I
neoplatonici offrirono la più convincente
rivalutazione della cultura antica data fino a quel momento, riuscendo a
colmare la frattura che si era venuta a creare tra i primi sostenitori del
movimento umanista e la religione cristiana, che condannava l'antichità in
quanto pagana;
essi non solo riproposero con forza le "virtù degli antichi come modello
etico" della vita civile, ma arrivarono a conciliare gli ideali cristiani con quelli della cultura classica,
ispirandosi a Platone
ed alle varie correnti di misticismo tardo-pagano che attestavano la profonda
religiosità delle comunità pre-cristiane.
L'influenza
di queste teorie sulle arti figurative fu profonda; i temi della bellezza e dell'amore divennero
centrali nel sistema neoplatonico perché l'uomo spinto dall'amore poteva
elevarsi dal regno inferiore della materia a quello superiore dello spirito. In
questo modo la mitologia fu pienamente riabilitata e le venne assegnata la
stessa dignità dei temi di soggetto sacro e ciò spiega anche il motivo per cui
le decorazioni di carattere profano ebbero una così larga diffusione.
Venere,
la dea più peccaminosa dell'Olimpo
pagano venne totalmente reinterpretata dai filosofi neoplatonici e diventò uno
dei soggetti raffigurati più frequentemente dagli artisti secondo una duplice
tipologia: la Venere
celeste, simbolo dell'amore spirituale che spingeva l'uomo verso l'ascesi e la Venere terrena, simbolo
dell'istintualità e della passione che lo ricacciavano verso il basso.
Un
altro tema rappresentato di sovente fu la lotta tra un principio superiore ed
uno inferiore (ad esempio Marte ammansito da Venere o i mostri abbattuti da Ercole), secondo
l'idea di una continua tensione dell'animo umano, sospeso tra virtù e vizi; l'uomo in
pratica era tendenzialmente rivolto verso il bene, ma incapace di conseguire la
perfezione e spesso insidiato dal pericolo di ricadere verso l'irrazionalità
dettata dall'istinto;
da questa consapevolezza dei propri limiti deriva perciò il dramma esistenziale
dell'uomo neoplatonico, conscio di dover rincorrere per tutta la vita una
condizione apparentemente irraggiungibile.
Botticelli
divenne amico dei filosofi neoplatonici, ne accolse pienamente le idee e riuscì
a rendere visibile quella bellezza da loro teorizzata, secondo la sua personale
interpretazione dal carattere malinconico e contemplativo, che spesso non
coincide con quella proposta da altri artisti legati a questo stesso ambiente
culturale.
LA PRIMAVERA DEL
BOTTICELLI
L’interpretazione di Edgar
Wind
Edgar
Wind menziona la spiegazione neoplatonica della Primavera e della Nascita di
Venere in funzione della “costellazione Ficino-Poliziano-Botticelli”,
che era stata messa in evidenza, tra gli altri, da Gombrich. Su questo punto
Wind sostiene che solo la relazione tra queste immagini e la poesia di
Poliziano, dimostrata dallo studio di Warburg, è incontestabile. Si tratta dei
poemi di Poliziano che imitano le opere degli antichi (in particolare gli Inni
Omerici, le Odi di Orazio e i Fasti di Ovidio), con le quali
Botticelli aveva familiarizzato grazie a Poliziano e Ficino. Wind nota, pure,
che la parentela tra questi testi e le immagini di Botticelli è piuttosto una
parentela di umore e di gusto, che si limita ad episodi isolati o a dettagli,
senza spiegare il programma delle pitture.
Secondo
Wind, la presenza delle Tre Grazie potrebbe darci una chiave del programma
della Primavera nella sua integrità. Wind sostiene che, se questa triade delle
figure delle Grazie nella parte sinistra del quadro è, come scrive l’umanista Giovanni Pico della Mirandola, l’unità
di Venere che si dispiega nella Trinità delle Grazie, associando le figure
della parte destra del quadro, che provengono da un passaggio d’Ovidio,
l’insieme potrebbe rappresentare due
fasi consecutive di un’unica e medesima teoria coerente dell’amore. Wind
parla anche di “Metamorfosi dell’Amore che si dispiegano nel giardino di
Venere”.
Per
quanto riguarda la scena di destra, basandosi su un racconto dei Fasti di Ovidio, Wind interpreta il
personaggio maschile di destra come Zefiro, interpretazione che era stata già
data da Warburg. Secondo questo racconto, il vento primaverile Zefiro insegue
Cloris, l’innocente ninfa della terra; questa tenta di sfuggirgli, ma quando
egli la tocca, scaturiscono fiori dal suo respiro, ed ella si trasforma in
Flora, messaggera della primavera. I due personaggi femminili della Primavera
sono, secondo Wind, Cloris e Flora, legate dall’atto di metamorfosi: “Chloris eram quae Flora vocor” (Ero
Cloris, io che mi chiamo Flora). Flora non rappresenta la Primavera , come
suggeriscono altri ricercatori; Wind fonda ciò su un passaggio del poema di
Lorenzo de Medici: “la primavera quando Flora di fiori adorna il mondo” .
Sulla triade Zefiro, Cloris e Flora, Wind scrive: “Sotto il velo di una favola
ovidiana, la progressione Zefiro-Cloris-Flora espone la ben nota dialettica
dell’amore: Pulchritudo nasce da una discordia concors (discordanza armonica)
tra Castitas (castità) e Amor (amore); la ninfa che fu e lo
Zefiro innamorato si uniscono nella bellezza di Flora”. Questo episodio
manifesta la primavera (dinotando la primavera).
Per
il personaggio centrale, Wind non contraddice Vasari, che l’aveva interpretato
come Venere. Sopra di lei si trova un Cupido, che mira con la sua freccia il
personaggio centrale del gruppo delle tre donne di sinistra. Venere si presenta
qui, secondo Wind, come dea di moderazione, che sospende le potenze
dell’amore, carattere paradossale di Venere nella teoria dell’amore del
neoplatonismo. La moderazione di Venere è espressa formalmente dalla sua
opposizione ai due gruppi animati.
Wind
identifica il gruppo di sinistra come le Tre Grazie. La Grazia centrale, dalla
capigliatura e dall’abbigliamento sobrio, sarebbe la Castitas
(la castità). La seconda Grazia dalla capigliatura, dall’abito e dal corpo
abbondanti ed energici sarebbe la Pulchritudo
(la bellezza), mentre la terza, dalla chioma più varia e complessa, la Voluptas
(la voluttà). Secondo Wind, la loro danza sarebbe una danza d’iniziazione della
Castitas all’amore con le cure della Pulchritudo
e della Voluptas, sotto la protezione
di Venere ma mirata da Cupido. I dettagli descrittivi delle Tre Grazie
sarebbero ispirati da varie fonti letterarie: i loro abiti trasparenti sarebbero
ispirati dalle descrizioni di Seneca e Orazio come “solutis itaque tunicis utuntur” (Gli abiti che indossano non hanno
cintura, ma sono trasparenti). Il groviglio dei loro gesti ricorderebbe
un’espressione di Orazio : “segnesque
nodum solvere Gratiae” (il nodo delle Grazie). La danza sarebbe ispirata
dalla regola di Seneca: “Ille consertis
manibus in se redeuntium chorus”. Le posizioni dei piedi e delle mani e il
“nodo” che formano le tre Grazie esprimerebbero i loro caratteri di passione e
di moderazione, la discordia (discordanza), la concordia (concordia), ma anche
la discordia concors (concordia nel
contrasto).
Il
personaggio di sinistra è identificato come Mercurio, con i suoi stivali con le
ali che escono dai talloni come speroni, tipiche del Mercurio del Quattrocento,
con la sciabola e l’elmetto che sono i suoi attributi. Mercurio è isolato dalla
scena, sta giocando con le nubi addensate tra gli alberi. Il suo ruolo della
scena si spiegherebbe, secondo Wind, con il fatto che egli è “la guida delle
Grazie” . Il suo carattere pensoso e distaccato dal gruppo delle Grazie sarebbe
spiegato dalla sua caratteristica, cara agli umanisti, di dio dell’intelletto,
di santo patrono dello studio erudito e dell’interpretazione, di rivelatore della conoscenza segreta o
“ermetica”, di mistagogo. Il
dettaglio delle nubi apparirebbe, come lo nota Wind, in Plotino (“Animus affectibus ad materiam quasi nubibus
procul expulsis ad intellectualis pulchritudinis lumen extemplo convertitur”:
La mente, o pensiero, ritorna subito verso la luce della bellezza
intellettuale, essendo cacciate via, lontano come nubi, le passioni che la
muovono verso la materia) ma anche in Boccaccio (“Haec praeterea virga dicunt Mercurium... et tranare nubila, id est
turbationes auferre”: Inoltre, Mercurio, con la sua verga, attraversa le
nubi, in altre parole, egli dissipa i turbamenti). Così, Mercurio, secondo
Wind, agiterebbe le nubi da ierofante neoplatonico, da "interpres secretorum" , da guida
delle menti, che toglie i veli, che rivela i misteri, perché “Summus animae ad Deum ascendentis gradus
caligo dicitur atque lumen” (La suprema saggezza è sapere che la luce
divina si trova nelle nubi).
La
composizione del quadro presenta una simmetria nella disposizione dei
personaggi. Mercurio, che volge le spalle a tutti distaccandosene, fa da “pendant” a Zefiro, impetuoso: Wind nota
che “tali sono le due forze complementari dell’amore, di cui Venere è la
custode e Cupido l’agente”. Mercurio e Zefiro sono anche mitologicamente
connessi perché Mercurio, in quanto condottiero delle nubi, è una specie di dio
del vento ("Ventos agere Mercurii
est"). Per di più, lo stesso termine latino, spiritus, indica il soffio (Zefiro) e l’ingegno (Mercurio).
I
due gruppi triadici del quadro esprimono la discordia
concors, dialettica neoplatonica, caratteristica della Theologia Platonica (1482) di Marsilio Ficino.
Il quadro nella sua interezza
esprime la dialettica neoplatonica emanatio-conversio-remeatio,
vale a dire la “processione” nella discesa di Zefiro verso Flora, la
“conversione” con la danza delle Grazie, e la “risalita” nella figura di
Mercurio. Vi è un orientamento verso l’aldilà, da cui, secondo la filosofia
neoplatonica, le cose derivano e verso cui ritornano, ciò che è espresso
formalmente dal movimento del quadro che inizia con Zefiro e termina con
Mercurio, essendo le due entrambe figure del mondo invisibile.
Bibliografia:
GOMBRICH, Ernst H.,
Symbolic Images. Studies in the art of
the Renaissance, Phaidon 1972, p. 31-81.
WIND, Edgar, Pagan Mysteries in the Renaissance, New Haven 1958, p.
100-120.
Michelangelo e il
neoplatonismo
Nel
1489, all’età di 14anni, Michelangelo fu ammesso alla corte di Lorenzo il
Magnifico, allora centro principale di sviluppo e fulcro di diffusione di
quella rinascita culturale che nel ‘500 investì ogni campo della vita umana. A
Palazzo Medici, libero da ogni costrizione economica, egli non solo ebbe la
possibilità di studiare l’arte antica attraverso le ricche collezioni della
famiglia fiorentina, ma poté frequentare il Giardino di S. Marco, luogo
d’incontro dei maggiori intellettuali dell’epoca, messo a disposizione da
Lorenzo per favorire lo scambio e la diffusione delle nuove dottrine
rinascimentali. Avvenne dunque in tali circostanze il prolifico incontro con
due dei maggiori esponenti della dottrina neoplatonica, Marsilio Ficino e Pico della
Mirandola, che tanto influenzò la sua formazione d’artista; nasceva difatti
in quegli anni, per opera dello stesso Marsilio e con l’ausilio della famiglia
Medici, l’Accademia platonica,
ideale punto di raccolta di intellettuali, poeti ed artisti che condividevano
un rinnovato interesse per la dottrina del filosofo greco riletta in chiave
cristiana.
Michelangelo
crebbe camminando nel Giardino di S. Marco, si lasciò nutrire dal mito
dell’antichità classica, consapevole che compito dell’artista non era la
semplice imitazione dell’antico ma la vera e propria emulazione, perseguita
attraverso l’assimilazione e la comprensione dei suoi contenuti spirituali,
respirò l’aria di quel profondo rinnovamento culturale che voleva l’uomo principio fondante dell’ordine e
dell’unità del cosmo, gradino intermedio tra l’essere e Dio, si lasciò
permeare dall’ideale platonico di bello,
secondo cui la bellezza sensibile altro non è che il riflesso di quella divina,
ed infine imprigionò nel marmo il sunto della sua ideologia estetica.
Se
nell’opera poetica di Michelangelo si trovano espliciti riferimenti alla
dottrina neoplatonica, quali l’ascesi
mistica che dalla contemplazione della bellezza sensibile introduce alla
fruizione del Bello Assoluto quale è trattato ne il Simposio di Platone, vera e propria opera di culto presso il
circolo ficiniano, opere quali il San Matteo (1504-1506, Firenze, Galleria
dell’Accademia), rappresentano la testimonianza tangibile del credo
michelangiolesco. La spasmodica torsione dell’Evangelista che gonfia e contrae
le membra nel tentativo, sembra, di liberarsi dal pesante marmo inerte,
riconduce alla concezione platonica dell’anima prigioniera del corpo. Al
pari dunque dell’uomo che lotta per liberarsi dal peso della materia e
ascendere al divino, San Matteo lotta per liberarsi dal masso e aprirsi alla
vita. Secondo tale visione, l’incompiutezza dell’opera, che prefigura il
non-finito di molte sculture successive, appare come l’estrinsecazione del
violento contrasto fra il moto vitale della forma e l’immota materia.