distinzioni tra buono e cattivo. Ogni attività verrà dal Tao, e l'uomo diventerà uno col mondo. Questa è la soluzione di Lao Tzu al problema della felicità. È una soluzione che dipende soprattutto dal raggiungimento dell'unità col grande principio immanente della realtà, ed è perciò, in questo senso, una soluzione mistica.
Nei secoli a cavallo dell'era volgare, i seguaci del Taoismo si dedicarono soprattutto alla speculazione metafisica e in particolare sul problema della morte e della immortalità. Nacque così una forma di religione taoista, che assunse ben presto aspetti istituzionali e che ebbe, sotto la dinastia dei Tang (620-906 d.C.), una enorme diffusione, pari al buddhismo. Il pensiero cinese delle origini non aveva elaborato una dottrina (come era successo in Grecia e nel Cristianesimo) che rispondesse al problema del destino dell'uomo dopo la morte. L'uomo cinese si vedeva solamente mortale. Da qui sorse la convinzione che l'immortalità fosse una sorta di conquista, da ottenere attraverso modalità per lo meno singolari. Il problema era appunto quello di far diventare il corpo umano immortale. Già da tempo erano stati codificati dei metodi per prolungare la vita e permettere una sorta di immortalità. Questi metodi si dividono in due gruppi: le pratiche per nutrire lo spirito e le pratiche per nutrire la vita o il corpo.
Le pratiche per nutrire lo spirito si riferiscono naturalmente all'esercizio delle virtù morali, cioè la purezza di vita, il riconoscimento e il pentimento delle proprie colpe e il compimento delle buone azioni meritorie.
Le pratiche per nutrire la vita o il corpo sono invece di ordine dietetico, respiratorio, sessuale e alchimistico. La pratica dietetica consiste nell'astensione dai cosiddetti cinque cereali, perché di essi si nutrono i tre demoni (san shih) che risiedono nel corpo umano e sono avversi all'uomo. L'astensione da quegli alimenti mira a liberare l'uomo dalla loro presenza, facendoli morire di inedia.
Un'altra pratica molto importante è quella della respirazione controllata. Secondo le antiche tradizioni, il ch'i è il soffio vitale che permea l'universo. La pratica respiratoria tende ad immettere nel corpo il ch'i più sottile affinché lo nutra e piano piano elimini la parte densa e impura, portandolo alla stessa sottigliezza e purezza del cielo immortale.
La pratica invece più difficile, dispendiosa e misteriosa, consisteva nell'ingerire, dopo una lunga preparazione alchimistica, il cinabro (solfuro di mercurio), che provocherebbe di per sé l'immortalità.
Come si vede, siamo ormai lontani dall'autentico Taoismo, che comunque fu importante perché fu la risposta a molteplici interrogativi spirituali. Inoltre non si dimentichi che, in campo politico, con la credenza messianica in una società migliore, molte furono le rivolte contadine che ebbero i loro capi in persone che si ispiravano al Taoismo. In campo artistico, il Taoismo, concedendo assoluta libertà all'individuo, permise la creazione di opere d'arte concepite per il godimento del letterato e del pittore e non, come volevano i confuciani, in esclusiva funzione di un certo tipo di società. In ultimo, la donna, che nella Cina confuciana e feudale era relegata a vivere all'interno della sua abitazione, acquisterà col Taoismo una certa parità con l'uomo, al punto di poter accedere anche a certi gradi della gerarchia religiosa taoista.
Oggi il Taoismo è diffuso nelle comunità cinesi sparse per il mondo, ed in particolare a Taiwan, Vietnam e Singapore.