lunedì 16 luglio 2012

MIRCEA ELIADE; DIONISO E ZAGREUS

Mircea Eliade
Dioniso o le beatitudini ritrovate




da: Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. I: Dall'età della pietra ai Misteri Eleusini, tr. it. Sansoni, Firenze 1979, 388-403
Epifanie ed occultamenti di un dio "nato due volte"Dopo più di un secolo di ricerche, Dioniso resta ancora un enigma. Per l'origine, la sua natura, e il tipo di esperienza religiosa cui dà l'avvio, si distingue dagli altri grandi dèi greci. Secondo il mito, è figlio di Zeus e di una principessa, Semele, figlia di Cadmo, re di tebe. Mossa dalla gelosia, Era le tende un tranello -e Semele chiede a Zeus di poterlo contemplare nella sua vera forma di dio celeste. L'incauta viene incenerita, avendo partorito prima del tempo. Ma Zeus cuce il bambino nella sua coscia, e dopo qualche mese Dioniso viene al mondo. È proprio 'nato due volte'. Molti miti delle origini fanno derivare i fondatori di famiglie reali dall'unione tra dèi e donne mortali. Ma Dioniso è nato la seconda volta da Zeus, perciò lui è solo dio [1].
P. Kretschmer ha cercato di spiegare il nome di Semele con il termine traco-frigio Semelo, che indica la dea Terra, e questa etimologia è stata accettata da studiosi di chiara fama come Nilsson e Wilamowitz. Ma tale etimologia, sia o non sia corretta, non aiuta affatto nella comprensione del mito. Innanzitutto è difficile concepire uno hieros gamos tra il dio celeste e la Terra Madre che si concluda con la combustione di quest'ultima. D'altra parte, e questo è il punto essenziale, le più antiche tradizioni mitologiche insistono sul fatto che Semele, mortale [2], abbia generato un dio. Era proprio questa dualità paradossale di Dioniso a interessare i greci, perché essa sola poteva spiegare il paradosso della sua natura.
Nato da una mortale, Dioniso non apparteneva di diritto al pantheon degli dèi olimpici; ma riuscì, nonostante questo, a farvisi accettare e alla fine ad introdurvi anche sua madre Semele. Omero lo conosceva, come dimostrano molti accenni nelle sue opere, ma né il rapsodo né il suo pubblico s'interessavano a questo dio ‘straniero', così diverso dagli Olimpî. È stato tuttavia proprio Omero a trasmetteci la testimonianza più antica su Dioniso. Nell'Iliade (VI, 128-140) si riporta un celebre episodio: l'eroe tracio Licurgo insegue le nurtici di Dioniso, «e tutte insieme gettarono a terra gli strumenti del loro culto», mentre il dio «assalito da spavento, balzò nei flutti del mare e Teti lo ricevette nel suo seno tremante: un brivido terribile l'aveva colto alle urla del guerriero». Ma Licurgo «si attirò la collera degli dèi»: Zeus «lo rese cieco», ed egli non visse più a lungo «perché si era inimicato tutti gli dèi immortali».
Possiamo scorgere in questo episodio, in cui si parla di un inseguimento da parte di un ‘uomo lupo' e di un tuffo nel mare, il ricordo di un antico sfondo iniziatico [3]. Tuttavia all'epoca in cui Omero lo cita, il senso e lo scopo del mito sono diversi. Esso ci rivela uno dei tratti specifici del destino di Dioniso, la sua ‘persecuzione' da parte di personaggi antagonisti. Ma il mito testimonia anche che Dioniso è riconosciuto come membro della famiglia divina, perché non solo Zeus, suo padre, ma anche tutti gli altri dèi si sentirono lesi dal gesto di Licurgo.
La ‘persecuzione' esprime in modo drammatico la resistenza contro la natura e il messaggio religioso del dio. Perseo si rivolse con il suo esercito contro Dioniso e contro le ‘donne del mare' che l'accompagnavano; secondo un'altra tradizione, egli gettò il dio in fondo al lago di Lerna (Plutarco, De Iside, 35); e lo stesso tema della persecuzione si ritrova nelle Baccanti di Euripide. Si è tentato di interpretare tali episodi come ricordi mitizzati dall'opposizione incontrata dal culto dionisiaco. La teoria che ne sta alla base presuppone che Dioniso sia arrivato molto tardi in Grecia e che, implicitamente, sia un dio ‘straniero'. Dopo Erwin Rohde, la maggioranza degli studiosi considera Dioniso come un dio tracio introdotto in Grecia o direttamente dalla Tracia, oppure dalla Frigia. Walter Otto ha però insistito sul carattere arcaico e pan-ellenico di Dioniso, e il fatto che il suo nome -di-wo-nu-so-jo- si ritrovi in un'iscrizione micenea [4] sembra dargli ragione. D'altra parte non è meno vero che Erodoto (II, 49) considerava Dioniso come un dio «introdotto tardivamente»; e nelle Baccanti (v. 219) Penteo parlava di «quel dio venuto più tardi, chiunque esso sia».
Qualunque sia la storia della penetrazione del culto dionisiaco in Grecia, i miti e i frammenti mitologici che alludono all'opposizione da esso incontrata hanno un significato più profondo: ci ragguagliano allo stesso tempo sull'esperienza religiosa dionisiaca e sulla struttura specifica del dio. Dioniso doveva incontrare resistenza e persecuzioni, perché l'esperienza religiosa da lui propugnata minacciava tutto uno stile d'esistenza e un universo di valori. Si trattava certo della supremazia insidiata della religione olimpica e delle sue istituzioni, ma l'opposizione tradiva anche un dramma più intimo, e che è del resto ampiamente attestato nella storia delle r eligioni: la resistenza contro ogni forma di esperienza religiosa assoluta, che si può effettuare solo negando il resto (qualunque nome gli si dia: equilibrio, personalità, coscienza, ragione, ecc.).
Walter Otto ha colto molto bene la correlazione tra il tema della ‘persecuzione' di Dioniso e la tipologia delle sue diverse epifanie. Dioniso è un dio che si mostra improvvisamente e che scompare poi in modo misterioso. Alle feste Agrionie di Cheronea, le donne lo cercavano invano, e ritornavano con la notizia che il dio era presso le Muse, che l'avevano nascosto (Otto, Dionysos, p. 79). Scompariva tuffandosi nel lago di Lerna o nel mare, e riappariva -come nella festa delle Antesterie- in una barca sui flutti. Le allusioni al suo ‘risveglio' in culla (ibidem, p. 82 ss) indicano il medesimo tema mitico. Queste epifanie e questi occultamenti periodici collocano Dioniso tra gli dèi della vegetazione [5]. In effetti egli mostra una certa affinità con la vita delle piante;l'edera e il pino sono quasi diventati suoi attributi, e le sue feste più popolari s'inseriscono nel calendario agricolo. Ma Dioniso è in rapporto con la totalità della vita, come mostrano le sue relazioni con l'acqua e i germi, il sangue o lo sperma, gli eccessi di vitalità che si manifestano nelle sue epifanie animali (toro, leone, capro) [6]. Le sue comparse e scomparse inattese riflettono in certo qual modo l'apparizione e l'occultamento della vita e della morte e, in ultima analisi, la loro unità. Non si tratta però di un'osservazione ‘obiettiva' di questo fenomeno cosmico la cui banalità non poteva suscitare nessuna idea religiosa, né produrre alcun mito. Attraverso le sue epifanie e le sue occultazioni, Dioniso rivela il mistero e la sacralità dell'unione tra la vita e la morte. Rivelazione di natura religiosa, perché si realizza grazie alla presenza stessa del dio. Infatti queste apprizioni e scomparse non sono sempre in relazione con le stagioni: Dioniso si mostra durante l'inverno, e scompare nella stessa festività primaverile in cui si realizza la sua epifania più trionfale.
‘Scomparsa' e ‘occultamento' sono espressioni mitologiche della discesa agl'Inferi, dunque della ‘morte'. In effetti a Delfi si mostrava la tomba di Dioniso e anche ad Argo si parlava della sua morte. D'altronde, quando nel rituale argolico Dioniso è richiamato dal fondo del mare (Plutarco, De Iside, 35), riemerge proprio dal paese dei morti. Secondo un inno orfico (n. LIII), quando Dioniso è assente si ritiene ch'egli si trovi presso Persefone. Ed infine il mito di Zagreus-Dioniso -di cui ci occuperemo tra poco- narra della morte violenta del dio; ucciso, smembrato e divorato dai Titani.
Tali aspetti, multipli, ma complementari di Dioniso, sono ancora percepibili nei suoi rituali pubblici, malgrado le inevitabili ‘purificazioni' e reinterpretazioni.

L'arcaicità di alcune feste pubblicheA partire da Pisistrato, si celebravano ad Atene quattro feste in onore di Dioniso [7]. Le ‘Dionisie campestri', che si svolgevano in dicembre, erano feste dei villaggi e consistevano nel portare in processione un fallo di grandi dimensioni con accompagnamento di canti. Cerimonia tipicamente arcaica e ampiamente diffusa in tutto il mondo, la falloforia ha certamente preceduto il culto di Dioniso. Altri divertimenti rituali prevedevano gare e contese, e soprattutto sfilate di maschere o di personaggi travestiti da animali. Anche qui i riti hanno preceduto Dioniso, ma si può intuire come il dio del vino sia giunto a mettersi alla testa del corteo di maschere.
Molto di meno sappiamo invece sulle feste lenee, che si svolgevano in pieno inverno. Una citazione di Eraclito precisa che la parola Lenai e il verbo ‘far le Lenai' venivano usati come equivalenti di ‘baccanti' e di ‘fare la baccante'. Il dio era evocato mediante il daduchos. Secondo una glossa di un verso di Aristofane, il sacerdote eleusino, «con una torcia in mano, esclama: Chiamate il dio! e gli astanti gridano: Figlio di Semele, Iacchos [8], dispensatore di ricchezze!».
Le Antesterie erano celebrate approssimativamente in febbraio-marzo, e le ‘Grandi Dionisie', d'istituzione più recente, in marzo-aprile. Tucidite (II, 15, 4) considerava le Antesterie la più antica festa in onore di Dioniso. Era anche la più importante. Il primo giorno si chiamava Pithoigia, apertura dei vasi d'argilla (pithoi) nei quali si conservava il vino dopo il raccolto autunnale. Si portavano i vasi al santuario di ‘Dioniso della palude' per compiere le libagioni al dio, e in seguito si gustava il vino nuovo. Nel s econdo giorno (Choes, le brocche) si svolgeva una gara di bevitori: erano forniti di una brocca che veniva riempita di vino e, al segnale, ne trangugiavano il contenuto il più velocemente possibile. Proprio come certe gare delle ‘Dionisie campestri' (per esempio l'askoliasmos, in cui i giovani cercavano di mantenersi il più a lungo possibile in equilibrio su di un otre previamente oliato), anche questa competizione si articola nello scenario ben noto delle gare e dei giochi di ogni specie (sportivi, oratorî, ecc.) che tende al rinnovamento della vita [9]. Ma l'euforia e l'ebbrezza anticipano in un certo qual modo la vita di un aldilà che non assomiglia più al triste mondo omerico.
Lo stesso giorno delle Choes si formava un corteo che raffigurava l'arrivo del dio nella città. Poiché si riteneva venisse dal mare, il corteo comprendeva una barca trasportata su quattro ruote di carro, in cui si trovava Dioniso con un grappolo d'uva in mano e due satiri nudi che suonavano il flauto. La processione comprendeva parecchi personaggi probabilmente mascherati, e un toro sacrificale preceduto da un suonatore di flauto e da portatori di ghirlande che si dirigevano verso l'unico santuario aperto quel giorno, l'antico Limnaion. Là si svolgevano diverse cerimonie, a cui partecipavano la Basilimna, la ‘Regina' cioè la moglie dell'Arconte-Re, e quattro dame di alto rango. A partire da questo momento, la Basilimna, erede delle antiche regine della città, era considerata la sposa di Dioniso. Saluva accanto a lui nel carro e un nuovo corteo, di tipo nuziale, si dirigeva verso il Boukoleion, l'antica residenza reale. Aristotele precisa (Cost. di Atene, 3, 5) che la ierogamia tra il dio e la regina si consumava nel Boukoleion (lett. ‘stalla del bue') e la scelta di questo luogo indica che l'epifania taurina di Dioniso era ancora ben nota.
Si è cercato di interpretare quest'unione in senso simbolico, o supponendo che il dio venisse personificato dall'Arconte. Ma W. Otto sottolinea giustamente l'importanza della testimonianza di Aristotele [10]. La Basilinna riceve il dio nella casa del suo sposo, l'erede dei re - e Dioniso si rivela in quanto re. È probabile che questa unione simboleggi il matrimonio del dio con la città nel suo complesso, con le conseguenze faste che si possono immaginare. Ma è un atto caratteristico di Dioniso, divinità dalle epifanie brutali, che richiede la proclamazione pubblica della sua supremazia. Non si conosce nessun altro culto greco in cui si ritiene che un dio si unisca con la regina.
I tre giorni delle Antesterie, soprattutto il secondo, quello del trionfo di Dioniso, sono però giorni nefasti, perché segnati dal ritorno delle anime dei morti, e insieme a loro dei keres, portatori di influenze malefiche del mondo infero.
A loro era consacrato l'ultimo giorno delle Antesterie. Si pregava per i morti, si preparavano le panspermie, poltiglie di diversi grani cereali che dovevano essere consumate prima del cader della notte. E, arrivata la notte, si gridava: «Fuori i keres/ Finite le Antesterie!». Lo sfondo rituale è ben noro, ed è attestato un po' ovunque nelle civiltà agricole. I morti e le potenze dell'oltretomba governano la fertilità e le ricchezze, e ne sono i dispensatori. «Dai morti -è scritto in un trattato ippocratic- ci vengono nutrimento, crescita e germe». In tutte le cerimonie a lui dedicate, Dioniso si rivela al tempo stesso il dio della fertilità e della morte. Eraclito (fr. 15) diceva già che «Ade e Dioniso [...] sono un'unica e medesima persona».
Abbiamo già ricordato il rapporto di Dioniso con le acque, l'umidità e la linfa vegetale. E dobbiamo anche segnalare i ‘miracoli' che accompagnano le sue epifanie, o le annunciano: l'acqua che sgorga dalla roccia, i fiumi che si colmano di latte e miele. A Teos, nel giorno della sua festa, una sorgente fa sgorgare vino in abbondanza (Diodoro Siculo, III, 66, 2). A Elide, tre scodelle vuote, lasciate durante la notte in una camera sigillata, all'indomani vengono ritrovate piene di vino (Pausania, VI, 2, 6, 1-2). ‘Miracoli' di questo tipo sono attestati anche altrove; il più famoso tra questi era quello delle ‘vigne di un giorno', che fiorivano e rpoducevano uva in poche ore, ‘miracolo' che avveniva in diversi luoghi, perché ne parlano parecchi autori [11].

Euripide e le orge dionisiacheSimili ‘miracoli' sono specifici del culto sfrenato ed estatico di Dioniso che riflette l'elemento più originale, e probabilmente più antico, del dio. Nelle Baccanti di Euripide troviamo una testimonianza inestimabile di ciò che ha potuto rappresentare l'incontro tra il genio greco e il fenomeno delle orge dionisiache. Lo stesso Dioniso è il protagonista delle Baccanti, fatto senza precedenti nell'antico teatro greco. Offeso perché il suo culto era ancora ignorato in Grecia, Dioniso arriva dall'Asia con un gruppo di Menadi e si ferma a Tebe, città natale di sua madre. Le tre figlie del re Cadmo negano che la loro sorella, Semele, sia stata amata da Zeus e che abbia generato un Dio. Dioniso le rende ‘folli' e le sue zie, con le altre donne di Tebe, corrono verso la montagna a celebrarvi riti orgiastici. Penteo, che era succeduto al trono a suo nonno Cadmo, aveva proibito il culto e, malgrado gli avvertimenti ricevuti, si ostinava nella sua intransigenza. Travestito da officiante del proprio culto, Dioniso è catturato e imprigionato da Penteo. Ma riesce miracolosamente a fuggire e persino a persuadere Penteo ad andare a spiare le donne durante le loro cerimonie orgiastiche. Le Menadi scoprono così Penteo e lo fanno a pezzi: sua madre Agave ne porta in trionfo la testa, credendo che si tratti della testa di un leone [12].
Qualunque fosse l'intento di Euripide nello scrivere le Baccanti, questo capolavoro della tragedia greca costituisce nello stesso tempo anche il documento più importante del culto dionisiaco, in cui il tema «resistenza, persecuzione e trionfo» trova la sua illustrazione più evidente [13]. Penteo si oppone a Dioniso perché è uno «straniero, un predicatore, un mago [...] dai bei boccoli biondi e profumati, guance di rosa, con negli occhi la grazia di Afrodite. Con il pretesto di insegnare le dolci e seducenti pratiche dell'evoé, corrompe le fanciulle» (233 ss). Le donne vengono incitate ad abbandonare la loro casa e a correre, la notte, per i monti, danzando al suono dei timpani e dei flauti. E Penteo teme soprattutto l'influenza del vino, perché «con le donne, se il liquor d'uva figura sulla mensa, non promette nulla di buono in queste devozioni» (260-262).
Tuttavia non è il vino a provocare l'estasi delle baccanti. Un servo di Penteo, che le aveva sorprese all'alba sul Citerone, le descrive vestite di pelli di cerbiatto, coronate d'edera, cinte di serpenti, che recavano in braccio, allattandoli, cerbiatti o lupacchiotti selvatici (695 ss.). Abbondano i ‘miracoli' tipicamente dionisiaci: le baccanti toccano la roccia con i loro tirsi e subito ne scaturisce l'acqua o ne sgorga il vino; grattano la terra e trovano polle di latte, mentre i tirsi cinti d'edera stillano gocce di miele (703 ss.) «Certo -continua il servo- se tu fossi stato là, questo dio che tu disprezzi, ti saresti convertito a lui, rivolgendogli le tue preghiere, dopo un tale spettacolo» (712-714).
Sorpreso da Agave, poco mancò che il servo e i suoi compagni venissero dilaniati. Le baccanti si gettarono allora sugli animali che pascolano nel prato e, «senza nessun ferro in mano» li fanno a brani. «Sotto l'opera delle mille mani delle fanciulle», tori minacciosi sono dilaniati in un batter d'occhio. Le Menadi si abbattono in seguito sulla pianura. «Vanno a strappar via i bambini dalle case. Tutto ciò che si caricano sulle spalle, pur senza esservi attaccato, vi aderisce senza cadere nel fango; anche il bronzo, anche il ferro. Sui loro boccoli il fuoco trascorre senza bruciare.Infuriati per essere stati assaliti dalle baccanti, si corre alle armi. Ed ecco il prodigio che tu, Signore, avresti dovuto vedere: le frecce che si lanciavano contro di loro non facevano sgorgare sangue, ed esse, scagliando il loro tirso, li ferivano...» (754-763).
Inutile sottolineare la differenza tra questi riti notturni, sfrenati e selvaggi, e le feste dionisiache pubbliche, di cui abbiamo parlato prima. Euripide ci presenta un culto segreto, specifico dei Misteri. «Che cosa sono, s econdo te, questi Misteri?» s'informa Penteo. E Dioniso risponde: «La loro segretezza vieta di comunicarli a coloro che non sono baccanti». «Qual è la loro utilità per coloro che li celebrano?» - «Non ti è lecito apprenderlo, ma sono cose degne di essere conosciute» (470-474).
Il Mistero era costituito dalla partecipazione delle baccanti all'epifania totale di Dioniso. I riti vengono celebrati di notte, lontano dalla città, sui monti e nelle foreste. Attraverso il sacrificio della vittima per squartamento (sparagmos) e la consumazione della carne cruda (omofagia) si realizza la comunione con il dio, perché gli animali fatti a brani e divorati sono epifanie, o incarnazioni, di Dioniso. Tutte le altre esperienze -la forza fisica eccezionale, l'invulnerabilità al fuoco e alle armi, i ‘prodigi' (l'acqua, il vino, il latte che scaturiscono dal suolo), la ‘dimestichezza' con i serpenti e i piccoli delle bestie feroci- sono resi possibili dall'entusiasmo, dall'identificazione con il dio. L'estasi dionisiaca significa anzitutto il superamento della condizione umana, la scoperta della liberazione totale, il raggiungimento di una libertà e di una spontaneità inaccessibili ai mortali. Che tra queste libertà ci sia stata anche la liberazione dalle proibizioni, dalle regole e dalle convenzioni di tipo etico e sociale, sembra essere certo; e questo spiega in parte l'adesione massiccia delle donne [14]. L'esperienza dionisiaca però raggiungeva livelli più profondi. Le baccanti che divoravano le carni crude ritornavano a un coportamento rimosso da decine di migliaia di anni; sfrenatezze di questo tipo rivelavano una comunione con le forze vitali e cosmiche che si poteva interpretare soltanto come una possessione divina. E non stupisce che la possessione sia stata confusa con la ‘follia', la mania. Dioniso stesso aveva conosciuto la ‘follia', e la baccante si limitava a condividere le prove e la passione del dio, e questo era, in definitiva, uno dei mezzi più sicuri per comunicare con lui.
I Greci conoscevano altri casi di mania provocata da una divinità. Nella tragedia Eracle di Euripide, la follia dell'eroe è opera di Era: nell'Aiace di Sofocle è Atena a produrre lo sconvolgimento psichico. Il ‘coribantismo', che gli antichi del resto accostavano alle orge dionisiache, era una mania provocata dalla possessione dei Coribanti, e tale esperienza sfociava in una vera e propria iniziazione. Ciò che tuttavia contraddistingue Dioniso e il suo culto non sono le crisi psicopatiche, ma il fatto che esse fossero valorizzate in quanto esperienza religiosa: sia come una punizione sia come una grazia del dio [15]. In ultima analisi, l'interesse di un confronto tra riti e movimenti collettivi apparentemente similari -per esempio certe danze sfrenate del Medioevo o l'omofagia rituale degli Aissaua, una confraternita mistica dell'Africa del Nord [16]- sta nel fatto che esso fa emergere l'originalità del dionisismo.
È raro che un dio giunga all'epoca storica pregno di un'eredità così arcaica; riti con maschere teromorfiche, falloforia, sparagmos, omofagia, antropofagia, mania, enthousiasmos. Il fatto più notevole è che, pur conservando quest'eredità, residuo della preistoria, il culto di Dioniso, dopo essersi integrato nell'universo spirituale dei Greci, non ha cessato di creare nuovi valori religiosi. Certo, la frenesia provocata dalla possessione divina -la ‘follia'- dava da pensare a molti autori, e spesso incoraggiava l'ironia e la derisione. Erodoto (IV, 78-80) riferisce l'avventura di un re scita, Skylas, che si era fatto «iniziare ai riti di Dioniso Baccheios» a Olbia sul Boristene (Dniepr). Durante la cerimonia (telete), posseduto dal dio, faceva «il baccante e il folle». Con molta probabilità si trattava di una processione in cui gli iniziati, «sotto il dominio del dio» si lasciavano trascinare da una frenesia che gli astanti, e anche gli stessi posseduti, consideravano come ‘follia' (mania).
Erodoto si limitava a riferire una storia che gli era stata raccontata a Olbia. Demostene, con l'intenzione di mettere in ridicolo il suo avversario Eschine, ci rivela però in realtà, in un suo celebre passo (Sulla corona, 259), certi riti dei piccoli tiasi (Bacchein) celebrati, nell'Atene del IV secolo, dai fedeli di Sabazios, dio tracio omologo di Dioniso. (Gli antichi lo consideravano d'altra parte come Dioniso tracio nel suo nome indigeno) [17]. Demostene si riferisce ai riti seguiti da letture di ‘libri' (probabilmente un testo scritto, contenente hieroi logoi); parla di ‘nebrizzare' (allusione alla pelle del cerbiatto, la nebride; si trattava forse di un sacrificio con la consumazione dell'animale crudo), di ‘craterizzare' (il bacile in cui si mescolavano l'acqua e il vino, la ‘pozione mistica'), di ‘purificazione' (catharmos), consistente in specie nello sfregare l'iniziato con argilla e farina. Alla fine l'accolito faceva rialzare l'iniziato dalla sua posizione prona o supina, e questi ripeteva la formula: «Sono sfuggito al male e ho trovato il meglio». E tutta l'assemblea esplodeva in ololyge. All'indomani si svolgeva la processione degli adepti, col capo coronato di finocchio e di fronde di pioppo bianco. In testa camminava Eschine brandendo serpenti e gridando: «Evoé, misteri di Sabazios!», e danzando al grido di Hyés, Attés, Attés, Hyés. Demostene parla anche di un cesto di forma di vaglio, il liknon, il ‘vaglio mistico', la culla primitiva di Dioniso bambino.
Sotto le forme più diverse si trova comunque, al centro del rituale dionisiaco, un'esperienza estatica di una frenesia più o meno intensa: la mania Questa ‘follia' costituiva in qualche modo la prova della ‘divinizzazione' (entheos) dell'adepto. L'esperienza era certamente indimenticabile, perché si partecipava alla spontaneità creatrice e alla libertà inebriante, alla forza sovrumana e all'invulnerabilità di Dioniso. La comunione con il dio faceva esplodere per un certo tempo la condizione umana, ma non giungeva affatto a cambiarla. Non ci sono allusioni all'immortalità nelle Baccanti, neppure in un'opera tardiva come le Dionisiache di Nonno. Ciò è sufficiente a distinguere Dioniso da Zalmoxis, con cui lo si confronta, e a volte lo si confonde, in seguito agli studi di Rohde; infatti questo dio dei Geti ‘immortalizzava' gli iniziati nei suoi misteri. Ma i Greci non ardivano ancora colmare la distanza infinita che, ai loro occhi, separava la divinità dalla condizione umana.

Quando i Greci riscoprirono la presenza del dio...Pare ormai assodato il carattere iniziatico e segreto dei tiasi privati (v. supra, le Baccanti 470-474) [18], benché almeno una parte delle cerimonie (per esempio le processioni) siano state pubbliche. È difficile precisare quando, e in quali circostanze, i riti segreti e iniziatici dionisiaci abbiano assunto la funzione specifica alle religioni dei Misteri. Eminenti studiosi quali Nilsson e Festugière contestano l'esistenza di un Mistero dionisiaco, perché mancano precisi riferimenti alla speranza escatologica. Ma si potrebbe obiettare che, soprattutto per il periodo antico, disponiamo di scarsissime conoscenze dei riti segreti, per non dire poi del loro significato esoterico (che senza dubbio esisteva, dato che i significati esoterici dei riti segreti sono attestati ovunque nel mondo, a tutti i livelli di cultura).
Non si deve inoltre limitare la morfologia della speranza escatologica alle espressioni rese familiari dall'orfismo o dai Misteri dell'epoca ellenistica. L'occultamento e l'epifania di Dioniso, le sue discese agli Inferi (paragonabili a una morte seguita da risurrezione) e soprattutto il culto di Dioniso fanciullo [19], con riti celebranti il suo risveglio -pur tralasciando il tema mitico rituale di Dioniso-Zagreus, su cui ritorneremo tra breve- indicano la volontà, e la speranza, di un rinnovamento spirituale. Il fanciullo divino è pregno, in tutto il mondo, di un simbolismo iniziatico relativo al mistero di una ‘rinascita' d'ordine mistico. (Per l'esperienza religiosa è più o meno indifferente che tale simbolismo sia o non sia ‘compreso' intellettualmente). Ricordiamo che il culto di Sabazios, identificato con Dioniso, presentava già la struttura di un mistero («Sono sfuggito al male!»). È vero che le Baccanti non parlano d'immortalità, ma la comunione, anche se provvisoria, con il dio non mancava di influire sulla condizione post mortem del bacchos. La presenza di Dioniso nei Misteri d'Eleusi fa supporre il significato escatologico perlomeno di alcune esperienze orgiastiche.
Il carattere ‘misterico' del culto si precisa soprattutto a partire da Dioniso-Zagreus. il mito dello smembramento del fanciullo Dioniso-Zagreus ci è pervenuto soprattutto attraverso autori cristiani [20]. Come prevedibile, essi ce lo presentano evemerizzato, incompleto e in modo piuttosto tendenzioso. Ma proprio perché erano liberi dalla proibizione di parlare apertamente di cose sante e segrete, gli scrittori cristiani ci hanno comunicato molti particolari preziosi. Era invia i Titani, che attirano Dioniso-Zagreus con alcuni balocchi (ninnoli, crepundia, uno specchio, un gioco di aliossi, una palla, una trottola, un rombo), lo massacrano e lo fanno a pezzi. Fanno cuocere i pezzi in un calderone e, secondo certe versioni, lo divorano. Una dea -Atena, Rea o Demetra- riceve, o salva, il cuore e lo pone in un cofanetto. Venuto a sapere del d elitto, Zeus folgora i Titani. Gli autori cristiani non accennano alla resurrezione di Dioniso, ma questo episodio era noto agli antichi. L'epicureo Filodemo, contemporaneo di Cicerone, parla delle tre nascite di Dioniso, «la prima da sua madre, la seconda dalla coscia e la terza quando, dopo lo squartamento da parte dei Titani, ritorna in vita dopo che Rea ne ha ricomposto le membra» [21]. Firmico Materno conclude aggiungendo che a Creta (dov'egli ambienta la sua storia evemerizzata) l'assassinio veniva commemorato da riti annuali, che ripetevano ciò che il «fanciullo aveva compiuto e subìto al momento della morte»: «nel profondo della foresta, emettono strani clamori e simulano la follia di un essere furioso», facendo credere che il delitto è stato compiuto in preda a follia e «dilaniano coi denti un toro vivo».
Il tema mitico-rituale della passione e risurrezione del fanciullo Dioniso-Zagreus ha suscitato interminabili controversie, soprattutto a causa delle sue interpretazioni ‘orfiche'. In questa sede è sufficiente precisare che le informazioni trasmesse dagli autori cristiani sono confermate dagli autori più antichi. Il nome di Zagreus viene menzionato per la prima volta in un poema epico del ciclo tebano, Alcmeone (VI secolo) [22] e significa ‘gran cacciatore', in riferimento al carattere selvaggio e orgiastico di Dioniso. Per quanto riguarda il delitto dei Titani, Pausania (VIII, 37, 5) ci ha trasmesso un'informazione che resta preziosa, malgrado lo scetticismi di Wilamowitz e di altri studiosi: Onomacrito, che viveva ad Atene nel VI secolo, al tempo dei Pisistrati, aveva scritto un poema sul seguente soggetto: «Avendo desunto il nome dei Titani da Omero, aveva fondato alcune orgia di Dioniso, facendo dei titani gli autori delle sofferenze del dio». Secondo il mito, i Titani si erano avvicinati al fanciullo divino impiastricciati di gesso per non essere riconosciuti. Orbene, nei misteri di Sabazios celebrati ad Atene, uno dei riti iniziatici consisteva nel cospargere i candidati con una polvere o con del gesso [23] e questi due fatti sono stati accostati sin dall'antichità (cfr. Nonno, Dionys., XXVII, 228 ss.). Si tratta di un rituale arcaico d'iniziazione, ben noto nelle società ‘primitive': i novizi si sfregano sul viso polvere o cenere, allo scopo di assomigliare ai fantasmi; in altri termini, subiscono una morte rituale. Per quanto riguarda i ‘balocchi mistici', essi erano conosciuti già da tempo; in un papiro del II secolo a. C., trovato a Fayyûm (Gouroub), disgraziatamente mutilo, si citano la trottola, il rombo, gli aliossi e lo specchio (Orf. Fr., 31).
L'episodio più drammatico del mito -e cioè il fatto che, dopo aver squartato il fanciullo, i Titani ne abbiano gettato i pezzi in un calderone, dove li hanno fatti bollire e poi arrostire- era noto, in tutti i suoi particolari, già nel IV secolo e, fatto ancor più significativo, si ricordavano questi particolari in relazione con la ‘celebrazione dei Misteri' [24]. Jeanmaire aveva opportunamente ricordato che la cottura in pentola o il passaggio attraverso il fuoco costituiscono riti iniziatici che conferiscono l'immortalità (cfr. l'episodio di Demeter e Demofonte) o il ringiovanimento (le figlie di Peleo fanno a pezzi il padre e lo cuociono in una pentola) [25]. Aggiungiamo che i due riti -smembramento e cottura o passaggio attraverso il fuoco- caratterizzano le iniziazioni sciamaniche.
Nel ‘delitto dei Titani' si può dunque riconoscere un antico scenario iniziatico di cui si era perduto il significato originario. I Titani si comportano da Maestri d'iniziazione, vale a dire ‘uccidono' il novizio, allo scopo di farlo ‘ri-nascere' a un tipo superiore di esistenza (nel nostro esempio si potrebbe dire che essi conferiscono divinità e immortalità al fanciullo Dioniso). Ma, in una religione che proclamava la supremazia assoluta di Zues, i Titani potevano svolgere soltanto un ruolo demoniaco -e perciò furono fulminati. Secondo alcune varianti, gli uomini sono stati creati dalle loro ceneri -e questo mito ha svolto un ruolo considerevole nell'orfismo.
Il carattere iniziatico dei riti dionisiaci si può scorgere anche a Delfi, quando le donne celebravano la rinascita del dio. Infatti il vaglio d elfico «conteneva un Dioniso smembrato e pronto a rinascere, uno Zagreus», come dice Plutarco (De Iside, 35), e questo Dioniso «che rinasceva come Zagreus era allo stesso tempo il Dioniso tebano, figlio di Zeus e di Semele» [26].
Diodoro Siculo sembra riferirsi ai Misteri dionisiaci, quando scrive che «Orfeo ha trasmesso nelle cerimonie dei misteri lo smembramento di Dioniso» (V, 75, 4). E in un altro passo Orfeo viene presentato come un riformatore dei Misteri dionisiaci: È per questo che le iniziazioni dovute a Dioniso sono chiamate orfiche» (III, 65, 6). La tradizione trasmessa da Diodoro è preziosa in quanto conferma l'esistenza dei Misteri dionisiaci. Ma è probabile che già nel V secolo questi Misteri avessero mutuato alcuni elementi ‘orfici', e in effetti Orfeo era proclmato «profeta di Dioniso» e «fondatore di tutte le iniziazioni» (v. cap. XIX, vol. II).

Più ancora degli altri dèi greci, Dioniso sorprende per la molteplicità e la novità delle sue epifanie, per la varietà delle sue trasformazioni. È in perenne movimento; penetra ovunque, in tutti i paesi, presso tutti i popoli, in tutte le religioni, pronto ad associarsi a divinità diverse, anzi perfino antagoniste (per esempio Demetra, Apollo). È, senza dubbio, l'unico dio greco che, rivelandosi sotto aspetti differenti, affascina e attrae tanto i contadini che le élites intellettuali, i politici e i contemplativi, gli orgiastici e gli a sceti. L'ebbrezza, l'erotismo, la fertilità universale, ma anche le esperienze indimenticabili suscitate dal ritorno periodico dei morti, o dalla mania, dallo sprofondare nell'incoscienza animale o dall'estasi dell'enthousiasmos - tutti questi terrori e rivelazioni hanno un'unica origine: la presenza dei dio. La sua natura esprime l'unità paradossale della vita e della morte. Per questo, Dioniso costituisce un tipo di divinità radicalmente diverso dagli Olimpî. Era forse, tra tutti gli dèi, il più vicino agli uomini? In ogni caso ci si poteva avvicinare a lui, si giungeva a incorporarlo, e l'estasi della mania dimostrava che la condizione umana poteva essere oltrepassata.
Questi rituali erano suscettibili di sviluppi inattesi. Il ditirambo, la tragedia, il dramma satirico sono, in modo più o meno diretto, creazioni dionisiache. È appassionante seguire la trasformazione di un rito collettivo, il dithyrambos, implicante la frenesia estatica, in spettacolo e infine in genere letterario [27]. Se, da un lato, certe liturgie pubbliche sono diventate spettacoli e hanno fatto di Dioniso il Dio del teatro, altri rituali invece, segreti e iniziatici, si sono evoluti in Misteri. Perlomeno indirettamente, l'orfismo è debitore alle tradizioni dionisiache. Più di tutti gli altri dèi olimpici, questo dio giovane non cesserà di gratificare i suoi fedeli con nuove epifanie, messaggi inattesi e speranze escatologiche.

Note
[1] Pindaro, fr. 85; Erodoto, II, 146; Euripide, Le Baccanti, 94 ss.; Apollodoro, Bibl., III, 4, 3, ecc.
[2] Iliade, XIV, 323, la definisce «una donna di Tebe», ed Esiodo, Teogonia, 940 ss., una «donna mortale».
[3] Cfr. H. Jeanmaire, Dionysos, p. 76; su Licurgo e le iniziazioni di pubertà, cfr. id., Couroï et Courètes, p. 463 ss.
[4] Si tratta di un frammento di Pilo (X a 0 6) nella lineare B.
[5] Si è cercato di vedere in Dioniso un dio dell'albero, del ‘grano' o della vite, e si è interpretato il mito del suo smembramento come un'illustrazione della ‘passione' dei cereali o la preparazione del vino; già i mitografi citati da Diodoro, III, 62.
[6] Cfr. i testi e i riferimenti discussi da W. Otto, pp. 162-164.
[7] Il fatto che queste due feste portassero i nomi dei mesi corrispondenti -Lenaion e Antesterion- dimostra il loro arcaismo e il loro carattere panellenico.
[8] Fu il genio delle processioni dei Misteri eleusini ad essere assimilato a Dioniso; le fonti sono discusse da W. Otto, op. cit., p. 80; cfr. Jeanmaire, op. cit., p. 47.
[9] Ricordiamo che si tratta di uno scenario estremamente arcaico e diffuso ovunque, uno dei principali retaggi della preistoria che svolge ancora un ruolo privilegiato in ogni forma di società.
[10] Si tratta di un'unione completamente diversa da quella, per esempio, di Bel a Babilonia (la compagnia di una ierodula quando il dio si trovava nel tempio) o della sacerdotessa che doveva dormire nel tempio di Apollo a Patara, allo scopo di ricevere direttamente dal dio la saggezza che poi avrebbe rivelato attraverso l'oracolo; cfr. Otto, p. 84.
[11] Sofocle, Tieste (fr. 234) e le altre fonti citate da Otto, p. 98 ss.
[12] Si conoscono altri esempi di ‘follia' provocata da Dioniso, quando non era riconosciuto come dio: ad esempio, le donne di Argo (Apollodoro, II, 2, 2; III, 5, 2); le figlie di Minia a Orcomeno, che dilaniarono e divorarono uno dei loro figli (Plutarco, Quaest. gr. XXXVIII, 299 e).
[13] Nel V secolo Tebe era diventata il centro del culto, perché là Dioniso era stato generato e là si trovava anche la tomba di Semele. Ciò nondimeno non si era scordata la resistenza dei primi tempi e uno degli insegnamenti delle Baccanti era senz'altro questo: che non si deve rifiutare un dio perché lo si considera ‘nuovo'.
[14] Tiresia difende però il dio: «Dioniso non obbliga le donne ad essere caste. La castità dipende dal carattere, e quella che è casta di natura parteciperà alle orge senza corrompersi» (Bacc., 314 ss.).
[15] Ricordiamo che ciò che distingue uno sciamano da uno psicopatico è il fatto che egli riesce a guarirsi e finisce poi col disporre di una personalità più forte e più creativa del resto della comunità.
[16] Rohde aveva confrontato l'espansione della religione estatica di Dioniso e le epidemie di danze convulsive del Medioevo. R. Eisler richiamò l'attenzione sugli Aissaua (Isawiya), che praticano l'omofagia rituale (chiamata frissa, dal verbo farassa, ‘sbranare'). Dopo essersi identificati misticamente nei carnivori, di cui portano il nome (sciacalli, pantere, leoni, gatti, cani), gli adepti fanno a brani, sventrano e divorano bovini, lupi, montoni, pecore, capre. La manducazione delle carni crude è seguita da una danza sfrenata di giubilo «per gioire ferocemente dell'estasi e comunicare con la divinità» (R. Brunnel).
[17] Secondo le antiche glosse, il termine saboi (o sabaioi) era l'equivalente, in lingua frigia, del greco bacckhos; cfr. Jeanmaire, Dionysos, pp. 95-97.
[18] Ricordiamo che durente la festa delle Antesterie, certi riti erano effettuati unicamente dalle donne, nel segreto più rigoroso.
[19] Il culto di Dioniso fanciullo era conosciuto in Beozia e a Creta, ma finì per diffondersi anche in Grecia.
[20] Firmico Materno, De errore prof. relig., 6; Clemente Alessandrino, Protrept., II, 17, 2; 18, 2; Arnobio, Adv. Nat., V, 19; i testi sono riprodotti in Kern, Orphica fragmenta, pp. 110-111.
[21] De piet., 44; Jeanmaire, p. 382.
[22] Fr. 3, Kinkel I, p. 77; cfr. anche Euripide, fr. 472; per Callimaco (fr. 171) Zagreus è un nome particolare di Dioniso; v. altri e sempi in Otto, p. 191 ss.
[23] Demostene, De cor., 259. Quando partecipavano alle feste dionisiache gli Argivi si impiatsricciavano il viso di gesso. Si sono sottolineati i rapporti tra il gesso (titanos) e i Titani (Titanes), ma questo complesso mitico-rituale fu occasionato proprio dalla confusione tra i due termini (cfr. già Farnell, Cults, V, p. 172).
[24] Cfr. il ‘problema' attribuito ad Aristotele (Didot, Aristotele, IV, 331, 15), discusso, dopo Salomon Reinach, da Moulinier, p. 51. Nel III secolo, Euforione conosceva una tradizione analoga; ibid., p. 53.
[25] Jeanmaire, Dionysos, p. 387. V. altri esempi in Marie Delcourt, L'Oracle de Delphes, p. 153 ss.
[26] Delcourt, op. cit., pp. 155, 200. Plutarco, dopo aver parlato dello squartamento di Osiride e della sua risurrezione, si rivolge all'amica Clea, la leader delle Menadi di Delfi: «Che Osiride sia la stessa persona di Dioniso, chi potrebbe saperlo meglio di voi che dirigete le Tiadi, che siete stata iniziata da vostro padre e da vostra madre ai misteri di Osiride?»
[27] Il ditirambo, «girotondo destinato, in occasione del sacrificio di una vittima, a produrre l'estasi collettiva con l'aiuto dei movimenti ritmici e di acclamazioni e grida rituali, si è potuto -proprio nel periodo (VII-VI secolo) in cui nel mondo greco si sviluppa la grande lirica corale- evolvere in genere letterario per l'accresciuta importanza delle parti cantate dall'exarchon, per l'alternarsi di brani lirici su temi più o meno adattati alla circostanza e alla persona di Dioniso» (Jeanmaire, op. cit., p. 248 ss.).

ESTRATTI DAL CANDIDE DI VOLTAIRE

ESTRATTI DAL CANDIDE DI VOLTAIRE

CAPITOLO I.
Come Candido è allevato in un bel castello e come n'è cacciato via

Era nella Vestfalia, nel castello del barone di Thunder-ten-tronckh, un giovinetto che aveva avuto dalla natura i più dolci costumi. Se gli leggeva il cuore nel volto. Univa egli a un giudizio molto assestato una gran semplicità di cuore, per la qual cosa, cred’io, lo chiamavano Candido. I vecchi servitori di casa avevano dei sospetti che egli fosse figliuolo della sorella del signor barone, e d'un buon gentiluomo e da bene di quel contorno, che questa signora non volle mai indursi a sposare perché non aveva egli potuto provare più di settantun quarti di nobiltà, il resto del suo albero genealogico essendo perito per l’ingiuria de' tempi.
Era il signor barone uno dei più potenti signori della Vestfalia, perché il suo castello aveva porta e finestre; e di più sala con arazzi. Tutti i cani de' suoi cortili componevano in caso di bisogno una muta di caccia; i suoi staffieri erano i suoi cacciatori, e il piovano del villaggio il suo grande elemosiniere. Gli davano tutti dell’Eccellenza, e ridevano quando contava delle novelle.
La signora baronessa, che pesava circa trecentocinquanta libbre, si attirava per questo un grandissimo riguardo, e faceva gli onori della casa con una dignità che la rendeva più rispettabile ancora. La di lei figlia Cunegonda, in età di diciassett'anni, era ben colorita, fresca, grassotta, da far gola. Il figlio del barone si mostrava tutto degno germe di suo padre. Il precettore Pangloss era l’oracolo di casa, e il giovanetto Candido ne ascoltava le lezioni con tutta la buona fede dell'età sua e del suo carattere.
Pangloss insegnava la metafisico-teologo-cosmologo-scempiologia. Provava egli a meraviglia che non si dà effetto senza causa, e che in questo mondo, l'ottimo dei possibili, il castello di S. E. il barone era il più bello dei castelli, e Madama la migliore di tutte le baronesse possibili.
- È dimostrato, diceva egli, che le cose non possono essere altrimenti; perché il tutto essendo fatto per un fine, tutto è necessariamente per l'ottimo fine. Osservate bene che il naso è fatto per portar gli occhiali, e così si portano gli occhiali; le gambe son fatte visibilmente per esser calzate, e noi abbiamo delle calze, le pietre son state formate per tagliarle e farne dei castelli, e così S. E. ha un bellissimo castello; il più grande de' baroni della provincia deve essere il meglio alloggiato, e i maiali essendo fatti per mangiarli, si mangia del porco tutto l'anno. Per conseguenza quelli che hanno avanzata la proposizione che tutto è bene; han detto una corbelleria, bisognava dire che tutto è l'ottimo.
Candido ascoltava tutto attentamente, e se lo credeva innocentemente; perché egli trovava Cunegonda bella all'estremo, sebbene non avesse mai avuto l’ardire di dirlo a lei. Egli concludeva che dopo la fortuna di esser nato barone di Thunder-ten-tronckh, il secondo grado di felicità era d'esser Cunegonda, il terzo di vederla tutti i giorni, il quarto di ascoltare il precettore Pangloss, il più gran filosofo della provincia, e in conseguenza del mondo.
Un giorno Cunegonda, passeggiando presso il castello in un boschetto cui si dava il nome di parco, vide tramezzo alle fratte il dottor Pangloss che dava una lezione di fisica sperimentale alla cameriera di sua madre, vezzosa brunetta e docilissima. Cunegonda se ne ritornò tutta agitata e pensosa, pensando a Candido
L'incontrò ella nel ritornare al castello, e arrossì; Candido arrossì anch'egli; ella gli diede il buon giorno con una voce interrotta, e Candido le parlò senza saper quel ch'ei si dicesse. Il giorno dopo nell'uscir da pranzo, Cunegonda e Candido si trovarono dietro a un paravento, Cunegonda si lasciò cascare il fazzoletto, Candido lo raccattò; ella gli prese innocentemente la mano, egli innocentemente la baciò, con una vivacità, con un trasporto, con una grazia particolarissima; le loro bocche s’incontrarono, i loro occhi si infiammarono, le loro ginocchia caddero, le mani si strinsero. Il signor barone di Thunder-ten-tronckh passò accanto al paravento, e vedendo questa causa e questo effetto, cacciò via Candido dal castello a pedate. Cunegonda svenne, fu schiaffeggiata dalla baronessa appena rinvenuta che fu, ed ogni cosa fu sottosopra nel più bello e nel più delizioso di tutti i castelli possibili.

(...)

Quando Candido arrivò in Olanda, avendo sentito dire che quivi tutti eran ricchi, e che era paese di cristiani, non dubitò punto di esser trattato come nel castello del signor barone, prima d'esserne scacciato per i begli occhi di Cunegonda.
Domandò egli la limosina a molte gravi persone, ma gli fu da tutte risposto che se seguitava a far quel mestiere l'avrebbero ficcato in una casa di correzione, perché imparasse a vivere.
S'accostò quindi ad un uomo che aveva appunto finito di parlar egli solo per un’ora di seguito in una grande assemblea sulla carità. Questo oratore guardandolo a traverso:
- Che venite voi a far qui? gli disse. Vi siete voi per la buona causa?
- Non si dà effetto senza causa, rispose Candido con tutta modestia; in tutto v’è una concatenazione necessaria, e un’ottima disposizione. È bisognato ch'io sia cacciato via d'appresso a Cunegonda, ch'io sia passato per le bacchette e bisogna ch’io accatti per mangiare finché io possa guadagnarmelo. Tutto questo non poteva essere altrimenti.
- Amico, gli disse l’oratore, credete voi che il Papa sia l’Anticristo?
- Io non l’avevo ancora sentito dire, rispose Candido ma o lo sia o non lo sia, io non ho pan da mangiare.
- Tu non meriti d’averne, riprese l’altro, monello, birbante, vattene via e non mi venir mai più d’intorno.
La moglie dell’oratore fattasi alla finestra, e scorgendo un uomo che dubitava che il Papa fosse l’Anticristo, gli rovesciò addosso un vaso da notte... O cielo! a quale eccesso arriva nelle dame lo zelo di religione.
Un uomo che non era stato battezzato, un buon anabattista nomato Giacomo, vide l’ignominiosa e crudele maniera con cui si trattava uno de’ suoi confratelli, una creatura bipede implume, la quale aveva un'anima; lo condusse in sua casa, lo nettò, gli diede del pane e della birra, gli regalò due fiorini, anzi volle insegnargli a lavorar nella sua fabbrica, alle stoffe di Persia che si fanno in Olanda. Candido gli si inginocchiò innanzi esclamando: “Il maestro Pangloss me l'aveva ben detto che in questo mondo tutto è per il meglio; io sono infinitamente più commosso dell’estrema vostra generosità, che dell’asprezza di quel signore dal mantello nero e della sua moglie.”
Il giorno dopo andando a spasso s’imbatte in un accattone tutto coperto di bolle, cogli occhi smorti la punta del naso rosicchiata, la bocca storta, i denti neri, la voce affogata, tormentato da una tosse violenta, e che ad ogni nodo di tosse sputava un dente.

CAPITOLO IV.
Come Candido ritrova il suo antico maestro di filosofia il dottor Pangloss, e quel che ne segue.

Candido più commosso ancora di compassione che d’orrore, diede a quello spaventevole accattone i due fiorini che aveva ricevuti da quell’uomo dabbene dell'anabattista Giacomo. Quel fantasma gli fissò gli occhi addosso, cominciò a piangere, e gli saltò al collo. Candido spaventato si tira indietro.
- Ahimè dice un miserabile all’altro, non ravvisate il vostro caro Pangloss?
- Che ascolto? Voi il mio caro maestro! Voi in questo orribile stato! Che sciagura v’è dunque accaduta? Perché non siete voi più nel bellissimo fra i castelli? E di Cunegonda, la perla delle donzelle, il capolavoro della natura che n’è?
- Io non ne posso più, dice Pangloss.
Candido lo mena immediatamente alla stalla dell’anabattista, ove gli dà del pane a mangiare, e riavuto che fu alquanto:
- Ebbene: e Cunegonda? gli chiese.
- Cunegonda è morta, rispose quegli.
Candido svenne a tali detti; l'amico lo fece ritornare in sé con del cattivo aceto che per caso si trovò nella stalla. Riapre Candido gli occhi:
- Cunegonda è morta! O mondo l'ottimo dei possibili dove sei tu? Ma di qual male è ella morta? Forse d’avermi veduto scacciare dal bel castello del signor padre a furia di gran pedate!
- No, risponde Pangloss, ella è stata sventrata da soldati Bulgari: dopo esser stata oltraggiata quanto esser si possa. Al barone, che voleva difenderla, è stata fracassata la testa; la baronessa tagliata a pezzi, il mio povero pupillo trattato per appuntino come la sorella; e del castello non n'è rimasto pietra sopra pietra, non un granaio, non un montone, non un'anatra, non un sol albero: ma abbiamo avuta la rivincita; perché gli Abari han fatto lo stesso di una baronia vicina che apparteneva a un signore bulgaro.
A questo discorso Candido tornò a svenire; ma rinvenuto che fu, e detto quel che aveva a dire, s'informò della causa e dell'effetto, e della ragion sufficiente, che aveva ridotto Pangloss a un sì compassionevole stato.
- Ahimè disse l'altro, questo è l'amore; l'amore, il conforto dell’umano genere, il conservatore dell’universo, l’anima di tutti gli esseri sensibili, il tenero amore.
- Ahimè, disse Candido, io l'ho conosciuto cotesto amore, cotesto signor de’ cuori, cotest’anima dell'anima nostra, egli non mi ha fruttato che un bacio, e venti pedate nel messere. Come mai una sì bella cagione ha potuto produrre in voi un così abominevole effetto?
Pangloss così rispose:
- O mio caro Candido! voi avete conosciuto Pasquetta, la leggiadra damigella della nostra augusta baronessa, nelle sue braccia ho io gustato le dolcezze del Paradiso; che mi han prodotto questi tormenti d’inferno, onde lacerar mi vedete. Ella ne era infetta, forse ne è morta. Pasquetta aveva avuto questo regalo da un frate francescano molto colto, il quale era risalito all’origine: infatti egli l’aveva preso da un capitano di cavalleria, che lo doveva a un paggio, che l’aveva preso da un gesuita il quale, da novizio, l’aveva ereditato in linea diretta da un compagno di Cristoforo Colombo. Quanto a me, non lo darò a nessuno, perché sto morendo.
- O Pangloss! gridò Candido, che strana genealogia! Certamente il diavolo ne è il capostipite! -
Niente affatto, replicò quel grand’uomo: era una cosa indispensabile nel migliore dei mondi, un ingrediente necessario: poiché, se Colombo non avesse preso in un’isola dell’America questa malattia che avvelena la sorgente della generazione, che spesso anzi impedisce la generazione e che evidentemente è l’opposto del gran fine della natura, noi non avremmo né cioccolata né cocciniglia; bisogna ancora osservare che fino ad oggi questa malattia esiste solo nel nostro continente, come le dispute. I Turchi, gli Indiani, i Persiani, i Cinesi, i Siamesi, i Giapponesi, non la conoscono ancora; ma c’è una ragione sufficiente perché la conoscano a loro volta fra qualche secolo. In quest’attesa, essa ha fatto progressi meravigliosi fra noi, e soprattutto fra quei grandi eserciti composti di onesti stipendiati così cortesi, i quali decidono il destino degli Stati; si può ben affermare che, quando trentamila uomini combattono schierati in battaglia contro truppe di numero uguale, ci sono circa ventimila sifilitici da ogni parte.
- Questa è una cosa ammirevole, disse Candido, ma bisogna farvi guarire. - E come potrei? disse Pangloss; non ho soldi, amico mio, e in tutta la distesa del globo non ci si può salassare né fare un’abluzione senza pagare o senza che qualcuno paghi per noi”.
Queste ultime parole decisero Candido che andò a gettarsi ai piedi del suo caritatevole anabattista Giacomo, e gli fece un ritratto sì vivo dello stato lacrimevole in cui era ridotto il suo amico, che non esitò punto quell'uomo da bene ad accogliere il dottor Pangloss, e a farlo guarire a sue spese. Altro non perse Pangloss in questa cura, che un occhio e un orecchio. Egli aveva buona mano di scrivere, e sapeva a perfezione far di conto. L'anabattista lo fece suo scritturale. In capo a due mesi essendo per affari del suo commercio obbligato di andare a Lisbona, condusse seco i due filosofi nel suo bastimento. Pangloss gli spiegò come il tutto era l’ottimo. Giacomo era d’un altro parere. Bisogna, ei diceva, che gli uomini abbiano alquanto corrotta la natura, perché non son nati lupi, e lupi divengono; Dio non ha dato loro né cannoni da ventiquattro, né baionette, ed essi son fatti per distruggersi con baionette e cannoni. Potrei metter su questo conto e i fallimenti e la giustizia che mette le mani su' beni de' falliti per defraudarne i creditori. - Tutto questo, replicava il guercio dottore, era indispensabile, e le sciagure particolari fanno il bene generale; talmente che più disgrazie particolari vi sono, più tutto è ottimo.
Nel tempo che ei ragiona l'aria si oscura, si scatenano i venti da quattr'angoli del mondo, e il bastimento è assalito in vista del porto di Lisbona da orribile tempesta.

CAPITOLO VI.
Come si fece un bell'auto-da-fè per impedire i terremoti e come Candido fu frustato.

Dopo il terremoto che aveva distrutto tre quarti di Lisbona, i dotti del paese non avevano trovato mezzo più efficace per impedire una total rovina, che di dare al popolo un bell'auto-da-fè. Era stato deciso dall’Università di Coimbra che lo spettacolo di qualche persona bruciata a fuoco lento in gran cerimonia era un segreto infallibile per impedire che la terra non si scuota. Avevano in conseguenza catturato un biscaglino convinto d’aver sposato la comare, e due portoghesi che, mangiando un pollastro, ne avevano levato il lardo; si venne poi dopo pranzo alla cattura del dottor Pangloss, e di Candido suo discepolo; di quello per aver parlato, e di questo per aver ascoltato in aria d'approvazione. Furono tutti e due condotti separatamente in appartamenti freschissimi, ne' quali non s'era mai infastiditi dal sole. Otto giorni dopo furono tutti rivestiti d'un sambenìto, e vennero loro adornate le teste di mitre di carta, la mitra e il sambenìto di Candido eran dipinte con delle fiamme all’ingiù, e con de' diavoli senza grinfie e senza coda; ma i diavoli nel sambenìto di Pangloss avevano grinfie e coda, e le fiamme erano dritte. Andarono così vestiti a processione e sentirono un sermone assai patetico seguito da una bella musica in falso bordone; Candido fu frustato sul messere a tempo di battuta mentre cantavano; il biscaglino e quei due che non avevano voluto mangiar del lardo furono bruciati, e Pangloss fu appiccato, benché non sia questo il costume. Il medesimo giorno vi fu un'altra scossa di terremoto con un fracasso spaventevole. Candido spaventato, confuso, smarrito, tutto insanguinato, tutto affannato diceva fra sé: “Se questo mondo è l’ottimo dei possibili che mai son gli altri? Se io non sono stato altro che nerbato a posteriori, lo sono stato anche fra i Bulgari; ma, o mio caro Pangloss, il massimo de' filosofi, ho io dovuto vedervi impiccare senza ch’io sappia perché! Oh mio caro anabattista, ottimo degli uomini, dovevo io vedervi annegare nel porto! O Cunegonda, perla delle fanciulle, era necessario che vi spaccassero la pancia! ”

SCHEMA DELLE CARATTERISTICHE DI UNO STATO TOTALITARIO

SCHEMA DELLE CARATTERISTICHE DI UNO STATO TOTALITARIO


Le trasformazioni sociali, economiche e culturali che si verificano in Europa tra xix e xx secolo determinano la crisi dello stato liberale che si mostra incapace di adattarsi alle mutate condizioni storiche. La dissoluzione del sistema liberale tradizionale da luogo a due esiti differenti: la democra­zia ed il totalitarismo.
Lo stato liberale, evolutosi verso forme democratiche grazie alla diffusione della rappresentanza e del principio della sovranità popolare, sembra uscire vincitore dalla prima guerra mondiale. Infatti le potenze dell'Intesa costi­tuivano un blocco di paesi repubblicani o monarchici a regime costituzionale ed il loro trionfo sugli imperi centra­li, ancora caratterizzati da residui di assolutismo, venne interpre­tato come una vittoria dello stato liberal - demo­cratico.
Tuttavia già a partire dagli anni venti si manifesta in alcuni paesi (Italia, Spagna, Europa centro - orientale) una tendenza all'affermazione di regimi autoritari. L'obbiettivo della presente trattazione non è costituito da un esame del processo storico che produsse l'avvento dei regimi totalitari in Europa[1], ma dal tentativo di chiarire i principi e l'assetto organizzativo su cui si fonda lo stato totalitario attraverso l'analisi dei principali modelli interpretativi che di esso sono stati proposti.

1 - Definizione e origini

Il termine di "Stato Totalitario" fu usato per la prima volta in Italia negli anni '20 per caratterizzare lo "stato fascista" in opposizione allo "stato liberale". Nell'Enciclopedia italiana (1932) Mussolini definì lo "ST" come un "partito unico che governa totalitariamente una nazione". Nella Germania nazista venne adoperata la deno­minazione di "Stato Autoritario". Dopo la seconda guerra mondiale l'espressione si affermò per indicare tutte le dittature monopartitiche (fasciste o comuniste). Sempre nel secondo dopoguerra vennero elaborate anche le più significative teorie sullo "ST", quella di Han­nah Arendt[2] ("Le origini del totalitarismo", 1951) e di Friedrich e Brzezinski (Dittatura totalitaria e autocrazia, 1956).

A - TEORIA DI ARENDT: Arendt muove dall'assunto che il totalitarismo costituisca una nuova forma di dittatura che, a differenza di quelle tradizionali, non mira solo ad esautorare l'individuo dalle proprie capacità politiche, ma a sopprimere e riformare a propria immagine le istitu­zioni che gover­nano le relazioni private tra i cittadini. Da questo punto di vista il fine del T è la trasformazione della natura umana, tanto nelle sue componenti esteriori quanto in quelle interiori, in modo da controllare la "totalità" della vita sociale nei suoi molteplici aspetti. Per conseguire il suo progetto di dominio totale della società, il "T" si servirebbe di due strumenti:
1) l'ideologia totalitaria: costruzione di una visione del mondo, assunta come dotata di certezza assoluta e perciò non sottoponibile a critica, che reinterpreta la totalità degli eventi storici consideran­doli come espressione una legge evolutiva necessaria della storia. Il "T" assume tale legge come proprio destino storico trovando in esso la propria legittimazione e il principio direttivo della propria azione. Tale ideologia si sottrae ad ogni verifica empirica e sostituisce un mondo costituito da miti e simboli al mondo reale.
2) il terrore totalitario: è il principale strumento utilizzato dallo "ST" per imporre e tradurre in pratica coattivamente la propria ideologia. Esso si scaglia sia contro "nemici reali" (gli oppositori del regime), sia contro "nemici fittizi" definiti di volta in volta a seconda delle esigenze e tendenze politiche del regime. Il terrore totale rende possibile irreggimen­tare e controllare la totalità delle masse popolari e costituisce l'essenza del "T".
Accanto a tali aspetti fondamentali il "T" sarebbe inoltre caratterizzato da altri due elementi:
3) organizzazione totalitaria: l'imposizione dell'ideologia e del terrore richiede la riorganizzazione dell'apparato statale che è dominato da un "partito unico". Principali strumenti di esso sono:
3.1) élite di partito: organizzazioni di partito e gruppi selezionati caratterizzati da una credenza fanatica nell'ideo­logia totalitaria che tendono ad uniformare l'insieme delle attività sociali ad essa (sport, tempo libero, lavoro, scuola, ecc.);
3.2) polizia segreta: presiede alla costituzione di un sistema di spionaggio onnipresente che trasforma radicalmente la vita sociale, infatti, potendo chiunque essere informatore o sotto sorveglianza, si innesca un clima poliziesco di reci­proco sospetto che avvelena l'intera società
Nonostante le apparenze, nei regimi totalitari non si determina una struttura monolitica del potere, vi è anzi sovrapposizione e confusione di funzioni, uffici e competenze tra le varie strutture gerarchiche che compongono il regime (partito, amministrazione statale, polizia segreta), ciò determina il carattere dinamico ed imprevedibile di tali tipi di regime e consente al "capo" di imporre la propria volontà assoluta giocando sulle rivalità tra le diverse gerarchie.
4) La figura del dittatore: è un altro aspetto tipico del "T", la sua volontà si impone come legge assoluta del partito che è il veicolo attraverso cui viene a realizzarsi. Il capo è anche depositario e massimo interprete dell'ideologia, che appare del tutto soggetta alla sua volontà. Secondo Arendt la "personalizzazione del pote­re", che viene ad identificarsi nella figura e volontà del capo, è un altro aspetto costitutivo dello stato totalitario.

B - TEORIA FRIEDRICH - BRZEZINSKI: secondo l'impostazione di questi studiosi lo "ST" è definibile individuando i tratti comuni all'organizzazione dei regimi totalitari, questi sono sei:
1) Ideologia ufficiale: sistema di valori e credenze che forniscono una spiegazione di ogni aspetto della vita e dell'attività umana, tutti i membri della società devono condividerla, possiede un valore di verità assoluto. Essa inoltre fornisce un progetto per la trasformazione globale del mondo storico - sociale.
2) Un unico partito di massa: guidato da un dittatore, strutturato secondo una rigida gerarchia, si sovrappone all'organizzazione burocratica dello stato ed è formato da una parte della popolazione che nutre una fede assoluta nell'ideologia.
3) Sistema di terrorismo poliziesco: funge da sostegno all'ideologia ed al partito ma ha anche il compito di sor­vegliare quest'ultimo. Utilizza i ritrovati della scienza e della psicologia scientifica per esercitare la sua azione di controllo contro i nemici del regime.
4) Monopolio dell'informazione: il partito, grazie alla moderna tecnologia, esercita il controllo assoluto di tutti i mass media (stampa, radio, cinema).
5) Monopolio forze armate: il partito possiede l'assoluto controllo di tutti gli strumenti per la lotta armata.
6) Controllo centralizzato dell'economia: l'attività economica è governata dal partito attraverso la burocrazia che coordinale unità produttive.
La combinazione di questi elementi e le possibilità offerte dalla moderna tecnologia consentono ai "regimi totalitari" moderni un capacità di penetrazione, controllo e direzione della società qualitativa­mente nuova e supe­riore rispetto a qualsiasi regime autoritario del passato.

2 - Confronto dei due modelli
A - DIFFERENZE
Un confronto tra le due concezioni di "ST" permette di individuare le seguenti differenze:
1) Per la Arendt la comprensione del "T" consiste nel fine essenziale che esso si propone: trasformare la natura umana riducendo gli individui ad automi totalmente controllabili e passivi agli ordini; Friedrich - Brzezinski non individuano alcun fine come proprio del "T", ma si limitano ad individuare i tratti che caratterizzano la tipologia dello stato totalitario.
2) Manca in Friedrich - Brzezinski il rilievo che nella Arendt assume il fenomeno della personaliz­zazione del potere nella la figura del capo che nelle sue mani concentra la direzione di ideologia, terrore ed organizzazione.
3) Mentre per la Arendt la nozione di "totalitarismo" è applicabile solo alla "Germania nazista" ed alla "Russia staliniana", per Friedrich - Brzezinski si applica anche al "fascismo italiano" ed ai "regimi comunisti" della Cina e dell'Europa orientale.
B - CONCORDANZE
Le principali concordanze tra i modelli interpretativi dello stato totalitario elaborati da Arendt e Friedrich - Brze­zinski sono:
1) la nuova forma di dominio politico che caratterizza il "T" rispetto ad altri regimi del passato e che conferisce ad esso un potere di controllo e monopolizzazione della vita sociale enormemente superiore a quello raggiunto da qualsiasi altra forma autoritaria di regime precedente.
2) L'individuazione, presente in entrambi i modelli, di "ideologia ufficiale", "terrore poliziesco" e "partito unico di massa" quali elementi caratterizzanti il "T". Questo consente di sostenere che nel regime totalitario cade qualsiasi distinzione tra "Stato" e "Società", in quanto lo stato riesce a pene­trare e controllare qualsiasi aspetto della vita sociale grazie agli strumenti sopra ricordati. La società perde qualsiasi forma di autonomia e libertà rispetto al potere politico apparendo politicizzata in tutti i suoi aspetti.
C - SVILUPPI
A partire dagli anni '60 si sono avuti sviluppi nello studio del fenomeno totalitario che, pur ponendo in discus­sione importanti aspetti delle teorie esaminate in precedenza, non hanno intaccato la descrizione delle principali caratteristiche del regime totalitario. Le critiche si sono appuntate su tre aspetti principali:
1) la tesi per cui lo "stato totalitario" sia una novità assoluta nella storia;
2) la tesi della sostanziale analogia tra regimi fascisti e comunisti;
3) l'applicazione del concetto di "T" a tutti i regimi comunisti e fascisti.
Di questi problemi si prenderà in esame specialmente il secondo per poi proporre un bilancio finale del dibattito sul totalitarismo.

3 - Totalitarismo comunista e fascista

A - PREMESSA
La letteratura critica su tale argomento appare sostanzialmente optare per tre tesi principali:
1) Le teorie classiche del totalitarismo (quelle di Arendt e Friedrich - Brzezinski), avendo ignorato o sottovalutato le differenze tra fascismo e comunismo, hanno consentito l'applicazione del concetto di totalitarismo a tutti i regimi comunisti avvenuta durante la guerra fredda (tra gli anni '50 e '60). Tale uso del concetto di "T" è stato strumentalizzato ideologicamente per giustificare la politica americana nei confronti dei paesi comunisti. Da questa situazione è scaturita la tesi della sostanziale identità tra fascismo e comunismo in generale.
2) In opposizione a tale tesi altri autori hanno sostenuto la radicale differenza tra fascismo e comuni­smo e la inapplicabilità del concetto di totalitarismo a molti dei regimi comunisti, essi sono giunti al punto da sostenere che la nozione di "T" doveva essere respinta dalla scienza politica in quanto si caratterizzerebbe come risultato di una operazione di propaganda ideologica priva di qualsiasi scientificità.
3) La tesi oggi maggiormente diffusa è quella che, pur accettando le critiche alla teoria classica del "T" e ricono­scendo la profonda differenza tra fascismo e comunismo, non respinge il concetto di totalita­rismo, che sarebbe in sé valido, ma tende a limitarne il campo di applicabilità. I sostenitori di questa posizione ritengono scorretto applicare il concetto di totalitarismo a tutti i regimi dittatoriali fascisti (l'Italia di Mussolini, la Spagna di Franco, le dittature sudamericane) e comunisti (Cina, paesi dell'est europeo), esso può essere correttamente applicato solo ai casi della Germania nazista e dell'Unione Sovietica staliniana. Si seguirà in questa esposizione la terza di queste tesi.

B - ESAME DELLE DIFFERENZE
Le differenze tra T. comunista e fascista sono riconducibili alle più generali differenze tra comuni­smo e fasci­smo. Queste sono principalmente di due tipi:
1) Ideologiche: si tratta di differenze coglibili sul piano teorico e filosofico:
a) l'ideologia comunista (IC) è un sistema articolato coerente che propone sul piano pratico la trasformazione globale della struttura economico - sociale della comunità; L'ideologia fascista, (IF) nella sua versione più radicale (il nazismo), è un insieme di idee e miti meno elaborato sul piano sistematico e che non prevede una totale tra­sformazione della struttura economico - sociale.
b) L'IC assume quali proprie premesse filosofiche posizioni razionalistiche, umanistiche, universali­stiche; si propone come un credo rivolto all'intero genere umano; l'IN è irrazionalistica, antiuniversali­stica, si fonda sulla razza assunta quale entità assoluta superiore al singolo e si propone come un credo razzistico che rifiuta l'idea di unità del genere umano.
c) L'IC si basa sulla premessa della sostanziale bontà e perfettibilità dell'uomo e attraverso la violenza e la ditta­tura mira ad instaurare una situazione sociale di uguaglianza e libertà; l'IN presuppone la corruzione dell'uomo e mira a stabilire il dominio assoluto di una razza su ogni altra, dittatura e vio­lenza costituiscono un aspetto perma­nente di essa in quanto necessarie a mantenere lo stato di soggezione delle razze inferiori.
d) L'IC si presenta come rivoluzionaria e continuatrice dell'illuminismo e della rivoluzione francese. Essa. promuovendo una più radicale trasformazione della società rispetto a quella compiuta dalla rivoluzione francese, porterebbe il programma di quest'ultima alle sue estreme conseguenze.
e i porterebbe il programma di questa alle sue eterne conseguenze attraverso una rivoluzione più profonda della società che la rivoluzione francese sarebbe stata incapace di condurre. L'IN si presenta come reazionaria ed erede del pensiero tradizionalista della restaurazione di cui accoglie il principio antidemocratico e le componenti irrazionalistiche. Inoltre, in alcuni suoi aspetti - il mito teutonico e della razza ariana, il richiamo al sangue ed alla terra, l'idea di onore - , si rivolgerebbe ad un'epoca storica preborghese.
Naturalmente tutte le differenze sopra riportate concernono non la realtà storica dei regimi comunisti e fascisti, ma le premesse ideologiche, filosofiche, i valori ed i programmi teorici a cui tali regimi si richiamano.
2) Differenze relative alla base sociale: tali differenze riguardano la base sociale di massa che funge da sostegno a tali regimi:
a) Il C si instaura in paesi dove il processo di industrializzazione è agli inizi o non è avvenuto e si pone quale compito quello di promuovere l'industrializzazione forzata della società; il F si instaura dove il processo di indu­strializzazione è in fase avanzata e suo scopo non è pertanto l'industrializza­zione della società, ma piegare ai pro­pri fini una società già industrializzata.
b) Nel C la base sociale del sostegno ed il reclutamento dell'élite è fornito dalla classe operaia e dal proletariato urbano. Nel F base del sostegno e reclutamento dell'élite è fornito dalla classe piccolo borghese (impiegati, piccoli proprietari, artigiani, commercianti, intellettuali, militari, ecc.) che si sente minacciata dal proletariato e schiacciata dal peso della grande borghesia capitalista. Solo in un secondo tempo si aggiunge l'appoggio della grande finanza e della grande industria che tendono a strumentalizzare il F per la realizzazione dei propri interessi.
c) Il C elimina le classi che detenevano il potere economico - politico; il F lascia in vita le vecchie classi dirigenti sia in campo economico che burocratico e militare.
Pur essendo eccessivamente schematiche e generiche, le differenze sopra riportate risultano tali da far ritenere che fascismo e nazismo siano fenomeni differenti e, sotto molti aspetti, contrapposti.
Nonostante le differenze ideologiche e relative alla base sociale, è stato possibile che in entrambi questi regimi (in alcuni di essi e relativamente ad un certo periodo della loro esistenza) si sia potuta affermare una organizza­zione totalitaria del potere politico analoga (partito unico, monopolio ideologico, capo assoluto, terrore). È quindi corretto applicare ai regimi comunisti e fascisti il concet­to di "totalitarismo" qualora siano in essi presenti, nonostante le differenze, gli aspetti tipici della gestione totalitaria del potere. E' invece scorretto ritenere che "comunismo" e "fascismo" siano intrinsecamente e necessariamente totalitari. Nel "comunismo" si giunge ad una forma piena di totalitarismo solo con lo stalinismo, nel "fascismo" si ha totalitarismo nella fase più intensa del regime hitleriano. Non era totalitario il "fascismo italiano" che non soddisfò mai completamente quelle condi­zioni alle quali si può parlare di totalitarismo in senso stretto. Infatti il partito fascista non riuscì' mai a detenere un controllo totale della società; mancava inoltre nell'ideologia fascista l'assolutizzazione della razza sostituita da elementi nazionalistici tradizionali; il partito fu debole e non riuscì mai a controllare pienamente l'apparato burocratico statale, giudiziario e militare. Nel fascismo fu minimo il "terrore totalitario", mentre si realizzò pienamente la "personalizzazione del po­tere" anche se non così fortemente da eliminare la monarchia.
3) Differenze relative alla dinamica evolutiva: anche le linee di sviluppo dei due regimi appaiono differire sotto i seguenti aspetti:
a) Il C mira alla costituzione di una società senza classi; il F. alla istaurazione del dominio totale ed assoluto di una razza.
b) La politica economica è tesa alla statalizzazione completa dell'economia ed all'abolizione del libero mercato nel C.; nel F. proprietà privata e mercato libero vengono mantenuti.


4 - Conclusioni sul totalitarismo

Il "T" è una forma estrema di organizzazione del potere politico che mira ad una penetrazione e mobilitazione totale della società. Questo fine viene raggiunto attraverso l'ideologia totalitaria, il partito unico, il terrore, la figura del dittatore. Nel "T" il rapporto tra Stato e non Stato (tutto ciò che non rientra nella sfera d'azione dello Stato: società civile, sfera privata, cultura, ecc.) si configura come una riduzione e subordinazione completa del non stato allo stato, il primo perde qualsiasi auto­nomia e il secondo non ha più alcun limite all'esercizio del suo potere.
Il concetto di "T" rappresenta una esperienza politica radicalmente nuova e di notevole rilievo storico ed ha avuto conseguenze fondamentali nella storia del XX secolo, tuttavia esso è correttamente applicabile solo ad un numero limitato di regimi politici: nazismo hitleriano e comunismo staliniano.

Sintesi di Il principio responsabilità di Hans Jonas

SINTESI DE IL PRINCIPIO RESPONSABILITÁ DI HANS JONAS

1. LA MUTATA NATURA DELL’AGIRE UMANO

1 – L’antichità
- Le premesse oggi non più valide dell’etica tradizionale: 1) la condizione umana, definita dalla natura dell’uomo e dalla natura delle cose, è data una volta per tutte nei suoi tratti fondamentali; 2) su questa base si può determinare senza difficoltà quale sia il bene umano; 3) la portata dell’agire umano e quindi della responsabilità è strettamente circoscritta.
- Oggi i nuovi poteri della tecnica moderna hanno cambiato la natura dell’agire umano, e ciò esige anche un mutamento dell’etica.
- Per quanto il potere dell’uomo sulla natura sia sempre stato maggiore di quello degli altri animali, finora non era mai stato capace di scalfire la sostanziale immutabilità del tutto, la natura e gli elementi erano l’assoluto e il permanente di fronte ai quali l’uomo era il relativo e il mutevole. Il limite che l’uomo, in quanto essere “infinitamente piccolo”, si autoponeva di fronte a Dio o alla natura è oggi, con il dominio delle basi biologiche della natura, del tutto scomparso ed inattuale. L’uomo non aveva motivo di sentire alcuna responsabilità nei confronti della natura e del mondo in cui viveva.

2 – Caratteristiche dell’etica tradizionale
- A) ogni rapporto con il mondo extraumano non costituiva un ambito di rilevanza etica, era neutrale eticamente in relazione all’oggetto ed al soggetto. B) ogni etica tradizionale è antropocentrica. C) l’entità uomo è stata sempre considerata essenza del soggetto agente, mai (come è ora) anch’essa è stata oggetto della techne umana. D) Il bene o il male di una azione si manifestava nella prassi stessa, esistevano dei criteri morali immediati per cui giudicare un’azione. L’etica aveva a che fare con il qui e l’ora.
- Oggi non può valere quel detto di Kant per cui “non c’è bisogno né di scienza né di filosofia per sapere ciò che si deve fare per essere onesti e buoni”, oggi il potere umano può avere delle conseguenze a lungo termine inimmaginabili anche dallo scienziato o dal filosofo. Il sapere deve oggi corrispondere in ordine di grandezza alle nuove dimensioni causali del nostro agire.

3 – Nuove dimensioni della responsabilità
- Il nuovo carattere vulnerabile della natura sottoposta all’azione dell’uomo ci impone una responsabilità verso di essa. Dobbiamo chiederci oggi se la natura abbia o meno dei diritti, dovremmo renderci conto che la scienza naturale non esaurisce l’intera verità della natura, in quanto noi (che siamo parte di essa) possiamo agire in modo da manipolarla.

4 – La tecnologia come “vocazione” dell’umanità
- Carattere antientropico della scienza
- L’homo sapiens diventa oggetto dell’homo faber
- Oggi la presenza dell’uomo nel mondo non è più un dato indiscutibile, ma deve diventare oggetto della obbligazione. Un’ obbligazione fondata dal punto di vista giuridico che assicuri la sopravvivenza dell’uomo nel mondo.

5 – Vecchi e nuovi imperativi
- L’imperativo categorico kantiano affermava “Agisci in modo che anche tu possa volere che la tua massima diventi legge universale”; oggi l’imperativo adeguato dovrebbe essere “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”.
- Ciò che si vuole dire è che mentre siamo liberi di mettere a repentaglio e di essere irresponsabili verso la nostra vita, non possiamo esserlo verso la vita dell’umanità, non possiamo in alcun modo rischiare il non-essere delle generazioni future.
- Il nuovo imperativo pretende la coerenza non dell’atto con sé stesso, ma dell’atto con i suoi effetti reali ed ultimi, pretende una universalizzazione dei principi dell’agire umano non ipotetica ma fattuale, un’universalizzazione che si estende ad un futuro reale e calcolabile.

7 – L’uomo in quanto oggetto delle tecnica
- L’homo faber rivolge a sé stesso la propria arte diventandone oggetto come homo materia
- La morte non appare più come una necessità insita nella natura di ciò che è vivo, ma come una prestazione organica disfunzionale a cui si può porre rimedio. Ma, come afferma Hannah Arendt, la mortalità è soltanto l’altra necessaria faccia della fonte perenne della “natalità”. Ed è probabile che ciò che oggi appare come la realizzazione di un sogno umano ed un dono filantropico della scienza all’uomo, potrebbe rivelarsi come un danno per l’umanità.
- Il moderno controllo del comportamento, per cui si può dare sollievo ai pazienti malati di mente da sintomi tormentosi ed inibenti, può tramutarsi in un “liberare la società” dalla molestia di un comportamento problematico. E’ un trapasso dalla sfera medica a quella sociale, per cui eludiamo la via umana di affrontare i problemi umani applicando un meccanismo impersonale e togliendo dignità di sé alla persona.
- Per non parlare del futuro più che prossimo della manipolazione genetica.

8 – La dinamica “utopica” del progresso tecnico e l’eccesso di responsabilità
- Se la novità del nostro agire esige un’etica nuova di estesa responsabilità, proporzionata alla portata del nostro sapere, essa richiede anche un nuovo genere di umiltà: un’umiltà indotta non dalla limitatezza ma dalla grandezza abnorme del nostro potere.

9 – Il vuoto etico
- Ciò che oggi è temibile è la nascita di un nichilismo nel quale il massimo di potere si unisce al massimo di vuoto, il massimo di capacità al minimo di sapere intorno agli scopi. In nome del progresso della scienza sono stati aboliti o non posti certi limiti con la conseguenza che il senso stesso del limite diventa sempre più precario.

2. QUESTIONI RELATIVE AI FONDAMENTI ED AL METODO

1 – Sapere ideale e sapere reale nell’ “etica del futuro”
- Un possibile criterio per la nuova etica può essere la cosiddetta “euristica della paura”: soltanto il previsto stravolgimento dell’uomo ci aiuta a cogliere il concetto di umanità che va preservato da quel pericolo. E’ naturale che la percezione del malum, per il turbamento emotivo che porta, ci riesca infinitamente più facile della percezione del bonum. Per questo la paura è la coscienza che l’uomo ha del limite, ma prima ancora è la coscienza che l’illimite porta in sé un pericolo per l’uomo.
- Il primo dovere dell’etica del futuro è l’acquisizione anticipata dell’idea degli effetti a lungo termine che la nostra azione può recare: il malum immaginato dovrà assumere il ruolo del malum esperito.
- Il secondo dovere sarebbe allora la mobilitazione del sentimento adeguato a ciò che viene immaginato: il timore del malum immaginato è di tipo nuovo poiché si rivolge non ad un male per me ma per gli altri (d'altronde la responsabilità è responsabilità verso gli altri), ma non per questo deve essere meno spontaneo del malum esperito.

2 – Priorità della previsione cattiva su quella buona
- Un altro precetto della nuova etica dovrebbe essere: si deve prestare più ascolto alla profezia di sventura che non a quella si salvezza. Infatti l’uomo non può permettersi di agire per seguire una probabile promessa quando in gioco ci sia anche una probabile minaccia per l’umanità o, comunque, per qualcun altro che non sia sé stesso. Il motivo principale è che, per quanto minima sia la probabilità di incombere nella minaccia, se essa è rivolta all’uomo in generale ed alla sua sopravvivenza nel mondo, avrà quasi sicuramente un carattere irreversibile che non ci si può permettere.

3 – L’elemento della scommessa nell’agire
- Esiste inoltre un incondizionato dovere dell’umanità all’esserci (e di conseguenza un obbligo di evitare sempre il non-esserci), un divieto di suicidio dell’umanità, che non va confuso però con il dovere condizionato di esistere del singolo individuo.
- E’ un altro principio etico quindi quello che afferma: non si deve mai fare dell’esistenza o dell’essenza dell’uomo globalmente inteso (anche dei posteri) una posta in gioco nelle scommesse dell’agire.
- Siamo di fronte al capovolgimento del procedimento cartesiano del dubbio: Cartesio diceva che, per stabilire ciò che è indubitabilmente vero, dobbiamo considerare falso ciò che è suscettibile di dubbio. Nel nostro caso, invece, dobbiamo trattare come certezza e possibilità reale anche (e soprattutto) ciò che è dubbio ma possibile.
- Vi è anche una differenza sostanziale con la “scommessa” di Pascal: mentre egli affermava di scommettere per un possibile bene infinito (la vita eterna) rinunciando ad un guadagno privo di valore (la vita terrena). Nel nostro caso, invece, bisogna scegliere un guadagno già in nostro possesso (la sopravvivenza dell’uomo nel mondo) piuttosto che scommettere su un’azione che, nel caso fallisse, potrebbe rivelarsi come un male infinito.

4 – Il dovere verso il futuro
- Ogni rapporto di diritti-doveri si fonda sulla reciprocità e sull’essere dell’altro: il mio dovere è l’inverso del diritto altrui e viceversa, può pretendere un diritto solo ciò che è. Il nostro caso è diverso, poiché i posteri verso cui siamo responsabili non possono pretendere un diritto, quindi il nostro dovere verso loro si deve fondare solo su una nostra scelta e, al massimo, sull’ipotetico diritto che i posteri potrebbero rivendicare a sé stessi.
- L’unico esempio offerto dalla natura di comportamento del tutto altruistico e di non-reciproca responsabilità ed obbligazione è la cura parentale verso i figli. E’ questo l’archetipo di ogni agire responsabile, che non necessità alcuna deduzione da principi ma ci è in possesso per natura, ed a cui dobbiamo far riferimento anche se (apparentemente) il dovere verso i figli non è lo stesso del dovere verso le generazioni future.
- Il dovere verso i figli necessità degli stessi presupposti del dovere verso le generazioni future: è un dovere verso l’esserci dell’umanità futura (indipendentemente dalla discendenza diretta) ed un dovere vero il suo essere-così. Noi infatti non dobbiamo vigilare sul diritto degli uomini futuri (sui loro desideri) ma sul loro dovere, ossia sul loro dovere di esserci come umanità e di essere-così come autentica umanità.
- Il primo imperativo sarà allora: deve esserci un’umanità. Secondo tale imperativo noi non siamo responsabili verso gli uomini ma verso l’idea ontologica di uomo. Tale principio dell’etica della responsabilità verso il futuro non è insito nell’etica stessa come dottrina di azione, ma nella metafisica in quanto dottrina dell’essere.
- La nuova etica vuole confutare i due dogmi secondo cui “non vi è nessuna verità metafisica” e “non vi è nessuna via dall’essere al dover essere”. Anzi i suo presupposto è, insieme all’anti-antropocentrismo, la necessità della metafisica, intesa non come essenza nascosta del suo sapere, bensì come punto di partenza esposto dei suoi principi.

3. SUGLI SCOPI E LA LORO POSIZIONE NELL’ESSERE

- La distinzione tra valori e scopi o fini: uno scopo è ciò per cui una cosa esiste e per la sua realizzazione o conservazione si svolge un processo o si intraprende un’azione. Esso risponde alla domanda “per che cosa?”. Gli scopi o fini operano e vengono riconosciuti indipendentemente dalla loro condizione di valori o dalla approvazione di qualcuno.
- L’essere, oppure la natura, è unitario e fornisce testimonianza di sé in quel che fa scaturire da sé. Ciò che è l’essere può essere desunto dalla sua testimonianza e naturalmente da ciò che maggiormente dice.
- Tale testimonianza del nostro essere viene ignorata dalla scienza naturale: essa si è specializzata nello studio di organi e di organismi minori agendo come se non sapesse che esistono gli organismi e gli organismi maggiori, studia gli organismi maggiori ed il cervello come se non sapesse che è in verità il pensiero a determinarne l’essere. Tutto ciò è giusto metodologicamente, sbagliato quando si passa da tale piano della finzione a quello ontologico dell’essere.
- Ciò che vogliamo dire è che la scienza naturale non ci dice tutto sulla natura, né è capace di spiegare le modalità del sentire o la coscienza umana. E’ una incapacità costruttiva poiché la stessa scienza è una componente di un universo ancora da comprendere.
- Ciò che resta da chiedersi è se la questione sugli scopi, sull’essere, implica la questione sui valori, sul dover essere. Se esiste un rapporto tra universalità e validità.

4. IL BENE, IL DOVER ESSERE E L’ESSERE: LA TEORIA DELLA RESPONSABILITA’

1 – Essere e dover essere
- Fondare il “bene” o il “valore” dell’essere significa colmare il presunto divario tra essere e dover essere.
- La natura, prefiggendosi degli scopi, pone anche dei valori. Riguardo a quest’ultimi possiamo dire che sia meglio e bene perseguirli, peggio e male non perseguirli; ma possiamo dire che siano anche dei “beni in sé”?
- Ciò che vale per lo scopo non vale però per la “finalità”, quest’ ultima, in quanto rappresenta ciò che l’essere vale per lo scopo specifico, il suo carattere ontologico, rappresenta di per sé un “bene in sé” nella sua differenza con il non avere uno scopo.
- La proprietà generale dell’ avere una finalità (prescindendo dal suo contenuto) è ciò che fonda e dà valore all’essere nella sua profonda differenza col non-essere, col nulla, con ciò che non ha finalità.
- La finalità dell’essere è innanzitutto il suo sì alla vita radicalizzato in un profondo no alla morte. Questo è il vero senso del “vivere per la morte” che fonda il valore dell’essere: un no attivo alla morte, una negazione del non-essere per il sì alla vita, per l’affermazione dell’essere.
- La difficoltà è: come può essere un “dovere” per l’essere ciò che è da sempre insito nella sua volontà, ossia il suo lottare contro il non-essere?
- Finora il “bene” è stato contrapposto alla “volontà”: infatti l’essere buoni ha sempre significato il conseguire un bene (assoluto o meno) che sta al di fuori di noi, un bene altruistico che non trovava riscontro nel nostro sentire.
- Il nostro caso è, però, profondamente diverso: il bene che noi cerchiamo deve a tutti i costi trovare un riscontro soprattutto nel sentire di ognuno; è infatti la sfera del sentimento, della volontà che può stimolare un senso di responsabilità così ampio (per il presente e per il futuro, per i miei discendenti e per i posteri).
- Come ogni teoria etica, anche la teoria della responsabilità deve tenere presenti entrambe le cose: il fondamento razionale dell’obbligo, ossia il principio di legittimazione che sta dietro alla pretesa di un “dover essere” vincolante, e il fondamento psicologico della sua capacità di mettere in moto la volontà, ossia di diventare per il soggetto la causa che determina il suo agire. Ciò significa che l’etica possiede un aspetto oggettivo ed uno soggettivo, uno che ha a che vedere con la ragione e l’altro con il sentimento. Entrambi sono fra di loro complementari: la ricettività emotiva senza una convalida del suo diritto sarebbe alla merce di predilezioni casuali e sprovvista di ogni giustificazione; il richiamo al dovere che escluda la sfera del sentire non troverebbe alcuna forza motivante all’interno della soggettività dell’essere
- Il ruolo del sentimento nell’etica tradizionale ha sempre avuto per oggetto il “sommo bene” che aveva come condizione ontologica la “atemporalità”, mettendo a confronto la nostra condizione mortale con la seduzione dell’eternità. Oggi l’oggetto del sentire deve essere ciò che è più transeunte per definizione, ben lontano dalla perfezione e dalla immortalità, tutt’altro che trascendente e necessario: la responsabilità verso gli altri. Quest’oggetto, l’alterità, ben diverso dal summum bonum, deve avere la forza di indurmi al senso di responsabilità nei suoi confronti solamente per la sua esistenza.
- L’alternativa nei suoi punti fondamentali è questa: quel che conta sono anzitutto gli obiettivi e non gli stati della mia volontà: impegnando la volontà diventeranno poi scopi per me. La legge in quanto tale non può essere né causa né oggetto del rispetto; ma l’essere, riconosciuto nella sua totalità e continuità, può ben generare il rispetto grazie all’affezione del nostro sentire. Ma il rispetto è insufficiente all’operare per l’altro, ciò che deve subentrare per agire di conseguenza è il senso di responsabilità, che vincola questo soggetto a quell’oggetto.

2 – Teoria della responsabilità: prime distinzioni.
- In primo luogo viene il “dover essere” dell’oggetto, in secondo luogo il “dover fare” del soggetto chiamato ad averne cura. Esigenza dell’oggetto e coscienza morale del potere-fare si fondono nel senso affermativo di responsabilità del soggetto attivo. Questo è il tipo di responsabilità che intendiamo portare avanti, non la vuota “responsabilità” formale di un agente per la sua azione.
- Ci si può avvicinare ulteriormente al concetto di responsabilità se ci si chiede il significato dell’ “essere irresponsabili”: innanzitutto è fondamentale dire che solo chi detiene una responsabilità può essere irresponsabile. La nostra idea è che chiunque abbia un qualsiasi “potere” verso gli altri debba avere anche un “dovere” verso gli altri, quindi sarà irresponsabile chi usufruirà dell’esercizio del potere senza adempiere il dovere.
- Avendo limitato il cerchio delle vere responsabilità, avendola cioè circoscritta ai detentori di un potere fattuale verso gli altri, i maggiori detentori di responsabilità risulteranno: i genitori (verso i figli) e gli uomini di stato (verso i cittadini).

3 – Teoria della responsabilità: genitori e uomini di stato.
- L’elemento comune ai due paradigmi dei genitori e degli uomini di stato può essere sintetizzato in: “totalità”, “continuità” e “futuro” come obiettivi della responsabilità per la felicità degli altri.
- Essere soggetto dotato di responsabilità implica il dovere essere responsabile verso i suoi simili, esseri dotati a loro volta di responsabilità: la capacità di avere responsabilità è la condizione sufficiente per il dovere verso la sua attualizzazione.
- Inoltre la responsabilità consiste principalmente nel dare agli altri la possibilità di essere responsabili in quanto umanità esistente: il comandamento dell’esistenza dell’umanità implica il comandamento della possibilità della responsabilità.
- La totalità delle responsabilità: le responsabilità abbracciano l’essere totale dei loro oggetti, ossia ogni loro aspetto, dalla nuda esistenza ai più elevati interessi, dal puro essere in quanto tale al ben-essere. (Questo è più evidente per i genitori).
- Inoltre non bisogna dimenticare che l’oggetto delle responsabilità dei genitori è lo stesso oggetto delle responsabilità dello Stato: come i genitori educano i propri figli “per lo Stato”, lo Stato si assume a sua volta una responsabilità per l’educazione dei ragazzi; il privato si apre sostanzialmente al pubblico e lo include nella propria integralità.
- La continuità: essa consegue dalla natura totale della responsabilità che, per definizione e per sua essenza, è un esercizio che non può cessare: né i genitori né lo Stato possono prendersi “vacanze” dalla propria responsabilità. Inoltre, ed ancora più importante, la responsabilità totale deve sempre agire chiedendosi “che cosa verrà dopo? A cosa condurrà ciò? Che cosa si è verificato prima? Come si concilia ciò che accade ora con la totalità dell’essere-divenuto di questa esistenza?. In sintesi: la responsabilità totale e continua deve procedere “storicamente”, abbracciare il proprio oggetto nella sua storicità, preservando nel tempo una certa identità che è parte integrante della responsabilità collettiva. (Questo è più evidente nello Stato).

4 – Teoria della responsabilità: l’orizzonte del futuro.
- Nel loro relazionarsi al futuro, responsabilità politica e genitoriale differiscono profondamente.
- I genitori hanno a che fare con un educazione che ha un fine ben determinato: l’autonomia e la maturità dell’individuo, il conseguire l’obiettivo fa cessare la responsabilità come compito doveroso. Tale responsabilità deve tener conto dello sviluppo organico e delle varie fasi di crescita dell’individuo.
- Lo stato si occupa invece di un’evoluzione storica per niente paragonabile allo sviluppo organico. La storia non ha un fine predeterminato verso il quale tende o deve essere guidata. Il divenire della storia e dell’umanità ha un senso completamente diverso dal divenire dell’individuo da embrione ad adulto. L’umanità, da quando esiste, è qualcosa che sussiste già e non deve essere prodotto o portato verso un fine, dell’umanità non si può dire quel che non è ancora, tutt’al più si può dire retrospettivamente quel che non era ancora in un determinato periodo storico.
- La responsabilità politica nel suo guardare al futuro ha un compito ben preciso: il rendere sempre possibile l’esistenza di una politica futura alla propria. Ogni responsabilità totale, al di là dei suoi singoli compiti, è sempre anche responsabile della preservazione della futura possibilità di un agire responsabile.

6 – La responsabilità e l’etica tradizionale.
- Kant diceva: “puoi, dunque devi”, oggi noi siamo costretti a dire “devi, dunque fai, dunque puoi”, ossia il tuo esorbitante potere è già all’opera, è sempre all’opera. In Kant l’inclinazione è subordinata al dovere e questo potere interno, non causale, va generalmente presupposto nell’individuo al quale soltanto si rivolge il dovere. Nel nostro contro-enunciato “potere” significa invece scaricare nel mondo gli effetti causali con cui dovrà poi confrontarsi il dover essere della nostra responsabilità.
- Il punto critico della questione morale, ossia come si possa passare dal volere al dovere essere, trova così una soluzione dalla mediazione del “potere” nella sua specifica manifestazione umana, nella quale il potere causale riunisce al sapere ed alla libertà. Il potere dell’uomo è il suo destino, ciò che può farlo agire responsabilmente o non. Il dover essere scaturisce dalla volontà in quanto autocontrollo del suo potere operante in modo consapevole.

7 – Il bambino, l’oggetto originario della responsabilità.
- L’essere di un ente, sul semplice piano ontico (l’ “è” del bambino quando viene al mondo), postula in modo immanente ed evidente un dovere degli altri. L’ “è” semplice e fattuale coincide con un dover essere.
- Inoltre il bambino include, all’interno del suo già-esserci, un impotente non-essere-ancora ed una negativa possibilità di non-essere-più che aumenta a dismisura il potere del genitore e, quindi, la sua responsabilità. La responsabilità deve considerare le cose non sub specie aeternitatis, ma sub specie temporis, potendo perdere tutto in un momento.

Differenza tra società civile e stato

Natura e caratteristiche della società civile
di Salvador Giner

L'analisi delle concezioni classiche della società civile fa nascere alcune domande. La società civile esiste? È stata mai un'unità storica identificabile? È un concetto utile? Non solo le interpretazioni differiscono le une dalle altre, ma quasi tutte trattano della società civile con notevole imprecisione. Forse però tale imprecisione è sintomatica della natura di quanto descritto, più che un riflesso di possibili negligenze da parte dei suoi interpreti. In forte contrasto con le frontiere ben delineate dell'entità a essa 'opposta', lo Stato, quelle della società civile sono condannate a rimanere incerte. Per lo Stato, la demarcazione è fondamentale. Per la società civile, fondamentale è l'ambiguità (quella che scaturisce da un certo genere di libertà).
E nonostante i problemi a cui dà luogo l'identificazione della società civile con il regno della libertà individualistica e competitiva, non si può facilmente fare a meno della nozione che la denota (e di tutto ciò che essa connota). L'ordine liberale a cui essa pienamente appartiene è impensabile senza una società civile. È la sua stessa essenza, sebbene qualche filosofo politico si discosti da questa opinione classica. In ogni caso si può tentare di dare una risposta una volta che possediamo, cioè una definizione accettabile di società civile;
Iniziamo, tuttavia, con una precisazione empirica: nel 'mondo reale' non esistono società civili paradigmatiche. Si può solo dire che alcuni paesi si avvicinano più di altri al modello ideale. Esistono, tutt'al più, varie società civili, tutte diverse le une dalle altre. Alcune sono più mature, altre meno. Così, si dice spesso che l'Inghilterra e gli Stati Uniti possiedano società civili forti (ma ciò non impedisce che l'espressione si usi in entrambi i paesi con scarsa frequenza). Al contrario, la Grecia moderna, per esempio, è solitamente definita una nazione dotata di una società civile debole. Questa distinzione è stata spesso utilizzata per interpretare la storia recente dei paesi dell'Europa meridionale o dell'America Latina, o per caratterizzare determinate regioni (così, la Catalogna e la Lombardia avrebbero società civili forti; la Sicilia e l'Andalusia le avrebbero deboli). La società civile debole spiegherebbe squilibri, dittature e interventismi statali, oltre che endemiche guerre intestine. Dal canto loro, molti paesi extra-occidentali, si suole affermare, sono totalmente privi di una società civile. Stando così le cose, è ovvio che qualsiasi definizione data sarà inevitabilmente un tipo ideale. Quella che segue, così come le cinque dimensioni che la caratterizzano, vanno intese in tal senso. Inoltre, la definizione deve considerarsi valida solo per quel periodo storico durante il quale la civiltà liberale borghese raggiunge il suo apice, senza che né l'espansione dello Stato assistenziale e interventista né le burocrazie private di grandi dimensioni (come le compagnie multinazionali) modifichino sostanzialmente i suoi tratti essenziali.
La società civile può essere definita come quella sfera storicamente costituita di diritti individuali, libertà e associazioni volontarie, la cui autonomia e reciproca concorrenza nel perseguimento dei propri interessi e desideri privati sono garantite da un'istituzione pubblica, chiamata Stato, la quale si astiene dall'intervenire politicamente nella vita interna del detto ambito di attività umane. Qualsiasi società civile così configurata possiede, come minimo, cinque tratti distintivi: individualismo, privacy, mercato, pluralismo e struttura di classe. Ciascuno di questi tratti pone un problema esistenziale alla società civile, ossia genera correnti che lo logorano e che, pertanto, indeboliscono la società civile stessa. I riferimenti a queste controcorrenti hanno lo scopo di frenare qualsiasi eccesso idealistico cui si possa pervenire nello sforzo di abbozzare il tipo ideale di società civile.

Tratto dalla voce Società civile dell’Enciclopedia Treccani on line
http://www.treccani.it/enciclopedia/societa-civile_(Enciclopedia-delle-Scienze-Sociali)/

Stato moderno
di Gianfranco Poggi
Lo Stato così come si configurava nell'Europa occidentale prima della prima guerra mondiale è il modello dello stato moderno. (Alcuni aspetti di quella configurazione, peraltro, erano presenti anche in altre parti d'Europa, nonché nel continente americano e in Giappone). Si tratta di un sistema di dominio politico che generalmente ha le seguenti caratteristiche.
Territorialità. - Il dominio è esercitato da ciascuno Stato con riferimento a una porzione precisamente delimitata del globo. Si noti però che la delimitazione stessa è talora oggetto di contesa tra Stati, e che per alcuni di questi si può distinguere il territorio immediato, metropolitano, dello Stato, da uno o più territori su cui il dominio è esercitato a titolo di possesso coloniale.
Unitarietà. - L'esercizio del dominio pertiene a un complesso di organi che si articola in molteplici uffici, ma la cui unitarietà si rivela, tra l'altro, nell'esistenza di un organo di vertice che, quali che ne siano le competenze, rappresenta lo Stato nel suo insieme. Al di sotto di questo, le varie funzioni di governo (nel senso lato, che comprende la legislazione e la giurisdizione) fanno capo a insiemi di organi che, per quanto complessi, a loro volta sono attivati e/o controllati da un singolo organo (ad esempio, nel caso della giurisdizione, da una corte d'ultima istanza). Questa unitarietà è compatibile con varie forme di autonomia locale e con la più avanzata articolazione organizzativa dei domini rappresentata dagli Stati federali.
Nazionalità. - La popolazione su cui si esercita il dominio è vista a sua volta come unitaria, in quanto pur nella sua diversità è attraversata da certe comunanze, variamente (e per lo più vagamente) definite: di lingua, di religione, di origine etnica, di cultura, di esperienza storica, di destino, di appartenenza al territorio, di fedeltà a una dinastia, di solidarietà. Importanti eccezioni sono rappresentate dalle popolazioni di Stati espressamente multinazionali, come l'Impero russo e quello austro-ungarico.
Legittimità democratica. - Il riferimento alla democrazia come principio fondante dell'esistenza stessa degli Stati è per lo più esplicito solo a partire dalla prima guerra mondiale, ma è implicito nell'idea stessa di nazionalità, quanto meno in quelle versioni che vedono nella nazione non solo l'oggetto del dominio politico, ma anche la base costituente di esso e la sede ultima della sovranità, e/o propongono l'interesse nazionale come obiettivo costante (anche se generico e remoto) dell'azione statale, e in particolare della politica estera. In ogni caso lo Stato si legittima, vale a dire giustifica la sua richiesta di obbedienza ai propri comandi, in base all'assunto che l'investitura di chi esercita il comando proviene, tramite complesse mediazioni istituzionali (e ideologiche), da coloro stessi a cui si chiede l'obbedienza.
Stato di diritto. - Il dominio si manifesta precipuamente attraverso la formazione, l'esecuzione e l'applicazione di leggi, intese come comandi generali e astratti. La validità di questi comandi si fonda sull'osservanza di procedure fissate da atti o consuetudini costituzionali e sul rispetto di alcuni principî sostanziali, che garantiscono certe aspettative degli individui anche nei confronti dell'azione statale o la impegnano a favorire determinati interessi individuali. Gli organi incaricati di svolgere le varie funzioni statali sono istituiti da leggi, che ne regolano le operazioni, facendone dipendere l'efficacia dall'osservanza di quelle regole. La corretta esecuzione delle leggi, quando incidano su legittimi interessi individuali, può essere verificata da organi giudiziari, siano questi ordinari o speciali. Leggi o consuetudini costituzionali talora individuano e circoscrivono una sfera di affari esplicitamente 'politici' - precipuamente la tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza dello Stato - nell'affrontare i quali determinati organi statali possono, in condizioni di emergenza e fino a quando l'emergenza continui, soprassedere a norme che generalmente ne limitano l'azione.
Società civile. - Lo Stato così costituito è complementare a un ambito sociale vasto e differenziato, in cui gli individui perseguono autonomamente interessi privati, precipuamente ma non esclusivamente di natura economica, impegnando risorse loro proprie e intrecciando gli uni con gli altri rapporti di natura contrattuale. Il diritto di proprietà e la disciplina legislativa del contratto sono gli strumenti essenziali tramite i quali lo Stato garantisce queste attività private, che avviano una forte dinamica sociale e normalmente danno adito a una divisione del lavoro entro la popolazione e alla formazione di imprese e di classi. Ma l'autonomia privata è anche lo strumento di altre attività individuali che lo Stato garantisce, ma in cui non si ingerisce direttamente, come quelle relative alla religione, alla cultura, alla beneficenza, alla cura dell'intimità familiare e dell'amicizia, al tempo libero. Le differenziazioni sociali a cui danno luogo le varie dinamiche della società civile, e i relativi conflitti, sono normalmente temperati non solo dalla comune soggezione degli individui al dominio politico esercitato dallo Stato, ma anche dalla loro appartenenza alla comunità politica della nazione. In altre parole, gli individui si configurano anche come cittadini.
Sfera pubblica. - I principî costituzionali liberaldemocratici permettono alla cittadinanza di esprimersi attivamente attraverso la pubblica discussione degli affari politici e della condotta degli organi statali, ma soprattutto attraverso la rappresentanza politica. La composizione degli organi legislativi (a cui spetta - in varia misura e attraverso meccanismi diversi - anche l'investitura del potere esecutivo e l'elaborazione di direttive politiche di massima) varia nel tempo, e dipende dal successo che incontrano di volta in volta, in occasione di consultazioni elettorali, gruppi dirigenti che competono gli uni con gli altri per il suffragio della cittadinanza. Il principio della legittimità democratica ha quindi una sua convalida periodica nel processo elettorale, che peraltro sistematicamente divide la cittadinanza, producendo entro l'elettorato 'allineamenti' contrastanti che si riflettono nella formazione di maggioranze e opposizioni all'interno degli organi rappresentativi. Soltanto la composizione dell'esecutivo non riflette la divisione di opinioni e preferenze politiche entro l'elettorato: l'esecutivo riceve il suo mandato dalla maggioranza, e la sua attività può essere discussa dall'opposizione. In ogni caso, la matrice delle politiche è la politica, intesa come confronto tra concezioni legittimamente contrastanti dell'interesse pubblico, che concorrono per assicurarsi il pubblico consenso. L'istituzionalizzazione di questa concorrenza rende la politica degli Stati assai dinamica.
Segregazione istituzionale della violenza organizzata. - Anche se la violenza organizzata rimane centrale nella versione statuale dell'esperienza politica, questa tende a renderla relativamente marginale e occasionale e a rappresentarne l'importanza soprattutto tramite operazioni simboliche. I ruoli che hanno espressamente a che vedere con la violenza vengono affidati a specialisti che normalmente li esercitano soltanto in base a decisioni prese dalle dirigenze politiche e (nel caso della polizia) giudiziarie.

Tratto dalla voce Stato moderno dell’Enciclopedia Treccani on line
http://www.treccani.it/enciclopedia/stato_(Enciclopedia-delle-Scienze-Sociali)/