quarta di copertina da "I Simpson e la filosofia"

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domenica 5 agosto 2007

ANTOLOGIA DI TESTI DI BERGSON

BERGSON: testi

LA DURATA INTERIORE
Secondo Bergson il tempo, la coscienza e la stessa realtà devono concepirsi come durata

L'esistenza di cui siamo più certi e conosciamo meglio è, senza dubbio, la nostra. Ora, che cosa osserviamo in noi? Io constato anzitutto che passo di stato in stato. Ho caldo ed ho freddo, sono lieto o triste, lavoro o non faccio nulla, guardo ciò che mi circonda o penso ad altro. Sensazioni, sentimenti, volizioni, rappresentazioni: ecco le modificazioni tra cui si divide la mia esistenza e che di volta in volta la colorano di sé. Io cambio, dunque, incessantemente. Ma non basta dir questo: il cambiamento è più radicale di quanto non sembri a prima vista. Di ciascuno dei miei stati psichici parlo, infatti, come se esso costituisse un blocco: dico sì che cambio, ma concepisco il cambiamento come un passaggio da uno stato al successivo e amo credere che ogni stato, considerato per se stesso, rimanga immutato per tutto il tempo durante il quale si produce. Eppure, un piccolo sforzo di attenzione basterebbe a rivelarmi che non c'è affezione, rappresentazione o volizione che non si modifichi di continuo: se uno stato di coscienza cessasse di cambiare, la sua durata cesserebbe di fluire. Il mio stato d'animo, avanzando sulla via del tempo, si arricchisce continuamente della propria durata: forma, per così dire, valanga con se medesimo. Se la nostra esistenza fosse costituita di stati separati, di cui un Io impassibile dovesse far la sintesi, non ci sarebbe per noi durata: poiché un Io che non muti non si svolge, come non si svolge uno stato psichico che resti identico a se stesso finché non venga sostituito dallo stato successivo. Infatti, la nostra durata non è il susseguirsi di un istante ad un altro istante: in tal caso esisterebbe solo il presente, il passato non si perpetuerebbe nel presente e non ci sarebbe evoluzione né durata concreta.
La durata è l'incessante progredire del passato che intacca l'avvenire e che, progredendo, si accresce. E poiché si accresce continuamente, il passato si conserva indefinitamente. La memoria non è la facoltà di classificar ricordi in un cassetto o di scriverli su di un registro. Non c'è registro, non c'è cassetto; anzi, a rigor di termini, non si può parlare di essa come di una "facoltà": giacché una facoltà funziona in modo intermittente, quando vuole o quando può, mentre l'accumularsi del passato su se stesso continua senza tregua. In realtà, il passato si conserva da se stesso, automaticamente.
Esso ci segue, tutt'intero, in ogni momento: ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia è là, chino sul presente che esso sta per assorbire in sé, incalzante alla porta della coscienza, che vorrebbe lasciarlo fuori. La funzione del meccanismo cerebrale è appunto quella di ricacciare la massima parte del passato nell'incosciente per introdurre nella coscienza solo ciò che può illuminare la situazione attuale, agevolare l'azione che si prepara, compiere un lavoro utile. Talvolta qualche ricordo non necessario riesce a passar di contrabbando per la porta socchiusa; e questi messaggeri dell'inconscio ci avvertono del carico che trasciniamo dietro a noi senza averne consapevolezza. Ma, se anche non ne avessimo chiara coscienza, sentiremmo vagamente che il passato è sempre presente in noi. Che cosa siamo, infatti, che cos'è il nostro carattere se non la sintesi della storia da noi vissuta sin dalla nascita, prima anzi di essa, poiché portiamo con noi disposizioni prenatali? Certo noi pensiamo solo con una piccola parte del nostro passato; ma desideriamo, vogliamo, agiamo con tutto il nostro passato, comprese le nostre tendenze congenite. […]

Il mio stato psichico attuale si spiega con ciò che c'era in me e agiva su di me: analizzandolo, non troverò in esso altri elementi. Ma nemmeno un'intelligenza sovrumana avrebbe potuto prevedere la forma semplice e indivisibile, che dà a tali elementi, affatto astratti, la loro organizzazione concreta: poiché prevedere significa proiettare nel futuro ciò che si è percepito in passato oppure raccogliere in un composto nuovo, diversamente ordinato, elementi già noti. Ma ciò che non è mai stato percepito e che è, insieme, semplice, è necessariamente imprevedibile. Tale è, precisamente, ogni nostro stato di coscienza, considerato come un momento di una storia in via di svolgimento: è semplice, e non può esser già stato percepito, poiché concentra nella sua unità indivisibile tutto ciò che è stato percepito più quello che il presente vi aggiunge. E' un momento originale di una storia non meno originale.







Lo slancio vitale

Bergson illustra in questo brano la nozione di slancio vitale, criticando come riduzionismo ogni forma di finalismo e determinismo nell’interpretazione della realtà.

È necessario comparare la vita ad uno slancio, perché nessun'altra immagine, tratta dal mondo fisico, vale a esprimerne con altrettanta approssimazione l'essenza. Tale è la mia vita interiore e tale è pure la vita in generale. Se, nel suo contatto con la materia, la vita è paragonabile a un impulso o a uno slancio, considerata in se stessa, essa è un'immensità di virtualità, un compenetrarsi reciproco di migliaia di tendenze: le quali, tuttavia, saranno " migliaia " solo quando verranno rese esteriori le une alle altre, ossia spazializzate. Allo stesso modo, di un sentimento poetico esprimentesi in strofe, in versi, in parole distinte, si può dire che esso conteneva in sé tale molteplicità di elementi particolari, e che tuttavia, chi l'ha prodotto è stata la materialità del linguaggio. Ma attraverso le parole, i versi, le strofe, circola l'ispirazione indivisibile che costituisce l'unità del poema […]
Il finalismo radicale è altrettanto inaccettabile. Nella sua forma estrema la dottrina della finalità riposa sul postulato che le cose e gli esseri non facciano che attuare un piano prestabilito. Qui, come nell'ipotesi meccanicistica, tutto è dato. E perciò il finalismo così inteso non è che un meccanicismo rovesciato. Esso muove dallo stesso postulato del meccanicismo, con questa sola differenza: che, nella corsa delle nostre intelligenze finite lungo la successione apparente delle cose, esso pone davanti a noi, anziché dietro, la luce con cui pretende di guidarci. All'impulso del passato esso sostituisce un'attrazione dell'avvenire: ma la successione resta ugualmente, come la cosa stessa, una mera apparenza.

il confronto fra INTELLIGENZA E INTUIZIONE

Il nostro spirito, che cerca punti d'appoggio solidi, ha come principale funzione, nel corso ordinario della vita, di rappresentarsi stati e cose. Esso prende, di quando in quando, vedute quasi istantanee sulla mobilità indivisa del reale. E ottiene, così, sensazioni e idee, sostituendo al continuo il discontinuo, alla mobilità la stabilità, alla tendenza in via di mutamento i punti fissi che segnano una direzione del mutamento e della tendenza. Questa sostituzione è necessaria al senso comune, al linguaggio, alla vita pratica e perfino, in una certa misura che cercheremo di determinare, alla scienza positiva. La nostra intelligenza, quando segue la sua china naturale, procede per percezioni solide da un lato, e per concezioni stabili dall'altro: parte dall'immobile e non concepisce e non esprime il movimento se non in funzione dell'immobilità; si installa in concetti già fatti e si sforza di prendervi, come in una rete, qualcosa della realtà che passa. Non certo allo scopo di ottenere una conoscenza interiore e metafisica del reale: ma semplicemente di servirsene, dato che ogni concetto (come, d'altronde, ogni sensazione) è una domanda pratica che la nostra attività pone al reale, e a cui il reale risponderà, come si conviene in affari, con un sì o con un no. Ma con ciò essa si lascia sfuggire ciò che, del reale, è l'essenza medesima. [...]

Ma dall'impossibiltà in cui ci troviamo di ricostruire la realtà vivente con concetti rigidi e già fatti non segue che non possiamo coglierla in qualche altra maniera. Le dimostrazioni che si son date della relatività della nostra conoscenza son dunque inficiate di un vizio originario: come il dogmatismo che esse attaccano, suppongono che ogni conoscenza debba necessariamente partire da concetti con contorni fissati per afferrare con essi la realtà che scorre. Ma la verità è che il nostro spirito può seguire il cammino inverso. Può installarsi nella realtà mobile, adottarne la direzione continuamente mutevole, coglierla, insomma, intuitivamente. Per questo occorre che si faccia violenza, e inverta il senso dell'operare con cui pensa di solito, e rovesci o, piuttosto, rifonda senza tregua le sue categorie. Esso metterà capo, così, a concetti fluidi, capaci di seguire la realtà in tutte le sue pieghe e di adottare il movimento stesso della vita interna delle cose. Solo così si costituirà una filosofia progressiva, liberata dalle dispute che si scatenano tra le scuole, capace di risolvere naturalmente i problemi per essersi liberata dei termini artificiosi che si eran scelti per porli. Filosofare consiste nell'invertire la direzione abituale del lavoro del pensiero.
La coscienza, nell'uomo, è soprattutto intelligenza. E avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto, pare, essere anche intuizione. Intuizione e intelligenza rappresentano due direzioni opposte dell'attività cosciente: l'intuizione procede nel senso stesso della vita, l'intelligenza marcia in senso opposto, e si trova quindi, del tutto naturalmente, regolata sul movimento della materia . Un'umanità completa e perfetta sarebbe quella in cui queste due forme dell'attività cosciente raggiungessero il loro pieno sviluppo. Tra questa umanità e la nostra si possono ammettere, d'altronde, una quantità di intermediari possibili, corrispondenti a tutti i gradi immaginabili dell'intelligenza e dell'intuizione. Ecco dove la contingenza incide nella struttura mentale della nostra specie. Un'evoluzione differente avrebbe potuto condurre ad una umanità, o ancora più intelligente, o più intuitiva. Infatti, nell'umanità di cui facciamo parte, l'intuizione è quasi completamente sacrificata all'intelligenza. Sembra che nello sforzo di conquistare la materia, e di riconquistare se stessa, la coscienza abbia dovuto esaurire le sue migliori energie. Tale conquista, nelle particolari condizioni in cui s'è compiuta, richiedeva che la coscienza si adattasse alle abitudini della materia e concentrasse su esse tutta la sua attenzione, cioè che si determinasse specialmente come intelligenza. L'intuizione tuttavia c'è sempre, ma è vaga, e soprattutto discontinua. È una lampada quasi spenta, che solo di tanto in tanto si riaccende, appena per qualche istante. Essa si ravviva, in sostanza, là dove è in gioco un interesse vitale. Sulla nostra personalità, sulla nostra libertà, sul posto che occupiamo nell'insieme della natura, sulla nostra origine e forse anche sul nostro destino, essa proietta una luce debole e vacillante, ma che tuttavia riesce a rompere l'oscurità della notte in cui ci lascia l'intelligenza. Di queste intuizioni fuggevoli, capaci di illuminare il loro oggetto solo a lunghi intervalli, la filosofia deve impadronirsi, prima per conservarle in vita, e poi per ampliarle e accordarle tra loro. Più progredisce in questo lavoro, più si rende conto che l'intuizione è lo spirito stesso e quasi la stessa vita: l'intelligenza vi si ritaglia attraverso un processo che imita quello da cui è scaturita la materia. Appare così l'unità della vita mentale. La si riconosce solo se ci si pone nell'intuizione, per procedere di lì all'intelligenza, poiché dall'intelligenza non si passerà mai all'intuizione.


L’INTUIZIONE

L'atto semplice che ha dato l'avvio all'analisi, e che dietro all'analisi si nasconde, emana da una facoltà affatto diversa da quella di analizzare. In esso consiste, per la definizione stessa del termine, l'intuizione. Diciamolo per concludere: questa facoltà non ha nulla di misterioso. Chiunque si sia esercitato con buona riuscita nella composizione letteraria, sa bene che, dopo che l'argomento è stato lungamente studiato, e tutti i documenti raccolti, tutti gli appunti presi, occorre, per attaccare il lavoro di composizione vero e proprio, qualcosa di più: uno sforzo, spesso penoso, per collocarsi d'un tratto nel cuore stesso dell'argomento e per andare a cercare alla maggior profondità possibile un impulso a cui, in seguito, non occorrerà che abbandonarsi. Tale impulso, una volta ricevuto, lancia lo spirito su un cammino su cui ritrova le indicazioni che aveva raccolte, e altri particolari ancora; si sviluppa, s'analizza da sé in termini la cui enumerazione prosegue indefinitamente; più si va oltre, più se ne scoprono; mai si arriva a dire tutto e, tuttavia, se ci si volge di nuovo bruscamente verso l'impulso che si sente dietro a sé per coglierlo, quello sfugge: perché non era una cosa, ma un incitamento a muovere e, per quanto indefinitamente estendibile, la semplicità medesima. L'intuizione metafisica appare qualcosa dello stesso genere. Ciò che qui fa riscontro agli appunti a ai documenti della composizione letteraria è l'insieme delle osservazioni e delle esperienze raccolte dalla scienza positiva, e soprattutto da una riflessione dello spirito sullo spirito. Non si ottiene infatti dalla realtà una intuizione, cioè una simpatia spirituale con quanto essa ha di intimo se non ci si è cattivata la sua fiducia con una assidua familiarità con le sue manifestazioni superficiali. Non si tratta semplicemente di assimilare i fatti significativi: si tratta di accumularne e fonderne una massa così enorme che si possa esser certi di neutralizzare reciprocamente, in questa fusione, tutte le idee preconcette e premature che gli osservatori han potuto lasciare, a loro insaputa, in fondo alle loro osservazioni. Solo così si libera la materialità bruta dei fatti conosciuti. Anche nel caso semplice e privilegiato che ci è servito d'esempio, anche per il diretto contatto dell'io con l'io, lo sforzo definitivo di intuizione distinta sarebbe impossibile a chi non avesse raccolto e confrontato tra loro un gran numero di analisi psicologiche. I maestri della filosofia moderna furono uomini capaci di assimilare tutto il materiale della scienza del loro tempo, e l'eclissi parziale della metafisica da un mezzo secolo a questa parte è stata cagionata soprattutto dalla straordinaria difficoltà che il filosofo prova oggi nel prendere contatto con una scienza molto più dispersa. Ma l'intuizione metafisica, sebbene non si possa giungervi che a forza di conoscenze materiali, è tutt'altro che il riassunto o la sintesi di tali conoscenze: se ne distingue come l'impulso motore si distingue dal cammino percorso dal mobile, come la tensione della molla dal movimento visibile del pendolo. In questo senso la metafisica nulla ha in comune con una generalizzazione dell'esperienza; e, nondimeno, la si potrebbe definire come l'esperienza integrale

(Henri Bergson, L'evoluzione creatrice)