mercoledì 8 aprile 2015

L'INFLUENZA NEOPLATONICA NELL’ARTE RINASCIMENTALE

L'INFLUENZA NEOPLATONICA NELL’ARTE RINASCIMENTALE
I neoplatonici offrirono la più convincente rivalutazione della cultura antica data fino a quel momento, riuscendo a colmare la frattura che si era venuta a creare tra i primi sostenitori del movimento umanista e la religione cristiana, che condannava l'antichità in quanto pagana; essi non solo riproposero con forza le "virtù degli antichi come modello etico" della vita civile, ma arrivarono a conciliare gli ideali cristiani con quelli della cultura classica, ispirandosi a Platone ed alle varie correnti di misticismo tardo-pagano che attestavano la profonda religiosità delle comunità pre-cristiane.

L'influenza di queste teorie sulle arti figurative fu profonda; i temi della bellezza e dell'amore divennero centrali nel sistema neoplatonico perché l'uomo spinto dall'amore poteva elevarsi dal regno inferiore della materia a quello superiore dello spirito. In questo modo la mitologia fu pienamente riabilitata e le venne assegnata la stessa dignità dei temi di soggetto sacro e ciò spiega anche il motivo per cui le decorazioni di carattere profano ebbero una così larga diffusione.

Venere, la dea più peccaminosa dell'Olimpo pagano venne totalmente reinterpretata dai filosofi neoplatonici e diventò uno dei soggetti raffigurati più frequentemente dagli artisti secondo una duplice tipologia: la Venere celeste, simbolo dell'amore spirituale che spingeva l'uomo verso l'ascesi e la Venere terrena, simbolo dell'istintualità e della passione che lo ricacciavano verso il basso.

Un altro tema rappresentato di sovente fu la lotta tra un principio superiore ed uno inferiore (ad esempio Marte ammansito da Venere o i mostri abbattuti da Ercole), secondo l'idea di una continua tensione dell'animo umano, sospeso tra virtù e vizi; l'uomo in pratica era tendenzialmente rivolto verso il bene, ma incapace di conseguire la perfezione e spesso insidiato dal pericolo di ricadere verso l'irrazionalità dettata dall'istinto; da questa consapevolezza dei propri limiti deriva perciò il dramma esistenziale dell'uomo neoplatonico, conscio di dover rincorrere per tutta la vita una condizione apparentemente irraggiungibile.

Botticelli divenne amico dei filosofi neoplatonici, ne accolse pienamente le idee e riuscì a rendere visibile quella bellezza da loro teorizzata, secondo la sua personale interpretazione dal carattere malinconico e contemplativo, che spesso non coincide con quella proposta da altri artisti legati a questo stesso ambiente culturale.
 

LA PRIMAVERA DEL BOTTICELLI

L’interpretazione di Edgar Wind

Edgar Wind menziona la spiegazione neoplatonica della Primavera e della Nascita di Venere in funzione della “costellazione Ficino-Poliziano-Botticelli”, che era stata messa in evidenza, tra gli altri, da Gombrich. Su questo punto Wind sostiene che solo la relazione tra queste immagini e la poesia di Poliziano, dimostrata dallo studio di Warburg, è incontestabile. Si tratta dei poemi di Poliziano che imitano le opere degli antichi (in particolare gli Inni Omerici, le Odi di Orazio e i Fasti di Ovidio), con le quali Botticelli aveva familiarizzato grazie a Poliziano e Ficino. Wind nota, pure, che la parentela tra questi testi e le immagini di Botticelli è piuttosto una parentela di umore e di gusto, che si limita ad episodi isolati o a dettagli, senza spiegare il programma delle pitture.
Secondo Wind, la presenza delle Tre Grazie potrebbe darci una chiave del programma della Primavera nella sua integrità. Wind sostiene che, se questa triade delle figure delle Grazie nella parte sinistra del quadro è, come scrive l’umanista Giovanni Pico della Mirandola, l’unità di Venere che si dispiega nella Trinità delle Grazie, associando le figure della parte destra del quadro, che provengono da un passaggio d’Ovidio, l’insieme potrebbe rappresentare due fasi consecutive di un’unica e medesima teoria coerente dell’amore. Wind parla anche di “Metamorfosi dell’Amore che si dispiegano nel giardino di Venere”.
Per quanto riguarda la scena di destra, basandosi su un racconto dei Fasti di Ovidio, Wind interpreta il personaggio maschile di destra come Zefiro, interpretazione che era stata già data da Warburg. Secondo questo racconto, il vento primaverile Zefiro insegue Cloris, l’innocente ninfa della terra; questa tenta di sfuggirgli, ma quando egli la tocca, scaturiscono fiori dal suo respiro, ed ella si trasforma in Flora, messaggera della primavera. I due personaggi femminili della Primavera sono, secondo Wind, Cloris e Flora, legate dall’atto di metamorfosi: “Chloris eram quae Flora vocor” (Ero Cloris, io che mi chiamo Flora). Flora non rappresenta la Primavera, come suggeriscono altri ricercatori; Wind fonda ciò su un passaggio del poema di Lorenzo de Medici: “la primavera quando Flora di fiori adorna il mondo” . Sulla triade Zefiro, Cloris e Flora, Wind scrive: “Sotto il velo di una favola ovidiana, la progressione Zefiro-Cloris-Flora espone la ben nota dialettica dell’amore: Pulchritudo nasce da una discordia concors (discordanza armonica) tra Castitas (castità) e Amor (amore); la ninfa che fu e lo Zefiro innamorato si uniscono nella bellezza di Flora”. Questo episodio manifesta la primavera (dinotando la primavera).
Per il personaggio centrale, Wind non contraddice Vasari, che l’aveva interpretato come Venere. Sopra di lei si trova un Cupido, che mira con la sua freccia il personaggio centrale del gruppo delle tre donne di sinistra. Venere si presenta qui, secondo Wind, come dea di moderazione, che sospende le potenze dell’amore, carattere paradossale di Venere nella teoria dell’amore del neoplatonismo. La moderazione di Venere è espressa formalmente dalla sua opposizione ai due gruppi animati.
Wind identifica il gruppo di sinistra come le Tre Grazie. La Grazia centrale, dalla capigliatura e dall’abbigliamento sobrio, sarebbe la Castitas (la castità). La seconda Grazia dalla capigliatura, dall’abito e dal corpo abbondanti ed energici sarebbe la Pulchritudo (la bellezza), mentre la terza, dalla chioma più varia e complessa, la Voluptas (la voluttà). Secondo Wind, la loro danza sarebbe una danza d’iniziazione della Castitas all’amore con le cure della Pulchritudo e della Voluptas, sotto la protezione di Venere ma mirata da Cupido. I dettagli descrittivi delle Tre Grazie sarebbero ispirati da varie fonti letterarie: i loro abiti trasparenti sarebbero ispirati dalle descrizioni di Seneca e Orazio come “solutis itaque tunicis utuntur” (Gli abiti che indossano non hanno cintura, ma sono trasparenti). Il groviglio dei loro gesti ricorderebbe un’espressione di Orazio : “segnesque nodum solvere Gratiae” (il nodo delle Grazie). La danza sarebbe ispirata dalla regola di Seneca: “Ille consertis manibus in se redeuntium chorus”. Le posizioni dei piedi e delle mani e il “nodo” che formano le tre Grazie esprimerebbero i loro caratteri di passione e di moderazione, la discordia (discordanza), la concordia (concordia), ma anche la discordia concors (concordia nel contrasto).
Il personaggio di sinistra è identificato come Mercurio, con i suoi stivali con le ali che escono dai talloni come speroni, tipiche del Mercurio del Quattrocento, con la sciabola e l’elmetto che sono i suoi attributi. Mercurio è isolato dalla scena, sta giocando con le nubi addensate tra gli alberi. Il suo ruolo della scena si spiegherebbe, secondo Wind, con il fatto che egli è “la guida delle Grazie” . Il suo carattere pensoso e distaccato dal gruppo delle Grazie sarebbe spiegato dalla sua caratteristica, cara agli umanisti, di dio dell’intelletto, di santo patrono dello studio erudito e dell’interpretazione, di rivelatore della conoscenza segreta o “ermetica”, di mistagogo. Il dettaglio delle nubi apparirebbe, come lo nota Wind, in Plotino (“Animus affectibus ad materiam quasi nubibus procul expulsis ad intellectualis pulchritudinis lumen extemplo convertitur”: La mente, o pensiero, ritorna subito verso la luce della bellezza intellettuale, essendo cacciate via, lontano come nubi, le passioni che la muovono verso la materia) ma anche in Boccaccio (“Haec praeterea virga dicunt Mercurium... et tranare nubila, id est turbationes auferre”: Inoltre, Mercurio, con la sua verga, attraversa le nubi, in altre parole, egli dissipa i turbamenti). Così, Mercurio, secondo Wind, agiterebbe le nubi da ierofante neoplatonico, da "interpres secretorum" , da guida delle menti, che toglie i veli, che rivela i misteri, perché “Summus animae ad Deum ascendentis gradus caligo dicitur atque lumen” (La suprema saggezza è sapere che la luce divina si trova nelle nubi).
La composizione del quadro presenta una simmetria nella disposizione dei personaggi. Mercurio, che volge le spalle a tutti distaccandosene, fa da “pendant” a Zefiro, impetuoso: Wind nota che “tali sono le due forze complementari dell’amore, di cui Venere è la custode e Cupido l’agente”. Mercurio e Zefiro sono anche mitologicamente connessi perché Mercurio, in quanto condottiero delle nubi, è una specie di dio del vento ("Ventos agere Mercurii est"). Per di più, lo stesso termine latino, spiritus, indica il soffio (Zefiro) e l’ingegno (Mercurio).
I due gruppi triadici del quadro esprimono la discordia concors, dialettica neoplatonica, caratteristica della Theologia Platonica (1482) di Marsilio Ficino.
Il quadro nella sua interezza esprime la dialettica neoplatonica emanatio-conversio-remeatio, vale a dire la “processione” nella discesa di Zefiro verso Flora, la “conversione” con la danza delle Grazie, e la “risalita” nella figura di Mercurio. Vi è un orientamento verso l’aldilà, da cui, secondo la filosofia neoplatonica, le cose derivano e verso cui ritornano, ciò che è espresso formalmente dal movimento del quadro che inizia con Zefiro e termina con Mercurio, essendo le due entrambe figure del mondo invisibile.
 Bibliografia:
GOMBRICH, Ernst H., Symbolic Images. Studies in the art of the Renaissance, Phaidon 1972, p. 31-81.
WIND, Edgar, Pagan Mysteries in the Renaissance, New Haven 1958, p. 100-120.

Michelangelo e il neoplatonismo

Nel 1489, all’età di 14anni, Michelangelo fu ammesso alla corte di Lorenzo il Magnifico, allora centro principale di sviluppo e fulcro di diffusione di quella rinascita culturale che nel ‘500 investì ogni campo della vita umana. A Palazzo Medici, libero da ogni costrizione economica, egli non solo ebbe la possibilità di studiare l’arte antica attraverso le ricche collezioni della famiglia fiorentina, ma poté frequentare il Giardino di S. Marco, luogo d’incontro dei maggiori intellettuali dell’epoca, messo a disposizione da Lorenzo per favorire lo scambio e la diffusione delle nuove dottrine rinascimentali. Avvenne dunque in tali circostanze il prolifico incontro con due dei maggiori esponenti della dottrina neoplatonica, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, che tanto influenzò la sua formazione d’artista; nasceva difatti in quegli anni, per opera dello stesso Marsilio e con l’ausilio della famiglia Medici, l’Accademia platonica, ideale punto di raccolta di intellettuali, poeti ed artisti che condividevano un rinnovato interesse per la dottrina del filosofo greco riletta in chiave cristiana.
Michelangelo crebbe camminando nel Giardino di S. Marco, si lasciò nutrire dal mito dell’antichità classica, consapevole che compito dell’artista non era la semplice imitazione dell’antico ma la vera e propria emulazione, perseguita attraverso l’assimilazione e la comprensione dei suoi contenuti spirituali, respirò l’aria di quel profondo rinnovamento culturale che voleva l’uomo principio fondante dell’ordine e dell’unità del cosmo, gradino intermedio tra l’essere e Dio, si lasciò permeare dall’ideale platonico di bello, secondo cui la bellezza sensibile altro non è che il riflesso di quella divina, ed infine imprigionò nel marmo il sunto della sua ideologia estetica.
Se nell’opera poetica di Michelangelo si trovano espliciti riferimenti alla dottrina neoplatonica, quali l’ascesi mistica che dalla contemplazione della bellezza sensibile introduce alla fruizione del Bello Assoluto quale è trattato ne il Simposio di Platone, vera e propria opera di culto presso il circolo ficiniano, opere quali il San Matteo (1504-1506, Firenze, Galleria dell’Accademia), rappresentano la testimonianza tangibile del credo michelangiolesco. La spasmodica torsione dell’Evangelista che gonfia e contrae le membra nel tentativo, sembra, di liberarsi dal pesante marmo inerte, riconduce alla concezione platonica dell’anima prigioniera del corpo. Al pari dunque dell’uomo che lotta per liberarsi dal peso della materia e ascendere al divino, San Matteo lotta per liberarsi dal masso e aprirsi alla vita. Secondo tale visione, l’incompiutezza dell’opera, che prefigura il non-finito di molte sculture successive, appare come l’estrinsecazione del violento contrasto fra il moto vitale della forma e l’immota materia.