quarta di copertina da "I Simpson e la filosofia"

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domenica 5 agosto 2007

HEIDEGGER

MARTIN HEIDEGGER (1889-1976)

LA VITA
Heidegger nasce a Messkirch, nel Baden, in Germania. Si laurea in filosofia a Friburgo nel 1913 con una tesi su La teoria del giudizio nello psicologismo, dopo avere seguito corsi di filosofia e teologia. Nel 1915 ottiene la libera docenza grazie a una dissertazione su La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto. Nel 1916 diventa assistente di Husserl fino al 1923, anno in cui ottiene una cattedra a Marburgo, dove insegna fino al 1927, anno della pubblicazione della sua prima opera importante, Essere e Tempo. L'anno successivo viene chiamato a Friburgo per prendere il posto di Husserl, il quale aveva lasciato l'insegnamento.
Nel 1933, in seguito alla sua nomina a rettore dell'Università di Friburgo, aderisce al nazismo, ma l'anno successivo rinuncia all'incarico e si chiama fuori da qualsiasi coinvolgimento politico. Heidegger si ritirerà dalla vita pubblica fino alla caduta del regime, pur continuando ad insegnare fino al 1944, anno in cui la Germania viene occupata dagli alleati e gli viene interdetta la possibilità di insegnare da parte degli americani.
A partire dal 1951, aiutato a reintrodursi nel mondo accademico dall'amico Karl Jaspers (che aveva rotto i rapporti con lui al tempo dell'adesione al nazismo), Heidegger ritorna progressivamente ad insegnare, prima tenendo seminari privati, poi corsi di insegnamento ufficiali.
Nel 1955 si ritira definitivamente dall'insegnamento e vive in una baita immersa nella Foresta Nera, a Todtnauberg, dove vive fino alla morte.
Controversa la vicenda della sua adesione al nazismo: si è scritto molto su questo, le tesi sono contrastanti, sta di fatto che Heidegger si allontanò dopo un anno di frequentazione dagli ambienti politici per dissensi sul biologismo razziale. Va però ricordato che durante il periodo dell'adesione chiese di destituire dalla carica di insegnante il futuro premio Nobel per la chimica H. Staudinger, perché, a suo dire, inaffidabile per il nazismo, vista la sua posizione pacifista durante la prima guerra mondiale.
Heidegger pare vedesse nel nazismo l'opportunità di inserire nella vita pubblica tedesca forze nuove e vigorose, oggi molti pensano che questa vicenda sia stata una "sbandata" di un uomo poco propenso alla politica, va però ricordato che Heidegger non era del tutto estraneo ad un certo ambiente "conservatore", soprattutto in gioventù. Da notare, infine che, nel dopoguerra, Heidegger fu disposto anche a perdere la possibilità del suo rientro accademico per favorire la carriera accademica di un suo allievo, K. Loewith, fuggito in Giappone e poi negli Stati Uniti durante il periodo nazista. Dunque luci e ombre si addensano da sempre su questa vicenda, in un continuo alternarsi di stati contrastanti.
Al di la di queste considerazioni, il suo pensiero riveste comunque una fondamentale importanza per le vicende della filosofia contemporanea e non è implicato direttamente ai travagli pubblici e politici del suo autore.

Opere principali: Essere e tempo (1927); Che cos'è metafisica? (1929); Kant e il problema della metafisica (1929); L'essenza del fondamento (1929); La dottrina platonica della verità (1942); Lettera sull'"umanismo" (1947); Saggi e discorsi (1954); In cammino verso il linguaggio (1959); La tecnica e la svolta (1962); La questione del pensiero (1969); Segnavia (1976). E anche Kant e il problema della metafisica, L'essenza del fondamento, Introduzione alla metafisica, Sentieri interrotti, Nietzsche.

1. Premessa: alla ricerca dell'essere
Quella di Heidegger è una filosofia rivolta a carpire l'autentico significato dell'essere, lo stesso Heidegger definisce la sua ricerca filosofica ontologia (=scienza dell'essere), ma non un'ontologia metafisica, bensì un'ontologia fenomenica.
Quello della ricerca dell'essere è un tema classico della filosofia: identificare la vera essenza dell'essere (ovvero, ciò che esiste per necessità e che non abbisogna di nessun altro ente per esistere, nell'accezione comunemente formulata da Parmenide) significherebbe conoscere una volta per tutte la reale natura della nostra esistenza (in quanto noi, uomini esistenti, abbiamo pur sempre un qualche genere di rapporto con l'essere). Tuttavia le posizioni di Heidegger porteranno, come vedremo, a una rottura con tutta la tradizione ontologica precedente.
Heidegger, per individuare l'autentico senso dell'essere, parte da posizioni fenomenologiche (il suo maestro fu Husserl). L'essere che intende indagare Heidegger non ha alcunché di metafisico, esso è la manifestazione reale di uno stato di esistenza che si mostra nella vita per come viene vissuta e percepita. L'ontologia di Heidegger non è quindi metafisica ma studio dell'essere come si manifesta nell'esistenza che appare all'uomo, ente privilegiato in quanto vivente sulla propria pelle la stessa condizione dell'esserci ("dasein"; si vedrà più avanti il significato di questa affermazione).
""Fenomenologia", rivela Heidegger, è il lasciar vedere il fenomeno, ossia ciò che si manifesta in sé stesso e da sé stesso. E ciò che si manifesta non è una "semplice apparenza" di una "cosa in sé" inconoscibile, ma è ente." (E. Severino, La filosofia contemporanea).

2. Essere e tempo
Mentre l'ontologia metafisica del passato intendeva dunque l'essere come ciò che non muta ed è eterno, e proprio per questo si impone come presenza eterna e immutabile al di là dell'apparenza diveniente della realtà, per Heidegger l'essere dedotto fenomenologicamente non può che acquisire le caratteristiche proprie della realtà, e quindi essere soggetto alla temporalità propria degli enti per come si mostrano.
In "Essere e tempo", Heidegger indaga la problematica dell'essere, cercando di carpirne la vera natura. Egli nota come per l'intera ontologia tradizionale del passato l'essere è qualcosa che si da per scontato che esista, al di là dell'apparenza del mondo, per cui l'essere è una presenza che mai si mostra ma che si intende fondare come qualcosa di necessario in modo da impedire una caduta nel niente degli enti, i quali, secondo una distinzione platonica, sono corruttibili nel mondo fisico mentre sono incorruttibili (una loro parte essenziale) in un mondo metafisico al di là dell'apparenza.
Questo atteggiamento tradizionale nei confronti dell'essere va ripensato, secondo Heidegger. Secondo il filosofo tedesco non si può pensare un qualsiasi essere metafisico senza ricondurlo alla condizione propria dell'esserci ("dasein"). L'esserci è la condizione dell'uomo che vive una condizione di esistenza determinata e situata, ovvero il suo vivere ed essere un uomo, condizione originaria a qualsiasi pensiero o considerazione.Dunque per comprendere che cos'è l'essere occorre partire non dalla sua "presenza trascendentale", già data e già posta nel pensiero prima ancora di considerare l'esistenza concreta degli uomini, ma occorre invece indagare la condizione dell'esserci, ovvero l'esistenza stessa degli uomini, poiché l'essere appare tale solo in rapporto ai presupposti esistenziali dell'uomo.
Ma che cos'è, in concreto, l'esserci, ovvero l'esistenza stessa degli uomini? Per Heidegger il significato della vita degli uomini è quella di prestarsi alla possibilità e al progetto. Esistere significa infatti per Heidegger "ex-sistere", ovvero non essere più "un permanere", ma costantemente andare oltre questo permanere, verso la possibilità aperta, verso la novità degli accadimenti che permettono all'esistenza di mutare nel corso del tempo (esistere è divenire). Esistere, per l'uomo, significa quindi tendere sempre verso una nuova sistemazione della realtà.
Si noti invece come l'essere immutabile della metafisica classica sia invece un in-sistere, ovvero un permanere entro la propria condizione, senza possibilità di mutamento.
La condizione esistenziale, l'esserci, è quindi mutamento. Heidegger afferma che il senso autentico dell'essere è fondamentalmente il senso stesso dell'esserci. Come si è visto l'essere non può essere posto come qualcosa di indipendente dall'esistenza dell'uomo, poiché questo rappresenta una forzatura, un arbitrio che pone l'essere come presenza immutabile al di là dell'esistenza dell'uomo. Da questo ne deriva che, per Heidegger, l'essere deve essere il significato stesso dell'esistenza umana per essere davvero autentico. Quindi l'essere è tempo, ovvero l'essere ha i caratteri dell'esistenza stessa degli uomini: l'essere è mutabile, temporale, soggetto al divenire, l'essere è quindi il gioco stesso degli enti che si mostrano nel mondo, l'essere è questo lasciarsi mostrare degli enti e degli avvenimenti.
Essere e Tempo è un libro incompiuto ed è in compiuto perché, a detta dello stesso Heidegger, ad un tratto il linguaggio che aveva a disposizione non permetteva più alcun approfondimento significativo del concetto di essere, le parole e il loro significato non bastavano più a chiarirne la natura, poiché tutto il linguaggio umano risente della concezione dell'essere come "permanenza trascendentale" e immutabile, atemporale.
3. La differenza ontologica
Se l'essere è il lasciarsi mostrare degli enti, allora significa che l'essere non è la stessa cosa degli enti.
Vi è una differenza ontologica, ovvero una differenza propria nell'essenza stessa, tra l'essere e l'ente: i singoli enti (le singole cose che esistono) non hanno alcun legame diretto con l'essere, l'essere è altro dall'ente, l'essere non è l'esistere delle cose (degli enti), l'essere è in realtà l'orizzonte entro il quale gli enti si manifestano.
Alla luce di questo l'essere non è quindi un'essenza propria dell'ente, l'essere è in realtà il processo di manifestazione degli enti. L'essere non produce gli enti, l'essere è solamente ciò che lascia vedere gli enti, l'orizzonte entro il quale gli enti sono illuminati e vengono percepiti.
Nell'ontologia di Heidegger l'evidenza del mutamento è talmente palese (fondata su principi fenomenologici) che occorre necessariamente affermare il divenire di ogni cosa, anche di quell'essere che era stato sempre inteso come ciò che vi è di immutabile nel mutamento.
Per Heidegger, le metafisiche del passato non facevano altro che identificare ciò che vi era di comune a tutti gli enti, ed è in questa ottica che la differenza tra essere ed ente permette di confermare e salvaguardare il divenire come legge assoluta, poiché libera l'essere da ogni possibile immutabilità.
4. L'essere e l'esistenza
Dunque l'essere è l'orizzonte entro il quale gli enti si manifestano e acquisiscono così la qualità di esistere (ovvero il loro semplice manifestarsi come enti). L'essere diventa così un evento fenomenologico e l'ente che per eccellenza sente ed è in grado di percepire e di avere coscienza dell'essere come fenomeno è l'uomo, poiché solo l'uomo è in grado di percepire coscientemente la sua esistenza, attraverso la quale si manifesta l'intero percorso dell'essere (ovvero del mostrarsi delle condizioni di mutamento che caratterizzano l'esistenza).
Solo l'ente (soggetto esistente) che si pone la domanda sull'essere può dare una risposta soddisfacente alla questione: l'ente che si pone la domanda è l'uomo, cosciente di essere esistente e di vivere la condizione dell'esserci ("da-sein"=essere qui). Tale concetto è prettamente esistenziale, in quanto Heidegger afferma che la condizione imprescindibile dell'uomo è quella di essere necessariamente situato nel mondo, senza possibilità di scelta (l'uomo non può scegliere, dal momento della nascita la vita ha scelto per lui la condizione di "essere-nel-mondo").
L'uomo non vive allo stesso modo di un pezzo di metallo. Il metallo è già compiuto in sé, è una semplice "presenza", come già visto, invece, l'uomo trascende sempre se stesso (ex-siste), è continuamente proteso a ciò che non è e potrebbe essere: l'uomo, dotato di coscienza, progetta continuamente la sua vita rapportandola al futuro, è questo slancio in avanti che rende l'uomo non una semplice "presenza", ma un' "esistenza", sottoposta alla storia e al tempo, in altre parole, al divenire. L'esistenza dell'uomo può autenticamente svilupparsi entro la possibilità della libera scelta solo se comprende il senso dell'essere come orizzonte entro qui è possibile il libero "gioco" del divenire. La libertà che è concessa agli enti dal nuovo senso dell'essere è ciò che libera anche l'uomo da ogni necessità e lo rende capace di scegliere da sé e in assoluta libertà quale percorso vivere.
Nella condizione dell'esserci, l'uomo sperimenta dunque il senso più autentico dell'essere, ed è da questa analitica esistenziale che è possibile, secondo Heidegger, mostrare il vero significato dell'essere.
5. Esistenza autentica ed esistenza inautentica
Nie capitoli precedenti si è parlato della condizione dell'uomo come "esser-ci" (da-sein). Tale condizione è la condizione naturale e imprescindibile in cui l'uomo viene a trovarsi, senza possibilità di scelta, situato nel mondo. Tale condizione esistenziale ha due modalità, due possibili modi di essere vissuta: quella autentica e quella inautentica.
L'esistenza autentica è quella per cui l'uomo sceglie di vivere coscientemente il suo carattere di ente che progetta e tende al futuro, un ente che esce da sé continuamente, in grado di slanciarsi verso ciò che potrebbe essere. L'esistenza autentica è quindi quella che accetta il suo carattere diveniente, che comprende, inevitabilmente, la possibilità della nullificazione (della morte e del termine della propria attività di "ex-sistere").
Ripetiamo qui un brano del capitolo 4: "L'esistenza dell'uomo può autenticamente svilupparsi entro la possibilità della libera scelta solo se comprende il senso dell'essere come orizzonte entro qui è possibile il libero "gioco" del divenire. La libertà che è concessa agli enti dal nuovo senso dell'essere è ciò che libera anche l'uomo da ogni necessità e lo rende capace di scegliere da sé e in assoluta libertà quale percorso vivere."
L'esistenza inautentica, per contro, è l'esistenza condotta dall'uomo che rifiuta il proprio carattere diveniente e l'apertura libera da ogni immutabile che l'essere gli mette a disposizione: l'uomo che vive l'esistenza inautentica rinuncia alle scelte relative al proprio tendere in avanti, rinuncia al futuro e a qualsiasi progetto, rifugiandosi nei rimedi metafisici che hanno lo scopo di renderlo immortale (le metafisiche e le teologie classiche). Questo atteggiamento è chiamato da Heidegger "deiezione", ovvero diventare una cosa come le altre, ente tra gli enti. L'uomo vive inautenticamente dimenticandosi della propria condizione esistenziale di essere mortale e soggetto al divenire, vivendo come un oggetto che si crede immortale, per convenienza. L'esistenza inautentica si perde nel "si dice", "si fa", ovvero nell'accettazione distratta di un'esistenza già vissuta da altri e quindi già creata, senza alcuna possibilità di creare nulla come novità sostanziale. L'esistenza autentica invece respinge questa inautenticità affermando consapevolmente il proprio carattere di estrema possibilità relativamente allo slancio creativo (l'esistenza autentica vive seguendo l'originalità radicale del proprio dipanarsi e non le forme delle esistenze già dipanate da altri).
Tali tematiche sono tipicamente esistenziali, tanto che l'esistenzialismo trarrà molti concetti dal pensiero di Heidegger (si veda ad esempio il concetto di esistenza come contingenza di Sartre), tuttavia Heidegger rifiuterà sempre ogni coinvolgimento con l'esistenzialismo, considerando la sua opera un indagine principalmente ontologica, e non esistenziale (il rifiuto della lettura esistenzialista della sua opera è contenuto in "Lettera sull'umanismo").
6. L'angoscia
Dunque, come già detto, l'esistenza autentica è un "vivere-per-la-morte". Per Heidegger (e qui vi si possono leggere forti analogie con Kierkegaard) l'angoscia è la paura che nasce dalla consapevolezza che con la morte tutto si annulla. Mentre per Platone il saggio vive accettando la morte come possibilità di arricchimento, nella consapevolezza che il corpo è un ostacolo alla conoscenza, Heidegger ammette senz'altro che con la morte giunge l'annullamento. Come rendere positiva una vita che si progetta in tale prospettiva?
Heidegger afferma che la nostra vita può svolgersi entro un orizzonte autentico solamente se le nostre scelte sono rapportate alla nostra finitezza. Se le nostre scelte fossero svolte entro un ambito di vita eterna, perderebbero di significato, perché non comporterebbero alcuna assunzione di responsabilità, in quanto ogni evento e ogni scelta potrebbe essere ripetuta all'infinito, ogni strada potrebbe essere battuta, superando quel principio di esclusione (l'aut-aut kierkegaardiano) per cui una decisione comporta alcune conseguenze e non altre: una vera condanna all'eternità, nella quale ogni scelta ci risulterebbe indifferente, e la vita stessa perderebbe di significato, cedendo all'apatia e all'indifferenza.
In sostanza Heidegger pone la "vita-per-la-morte" come concetto positivo: solo la consapevolezza della nostra finitezza è in grado di produrre quel significato e quell'attenzione per le cose del mondo che non potremmo avere se, perduti nell'eternità, avessimo la consapevolezza di potere goderne in eterno.
L'angoscia che deriva quindi dalla consapevolezza della nostra finitezza, oltre ad essere uno stato emotivo indissolubilmente legato all'esistenza autentica è anche un sentimento positivo, necessario a dare significato autentico alla nostra vita (chi vive nell'esistenza inautentica tende invece a dimenticare la morte e ad allontanare l'angoscia, quasi analogamente alle meccaniche pascaliane del "divertissement").
7. L'essere non ha fondamento
La civiltà della tecnica che domina il mondo contemporaneo è un'estremizzazione del pensiero metafisico classico, in cui vi è un soggetto (l'uomo) che intende dominare, con la sua volontà di potenza sulle cose, degli oggetti che sono altro da sé. L'essere degli enti si identifica allora con il ruolo e la funzione che vengono loro assegnati all'interno del sistema della tecnica.
"Heidegger vede nell'organizzazione totale della tecnica la forma più radicale dell'episteme metafisica, e cioè dell'apparato che rende impossibile il divenire storico dell'esistenza. L'oblio dell'essere, così, è divenuto totale. E al posto dell'impotenza, finitezza, effettività dell'essere e del progetto che lo assume come sfondo, compaiono tutte le forme di assicurazione, controllo, organizzazione dell'ente all'interno dell'esistenza scientifico-tecnologica." (E. Severino, La filosofia contemporanea).
L'essere si svela e rende possibile la manifestazione degli enti secondo proprie logiche oscure e inconoscibili. E' infatti impossibile sapere il modo in cui, all'interno dell'orizzonte che lascia manifestare gli enti, questi enti si producano e a quale legge si conformino. L'essere è quindi senza alcun fondamento, esso non può avere alcun fondamento perché si configura come il semplice lasciarsi mostrare da parte degli enti. Nessuna legge metafisica può allora prevedere come gli enti si manifesteranno nel futuro, poiché l'essere è conseguenza dell'esistenza e non viceversa.
La tecnica moderna si configura invece come dominio dell'uomo sulle cose, l'uomo crede che l'essere delle cose sia soggetto al suo dominio, in realtà l'uomo non è il padrone dell'essere, l'uomo è tutt'al più il "pastore" dell'essere, ovvero il custode di quella dimensione che rende possibile agli enti di manifestarsi, custoditi nell'esistenza stessa dell'uomo, la quale si manifesta proprio entro l'orizzonte aperto dall'essere. L'essere sopravvive al tentativo di dominio della tecnica perché non è un ente concreto, l'essere è solamente la condizione in cui gli enti si manifestano, e la tecnica può solo occuparsi degli enti concreti (quindi non dell'essere).
8. La verità come disvelamento
Heidegger nota come nella filosofia presocratica sia stata concepita un'idea di verità che, relativamente alla sua etimologia, si addice più che mai al senso dell'essere da lui proposto: per i greci la verità è aletheia, ovvero "ciò che non è nascosto, che si manifesta" (a- come privativo di lethe "nascosto"). La verità è quindi l'essere stesso, ovvero ciò che permette agli enti di manifestarsi e di rendersi visibili e concreti alla percezione degli uomini e all'orizzonte del mondo. Tuttavia questo senso della verità si è spento con l'avvento della metafisica, in cui l'essere ha acquistato le caratteristiche dell'ente immutabile.
"E' a quella esperienza originaria dell'aletheia che Heidegger riconduce il senso non metafisico dell'essere. L'essere è l'emergere dal nascondimento: [...] nel senso che la luce, l'apparire in cui l'essere consiste, proprio perché illumina e lascia apparire, illumina e lascia apparire gli enti e quindi attira ogni attenzione sull'ente, si che proprio la luce che illumina si sottrae alla dimensione che essa rende visibile." (E. Severino, La filosofia contemporanea).
L'essere, quindi, rende possibile la manifestazione degli enti poiché consiste nel loro manifestarsi, e proprio per questo l'essere concede la sua luce all'ente "ritirandosi dal palcoscenico", ovvero perdendo quelle caratteristiche di presenza proprie dell'ente illuminato, illuminato dallo stesso essere che non concerne all'ente (in virtù della differenza ontologica).

FRA TEOLOGIA E FENOMENOLOGIA
Nel 1907, come racconta Heidegger stesso, Konrad Gröber, che sarebbe poi diventato arcivescovo di Friburgo, gli diede da leggere lo scritto di Franz brentano Sul molteplice significato dell'essere secondo Aristotele (1862). Tra gli insegnanti a Friburgo c'era il teologo Carl Braig, autore di un libro Sull'essere (1896), contenente ampie citazioni di Aristotele, san Tommaso e Suarez: Heidegger lesse anche questo scritto. Questi due testi lo misero di fronte alla domanda che per lui rimase sempre centrale: che cos'è l'essere? In questo periodo egli studiò anche matematica, scienze naturali e logica e tra il 1909 e il 1910 lesse le Ricerche Logiche di Husserl, che influenzarono i suoi primi scritti. Di Husserl, Heidegger condivideva in primo luogo la lotta contro lo psicologismo, ossia contro la riduzione della logica alla formazione empirica dei concetti e delle proposizioni. Egli giudicava la fenomenologia il metodo essenziale per portare un chiarimento alla questione dell'essere e della vita. Ma la fenomenologia, qual era concepita da Husserl come epochè o riduzione fenomenologica, tendeva a cogliere l'essenza delle cose attraverso uno sguardo totalmente scevro da presupposti legati all'esistenza storica del soggetto. Si poneva allora il problema di come fosse possibile rendere la fenomenologia compatibile con il fatto ineliminabile e irriducibile della storicità della vita. Il corso d'insegnamento, tenuto da Heidegger nel semestre invernale 1919-20, verteva sui problemi della fenomenologia pura. Al centro egli poneva la vita intesa come realtà autosufficiente, sempre collocata in situazioni storiche. Proprio nel 1919 egli aveva letto la Psicologia delle visioni del mondo di Jaspers e ne aveva scorto il nucleo portante nella dottrina delle situazioni-limite, in cui si decide della vita stessa, ma ne aveva criticato l'impostazione oggettivistica, affine all'atteggiamento disinteressato proprio della fenomenologia di Husserl. La vita, secondo Heidegger, non può essere colta nella sua realtà e nei suoi significati per mezzo di un metodo scientifico oggettivo e distaccato; occorre invece superare l'opposizione fra teoria e prassi, tra descrizione psicologica e decisione esistenziale. La fenomenologia ritiene di poter pervenire alla comprensione originaria di sé mediante un atteggiamento puramente teoretico, modellato sulle scienze. Per Heidegger, invece, l'atteggiamento scientifico, irrigidendo la vita, non può coglierne l'elemento specifico, cosicchè la fenomenologa deve piuttosto configurarsi come ermeneutica della fatticità , cioè come interpretazione che la vita dà di se stessa quale di fatto è. Costitutivo della vita è, tra l'altro, il fatto di appartenere a un mondo, ma è proprio il mondo che la riduzione fenomenologica di Husserl, mirando a raggiungere l'io puro e le sue strutture, mette tra parentesi. In tal modo essa si priva, secondo Heidegger, della possibilità di cogliere la vita. Dilthey, a sua volta, aveva avvertito, secondo Heidegger, che il problema è di portare la vita a una comprensione filosofica, ma non si era reso conto che per questo occorreva riproporsi il problema dell'essere: a ciò deve invece condurre "l'ontologia o ermeneutica della fatticità". Questo tema è affrontato da Heidegger in un corso del 1923, dove riconosce che il problema dell'essere è rimasto impigliato in una concezione inadeguata: sin dall'antichità infatti, secondo Heidegger, l'essere è stato concepito come essere semplicemente presente . La fenomenologia autentica deve, invece, fare in modo che le cose stesse e i concetti che dovrebbero esprimerle vengano resi manifesti, sottraendoli alle deformazioni o nascondimenti a cui sono andati soggetti nel corso della storia: ciò vale anche per l'essere. Contrariamente a quanto pensava Husserl, la fenomenologia, per afferrare il significato originario dei concetti, deve dunque assumere una dimensione storica. Nel 1925 Heidegger dedica un corso ai Prolegomeni sulla storia del concetto di tempo , nel quale chiarisce il senso dei due termini, che compongono la parola fenomenologia : fenomeno indica ciò che è manifesto e logos il lasciar vedere qualcosa in se stesso. Il concetto opposto a "fenomeno" è "essere scoperto" non soltanto nel senso di non ancora visto, ma piuttosto in quello di non compreso nella sua provenienza storica. Per tale comprensione è insufficiente una fenomenologia intesa, alla maniera di Husserl, come un semplice vedere. A questa trasformazione della fenomenologia Heidegger arriva riflettendo, contemporaneamente, oltre che sulla Scolastica, sui mistici tedeschi e sui caratteri dell' esperienza religiosa . Nel 1959 egli dirà: ' Senza questa origine teologica non sarei mai giunto sulla via del pensiero '. La teologia protestante di quegli anni andava riscoprendo la centralità delle attese escatologiche dei primi cristiani, in opposizione alla riduzione del cristianesimo a semplice costruzione teologica. I nomi di Lutero e di Kierkegaard erano diventati emblematici di un nuovo modo di esperire la fede nel suo significato originario. Nel semestre invernale 1920-21 il corso di Heidegger ha per titolo Introduzione alla fenomenologia della religione . Il punto centrale del pensiero di San Paolo è da lui ravvisato nella convinzione che la fede del cristiano si fonda sulla speranza nel ritorno di Cristo. Questo è l' evento , che non può essere determinato né calcolato in anticipo, è l'evento possibile che può irrompere improvvisamente nella vita del cristiano. L'esperienza di vita del primo cristianesimo ha dunque un carattere storico, in quanto ravvisa la struttura portante della vita nel compimento storico e temporale di questo evento: essa rappresenta per Heidegger il modello dell'esperienza della vita in generale. Nel corso della storia del cristianesimo, però, questa struttura, imperniata nell'attesa storica del ritorno di Cristo, era stata soffocata da un apparato concettuale metafisico e teologico inadeguato ad esprimerla: così era avvenuto, per esempio, in Agostino con il neoplatonismo, un tema su cui Heidegger si trattenne nel corso del semestre estivo del 1921. Attraverso il neoplatonismo si erano imposte, entro il cristianesimo, la distinzione tra cose visibili e cose invisibili e la concezione di Dio come sommo bene: ciò significava che Dio può essere compreso soltanto a partire da qualcos'altro e, precisamente, a partire dalle cose create. Contro ciò era insorto il giovane Lutero, secondo il quale l'essenza di Dio non può essere compresa partendo dalle sue opere, ma propriamente solo dal fatto che Dio si rende visibile sulla croce nel dolore, ossia a partire dall'esperienza reale della vita. In contrasto con questa esperienza storica di vita, la metafisica aveva assegnato un primato al vedere: in base ad esso l'essere è concepito come ciò che è davanti agli occhi nella sua costante presenza, non come un evento atteso sempre possibile. Questa identificazione dell'essere con la semplice presenza era stato, secondo Heidegger, il presupposto non più discusso nella storia del pensiero occidentale. Si trattava ora di riproporlo come problema, riformulando la domanda: che cos'è l'essere? Da questa domanda parte l'opera più celebre di Heidegger, Essere e Tempo (1927), la quale, pur essendo dedicata a Husserl, segna di fatto il definitivo distacco dalla fenomenologia husserliana.

ESSERE ED ESISTENZA
Il termine essere può essere impiegato in molti significati, nel senso di esistere oppure di essere vero o come copula che collega un soggetto e un predicato. Il problema è se esista un significato primario che consenta di pensarli tutti nella loro unità. Generalmente, quando si usa il termine essere, si privilegia un determinato tempo verbale, il presente, ma si può dire che l'essere si riduca soltanto a ciò che è presente? Il tempo si articola in passato, presente e futuro e si può quindi porre la domanda: il tempo appartiene al senso dell'essere? Nel momento in cui si pone questa domanda l'equivalenza fra essere e essere semplicemente e costantemente presente non è più ovvia. Tale domanda, tuttavia, ad avviso di Heidegger, è stata dimenticata dopo Platone e Aristotele. Solitamente si dice che essere è il concetto più generale di tutti: di qualunque cosa, infatti, si può dire che è. Ma se è il concetto più generale, esso no può essere definito, dal momento che una definizione richiede l'esibizione del genere entro il quale l'oggetto da definire viene distinto mediante una differenza specifica; ma l'essere, essendo il concetto più generale, non può essere incluso in un genere più ampio. Per giungere al concetto di essere occorre allora percorrere un'altra strada. La domanda sull'essere, come ogni domanda, comporta che ci sia qualcosa che viene cercato (in questo caso l'essere) e qualcos'altro che viene interrogato (ossia un ente), ma ciò che è interrogato sul senso dell'essere non può essere un ente qualsiasi tra gli altri. Infatti, perché sia possibile il problema del senso dell'essere occorre che sia possibile la comprensione dell'essere ; quindi deve esserci un ente, al cui modo di essere appartenga la comprensione dell'essere. Tale ente, che detiene pertanto questo primato tra gli altri enti, è quello che Heidegger chiama esserci (Dasein, 'l'essere qui'), come modo di essere proprio dell'uomo. Heidegger usa questo termine in un significato diverso da Jaspers, per il quale esserci indica non solo l'uomo, ma tutte le cose in quanto semplicemente presenti al mondo. Rispetto agli altri enti, l'esserci ha per Heidegger la peculiarità che ' nel suo essere, ne va di questo essere stesso ', ossia il suo essere non è qualcosa di dato stabilmente, ma è sempre in gioco. Ciò significa che l'esserci si rapporta al proprio essere, è aperto ad esso: avendo una comprensione dell'essere, l'esserci non è semplicemente un ente (ossia, nel linguaggio heideggeriano, non è soltanto ontico), ma ha la prerogativa di essere ontologico, ossia di poter condurre un ricerca esplicita sul senso dell'essere, cosa che gli altri enti non sono in grado di fare. Kierkegaard aveva definito esistenza questo rapportarsi all'essere: per Heidegger l'esistenza è l'essere o essenza dell'esserci. Heidegger asserisce che ' l'esserci comprende sempre se stesso in base alla sua esistenza, cioè alla possibilità che gli è propria di essere o non essere se stesso '. Attraverso l'interrogazione dell'esserci in rapporto al suo essere, si ricercano le strutture fondamentali dell'esistenza: l'indagine che cerca di portare alla luce queste strutture è chiamata da Heidegger analitica esistenziale , antecedente a ogni psicologia, antropologia o biologia. Il metodo da impiegare, secondo Heidegger, deve essere fenomenologico, nel senso già chiarito di ' lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da sé ': si tratta cioè di fare in modo che le strutture dell'esistenza si manifestino alla comprensione propria dell'esserci. Occorrerà, dunque, scegliere modalità di accesso a tali strutture, che consentano all'esserci di mostrarsi da sé, dapprima com'è per lo più, nella sua quotidianità media . L'esserci, come si è visto, è definito dal fatto che per lui ne va sempre del suo essere, cosicchè l'esserci è sempre la sua possibilità, non possiede il suo essere come un proprietà semplicemente presente. Ciò significa che l'esserci può conquistarsi o perdersi: nel primo caso si ha l'esistenza autentica e nel secondo quella inautentica, dove "autentico" e "inautentico" significano letteralmente "appartenente o no a se stesso". Nella quotidianità media, l'esserci si manifesta nel modo dell'inautenticità e quindi, a questo livello, si può pervenire soltanto ad una chiarificazione preparatoria, non ancora ad una risposta circa il senso dell'essere in generale; tuttavia, anche in seno alla quotidianità media e pertanto in maniera inautentica, si manifestano, secondo Heidegger, le strutture dell'esistenza. Infatti, l'esserci si è formato all'interno del modo di comprendere l'essere, che si è consolidato in una tradizione, anche se per lo più questa dimensione storica e tramandata del suo modo di comprendere l'essere resta nascosta all'esserci e non viene tematizzata. Si tratta allora di cogliere l'essere dell'esserci contro la sua tendenza all'inautenticità: l'analitica esistenziale ha, dunque, secondo Heidegger, un carattere violento, in quanto va contro la tendenza dell'esserci nella sua quotidianità a dimenticare o fuggire se stesso. Il primo passo dell'analitica esistenziale consiste nel mostrare qual è la struttura fondamentale dell'esserci nella sua quotidianità media. In questa situazione l'esserci, anziché giungere al possesso di sé, tende a interpretare se stesso a partire dal fatto che per lo più si disperde nella cura del mondo. Per questo aspetto, l'esserci è erede inconsapevole di una tradizione risalente alla metafisica greca, nella quale il senso dell'essere è determinato come ousìa , cioè come sostanza e, quindi, compreso a partire da un determinato modo del tempo, il presente. Ciò significa che il punto di partenza dell' autocomprensione dell'esserci nella sua quotidianità è dato dal mondo, come insieme degli enti semplicemente presenti. L'esserci per lo più tende a comprendere il proprio essere in base agli enti con i quali si rapporta costantemente, ma in tal modo gli rimane nascosto il suo specifico modo di essere. In generale, dunque, l'esserci si configura come essere-nel-mondo , dove essere-nel-mondo significa, più che il semplice trovarsi spazialmente presenti dentro o a contatto con qualcosa, essere presso, abitare, essere familiare con: tutte queste espressioni indicano, secondo Heidegger, modi del prendersi cura (in tedesco Sorge ) del mondo. L'esserci, dunque, non ha un rapporto puramente conoscitivo col mondo, come rapporto tra soggetto e oggetto: su questo punto Heidegger si allontana nettamente da tutte le impostazioni filosofiche, in particolare neokantiane, che avevano assegnato una posizione privilegiata al problema della conoscenza. Il mondo, al quale l'esserci si rapporta nella sua quotidianità media, è chiamato da Heidegger mondo-ambiente: esso è costituito dalle cose intese come utilizzabili, cioè come strumenti, mezzi in vista di qualcos'altro. Questo spiega perché nei confronti del mondo l'esserci abbia non un atteggiamento esclusivamente teoretico, consistente nel vedere e rappresentarsi in maniera puramente disinteressata gli enti che lo popolano, bensì quella che Heidegger chiama visione ambientale preveggente . Questa consiste, infatti, nel prendersi cura pratico delle cose, che, in quanto utilizzabili, si mostrano vicine all'esserci non solo in senso spaziale, ma "a portata di mano" in vista di determinati fini. Quando, invece, l'esserci si limita a osservare e considerare le cose nella loro semplice presenza, si genera l'atteggiamento teoretico, che è dunque soltanto un modo secondario e particolare del prendersi cura del mondo. Il mondo, tuttavia, è costituito non soltanto dalle cose utilizzabili o semplicemente presenti, ma anche da enti che sono tali e quali l'esserci che li comprende, ossia dagli altri uomini, cosicchè l'essere-nel-mondo è anche sempre essere-con (in tedesco mit-sein ) altri. L'esserci ha sempre cura degli altri, anche se di fatto per lo più non se ne cura o crede di poterne fare a meno; anzi per lo più si muove nella soggezione agli altri, non è autenticamente se stesso. Nella quotidianità, infatti, ciascuno è intercambiabile e ciò che domina è il Si ( man ), indeterminato e anonimo, in cui tutte le possibilità si trovano livellate e ricondotte all'uniformità. Nelle pagine che Heidegger dedica a questo tema è avvertibile la critica, diffusa nella Germania del suo tempo, alla massificazione e spersonalizzazione prodotto dalla moderna civiltà tecnica. L'essere autenticamente se stessi equivale, invece, a sottrarsi al dominio del "si" impersonale per aprirsi alle proprio possibilità. Questo avviene nei due modi essenziali dell'esistenza, che Heidegger chiama esistenziali: essi sono il sentirsi situato ( Befindlichkeit ) e il comprendere ( Verstehen ). L'esserci si avverte sempre emotivamente situato nel mondo, gettato in esso, senza che ciò dipenda dalla sua iniziativa. Nel sentirsi un essere-gettato nel mondo , cosa che Heidegger chiama anche effettività, per distinguerla dalla semplice presenza nel mondo, l'esserci incontra se stesso più nella forma della fuga che in quella della ricerca di se stesso. La struttura propria del sentirsi situato viene alla luce nella paura, perché solo l'esserci, per cui ne va del suo essere, può spaventarsi e si sente aperto al rischio. D'altra parte, avvertendosi situato, l'esserci comprende se stesso, anche se tende a reprimere e occultare questa sua comprensione. Questa struttura esistenziale della comprensione è chiamata da Heidegger progetto, nel senso letterale di "gettare avanti"; la comprensione, infatti, progetta l'essere dell'esserci nel suo poter essere, che non è qualcosa di già dato. D'altra parte, progetto non equivale al semplice escogitare piani, perché l'esserci si comprende giò sempre a partire da possibilità date. Quando sviluppa la comprensione, l'esserci giunge all' interpretazione , che consiste nell'appropriarsi di ciò che ha compreso e quindi nell'elaborare el possiblità progettate nella comprensione. Il discorso , a sua volta, è l'articolazione del sentirsi situato e della comprensione. Che carattere assumono nella quotidianità la comprensione, l'interpretazione e il discorso? Heidegger non intende muovere contro la quotidianità e l'esistenza inautentica, a cui essa approda, una critica materialistica; il suo intento è invece di mettere in luce le strutture proprie dell'interpretazione che abitualmente l'esserci dà di sé, entro le quali l'esserci è cresciuto e si è formato e alle quali non può mai definitivamente sottrarsi. La chiacchiera è il modo di essere della comprensione o interpretazione propria dell'esserci nella sua quotidianità, il quale si regola sul si : ' Le cose stanno così perché così si dice '. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza appropriarsi preliminarmente della cosa da comprendere: essa diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto, ma in tal modo l'esserci smarrisce la sua apertura alla possibilità. La tendenza al "vedere", caratteristica della quotidianità, è la curiosità : essa non si prende cura di vedere per comprendere ciò che vede, ma soltanto di vedere, è incapace di soffermarsi e cerca continuamente la distrazione e il nuovo sol ocome trampolino per cercare un altro nuovo e così via. In questa situazione sembra che tutto sia compreso, ma non lo è: l' equivoco è la comprensione dell'esserci fondata nel "si", la quale finisce per non sapere neppure a che cosa si riferisca il "si". Nella connessione di chiacchiera, curiosità ed equivoco si rivela il modo fondamentale dell'essere della quotidianità: Heidegger lo chiama la deiezione dell'esserci, ossia lo scadere dell'esserci al livello di un fatto, il suo disperdersi nel mondo e nella dimensione pubblica del "si". Qui l'esserci vive non come autenticamente se stesso, ma come "si" vive ed è nella tranquillizzante presunzione di possedere e raggiungere tutto. In tal modo l'esserci è nell'inautenticità, la quale tuttavia non è uno stato di fatto, com'è presupposto, invece, dalla dottrina cristiana della corruzione della natura umana dovuta al peccato originale, ma è una possibilità. Proprio in quanto l'inautenticità è una possibilità e non un dato di fatto necessario, ne risulta che l'esserci può anche essere autentico.

ESISTENZA AUTENTICA E TEMPORALITA'
Immedesimandosi al "Si" l'esserci fugge da se stesso e dalla sua possibilità di essere autenticamente se stesso e viene così a privarsi della sua apertura. Questa è invece propriamente caratterizzata dalla situazione emotiva dell' angoscia : come aveva già dimostrato Kierkegaard, a cui Heidegger si richiama palesemente, l'angoscia è diversa dalla paura, perché quel che essa si trova davanti non è mai un ente definito, ma qualcosa di indeterminato. Questo provoca una sorta di spaesamento dal mondo, che appare privo di significato e tale da non poter più offrire nulla, è il nulla . L'angoscia è una situazione rara, ma è in essa che l'esserci si manifesta come essere possibile, sottratto a quello stato di nascondimento, in cui si trova quand'è immerso nel "Si" anonimo, e aperto, invece, alla libertà e alla possibilità di ritrovare se stesso. In quanto aperto a questa possibilità, l'esserci è già sempre proiettato avanti rispetto a sé, cioè si progetta, nel senso letterale del termine. A questo punto, Heidegger può affrontare il problema del poter essere autentico e compiere l'ulteriore passo, che lo condurrà a mostrare che l'essere-nel-mondo è essenzialmente temporale e storico. La cura è la struttura fondamentale dell'esserci e l'aver cura, caratterizzandosi come progetto, comporta un essere avanti a sé, cosicchè nell'esserci c'è sempre qualcosa che ancora manca. Questo vuol dire che l'esserci non può mai esperirsi come un ente totalmente compiuto, ma sempre soltanto come poter essere e può essere autenticamente tale solo ' anticipando costantemente la possibilità estrema e insuperabile ', cioè la morte . Per morte non si deve qui intendere la conclusione della vita: mentre la morte come fatto non è mai la propria morte, dal momento che come fatto essa è l'annichilamento dell'esserci, la morte come possibilità è la possibilità più propria. Nessuno infatti può assumersi il morire di un altro: di fronte alla possibilità della morte l'esserci è insostituibile. La morte è, dunque, per l'esserci la possibilità estrema e assolutamente propria di non poter più esserci: l'esserci non si crea questa possibilità, ma in quanto esiste è già sempre gettato in essa, che gli si rivela nell'angoscia. L'essere-per-la-morte è dunque costitutivo dell'esistenza, ma nell'esistenza quotidiana e inautentica, che tende a tranquillizzare, la morte è considerata un evento noto a tutti (si "muore", appunto) e l'angoscia si banalizza assumendo la forma della paura. Essere-per-la-morte, d'altra parte, non vuol dire realizzare la morte suicidandosi, perché in tal caso l'esserci si priverebbe della sua possibilità più propria, trasformandola in un fatto. Si tratta invece di assumersi con una decisione anticipatrice , la possibilità della morte, mantenendola come possibilità: in tal modo l'esserci si sottrae al "Si" e alla sua dispersione in possibilità puramente casuali, si comprende come un essere finito e si dispone alla scelta delle sue possibilità autentiche. Attraverso l'appello della voce della coscienza l'esserci è richiamato al suo più proprio poter-essere, ma che al suo sentirsi in colpa . Infatti, dal momento che è libero solo scegliendo una possibilità e rinunciando alle altre, l'esserci è caratterizzato costitutivamente da un "non" e pertanto si configura, al tempo stesso, come nullità di se stesso. Per questo egli si sente in colpa e il richiamo della coscienza lo conduce allora a non disperdersi in possibilità inautentiche, ma alla scelta di scegliere se stesso, che Heidegger chiama, con un termine diffuso nella cultura del tempo, decisione: ponendosi in lotta contro la non verità del "si", la decisione mette di fronte alla verità originaria dell'esistenza, nella quale l'esserci è svelato a se stesso nel suo poter-essere autentico. La cura, in quanto struttura fondamentale dell'esistenza, si è così mostrata nella sua autenticità come decisione anticipatrice della morte: il senso di tale cura, secondo Heidegger, è quindi la temporalità . Nell'esistenza inautentica il tempo è concepito come un'infinita successione di "ora", di cui non si può pensare il termine, ma ciò occulta la temporalità autentica. Nell'orizzonte dell'inautenticità, infatti, il futuro è pensato essenzialmente come oggetto di attesa, il passato come oggetto di ricordo e il presente non è l'attimo della decisione, ma poggia soltanto sull'attesa di possibilità che illusoriamente si ritiene che siano svincolate dal passato. Ciò significa che nell'esistenza inautentica il tempo si costituisce soltanto come somma di tre momenti, non come unità. La temporalità autentica, invece, secondo Heidegger, non è un ente: propriamente essa non è, ma "si temporalizza", cioè passato, presente e futuro non sono tre fasi distinte, ma soltanto aspetti diversi di un unico processo di temporalizzazione (Heidegger, lo chiama l' ekstatikòn , che in greco significa l' "andar fuori di sé"). La temporalità autentica rende dunque possibile l'unità dell'esistenza come unità di passato, presente e futuro e non è più pensata privilegiando il presente; anzi il senso primario dell' esistenzialità viene ad essere riposto nell'avvenire, in cui per l'esserci ne va del suo essere. L'esserci è dunque caratterizzato dalla mobilità, ma questa mobilità è diversa dal moto di un ente semplicemente presente all'interno del tempo: essa consiste nello storicizzarsi dell'esserci. La storia non è primariamente quel che è oggetto di una scienza particolare, la storiografia: l'esserci non è temporale perché sta nella storia, ma esiste e può esistere storicamente soltanto perché è temporale nel fondamento del suo essere. Nella concezione ordinaria, per storico s'intende solitamente il passato, in quanto non è più presente o in quanto è ancora presente, ma inefficace o in quanto ancora efficace nel presente: ciò che domina in questa concezione è il riferimento al presente. Storia è invece propriamente, secondo Heidegger, lo storicizzarsi nel tempo dell'esserci esistente: l'esserci no può mai essere passato, perché non può essere un qualcosa di compiuto e definitivo, né una semplice presenza, dato che il suo essere è esistenza e quindi peter-essere. La finitudine, avvertita attraverso l'essere-per-la-morte, sottrae l'esistenza alla molteplicità caotica delle possibilità che si offrono e la pone di fronte alla nudità del suo destino , il quale è lo storicizzarsi dell'esserci che ha luogo nella decisone autentica: l'esserci, libero di fronte alla possibilità della sua morte, si tramanda in una possibilità ereditata e tuttavia scelta, assume il suo passato come determinante per il futuro, cioè come destino, e si mantiene fedele ad esso. Nell'analisi heideggeriana di questi termini è avvertibile il suono di discussioni fiorite nella cultura tedesca, durante e immediatamente dopo la prima guerra mondiale, e guidata dalla preoccupazione per la sorte della nazione e dell'identità tedesca. In questa situazione il tema della morte si era imposto in tutta la sua drammaticità agli intellettuali interventisti, polemici contro le aspirazione borghesi, ritenute tipiche della moderna civiltà industriale, alla sicurezza e alle banalità della vita quotidiana. A questo essi contrapponevano l'esperienza della morte come possibilità suprema, di fronte alla quale si decide di se stessi e si ritrova, al tempo stesso, il legame autentico con la comunità e il popolo al quale si appartiene.
VERITA' E STORIA DELLA METAFISICA
Essere e tempo rimane un'opera non ultimata: ' Il chiarimento della costituzione dell'essere dell'esserci resta soltanto una via: il fine è l'elaborazione del problema dell'essere in generale ' asserisce Heidegger alla fine dell'opera. Heidegger si rese conto di aver chiarito l'essere dell'esserci come temporalità, ma di avere ancora aperto davanti a sé il problema del rapporto tra tempo ed essere. In seguito, egli interpreterà l'interruzione della sua opera nel senso che il pensiero non può venire a capo di questo problema, se continua a impiegare il linguaggio della metafisica tradizionale. Se la temporalità e la storicità sono costitutive dell'esserci, allora ogni ricerca, come possibilità propria dell'esserci, è anch'essa storica: questo significa che la tradizione predetermina sempre in qualche modo la prospettiva entro la quale si pone la domanda sull'essere. La pretesa di Husserl di iniziare radicalmente da zero, partendo dalle cose stesse, appare ad Heidegger un'illusione; bisogna invece procedere alla distruzione della metafisica tradizionale , che pensa l'essere a partire dall'ente, inteso come semplice presenza, per mettere allo scoperto i presupposti rimasti nascosti della sua interpretazione dell'essere. La ricerca di Heidegger successiva ad Essere e Tempo , ha dunque uno dei suoi punti fondamentali nel ripercorrere i momenti cruciali della storia della metafisica. L'essenza della metafisica si rende comprensibile, se si parte dal problema della verità . Già in Essere e Tempo Heidegger aveva dimostrato l'inadeguatezza della concezione tradizionale della verità come corrispondenza tra il pensiero o la proposizione e i fatti a cui essi si riferiscono: questa concezione, infatti, si basa sul presupposto che l'essere sia da intendere come qualcosa di semplicemente presente, il quale può dunque essere rispecchiato nel pensiero o nella proposizione. Ma l'esserci non è semplice presenza, bensì è apertura al suo poter essere autentico: proprio questa apertura rivela la verità nella sua autenticità, che è la verità dell'esistenza . Questa verità non è qualcosa di già dato, ma deve sempre essere strappata dal suo nascondimento: questo secondo Heidegger è implicito nella parola greca alètheia ( alhqeia ) , la quale è tradotta generalmente con "verità", ma significa propriamente "quel che non è celato" (a 'non' + lanqanw 'nascondere'), "quel che è sottratto al velamento che lo nasconde". In Essere e Tempo , però, la verità è ancora concepita soltanto come un modo di essere dell'esserci, che in quanto autentico è nella verità e in quanto non autentico è anche sempre nella non-verità. Il punto di partenza della seconda fase del pensiero heideggeriano consiste invece nel concepire il senso dell'essere come della verità dell'essere , anziché di quell'ente particolare che è l'esserci. Che cosa si deve intendere per "verità dell'essere"? Anche la domanda sulla verità dell'esser dev'essere oggetto di una meditazione storica, per scoprire i presupposti nascosti che hanno determinato le risposte date ad essa. In questo quadro una posizione centrale è occupata, ad avviso di Heidegger, dal pensiero di Platone, nel quale sarebbe intervenuto un mutamento radicale a proposito dell'essenza della verità. A questo tema Heidegger dedica lo scritto La dottrina platonica della verità , pubblicato nel 1942, ma già elaborato in precedenza. Secondo Heidegger i gradi successivi che, nel mito della caverna della Repubblica platonica, l'uomo deve percorrere si distinguono per il modo in cui in ciascuno di essi le cose si mostrano: ciascun grado è contrassegnato da una lotta tra quel che è svelato e quel che continua a rimanere velato. Platone, però, non tiene fermo anche questo aspetto della velatezza, che entra a costituire l'essenza della verità, ma rivolge la sua attenzione solo alla svelatezza, che egli intende come idea. Quel che è vero, cioè quel che è svelato, diventa allora quel che è accessibile nell'apparire dell'idea, cosicchè l'apprendimento e la conoscenza si configurano essenzialmente come un vedere, un conformarsi all'idea. Questo vuol dire che la verità diventa della correttezza dello sguardo rivolto all'idea: tale correttezza consiste nella corrispondenza del conoscere all'oggetto nel suo essere presente. Ma in tal modo la verità abbandona il tratto fondamentale della svelatezza, cioè il suo essere svelamento, ma anche velamento, dal quale deve essere strappata: proprio della verità è infatti, secondo Heidegger, il non darsi mai nella sua totalità e compiutezza. Nella concezione platonica, invece, la svelatezza scivola nei meandri dell'oblìo a favore del solo svelamento e la filosofia diventa metafisica, nel senso etimologico del termine, come sapere orientato verso "quel che è al di là delle cose sensibili"; nel caso di Platone, verso l'essere dell'ente vero e proprio identificato con l'idea. Di qui si sviluppa la metafisica come della onto-teo-logia : la metafisica infatti è ontologia, cioè dottrina dell'essere dell'ente, la quale assume come tratto fondamentale dell'essere la sua presenza costante. Cercando l'essere che meglio soddisfa a questa condizione, essa rimanda a un ente supremo, Dio, inteso come fondamento di ogni ente: per questo aspetto dunque la metafisica è teologia, ma anche come teologia essa continua a pensare l'essere come un ente semplicemente presente, anche se superiore a tutti gli altri. La conseguenza è che essere ed ente non sono distinti in modo che l'essere possa essere problematizzato nella sua verità. La metafisica, infatti, non può pensare una differenza ontologica tra essere ed ente, ma crede di poter ricondurre tutto l'ente ad un fondamento ultimo. Dalla concezione platonica della verità come correttezza scaturisce inoltre la conseguenza che il luogo in cui si decide della verità è il pensiero, non l'essere, e, dal momento che l'idea è intesa da Platone come il valore, il pensare diventa pensare secondo valori, ma in tal modo si pongono le radici del della soggettivismo e dell' della umanismo , che rientrano a pieno titolo nell'ambito della metafisica. Il mutamento nell'essenza della verità determina, secondo Heidegger, tutta la metafisica occidentale. In quanto insiste sul manifestarsi dell'ente e pensa l'essere come ente semplicemente presente, la metafisica è, dunque, la storia dell' della oblìo dell'essere a favore di un ente. La metafisica è, dunque, preda di un errore, ma non si tratta di un errore dovuto all'iniziativa umana e pertanto correggibile: esso è invece un della evento , e precisamente l' evento, in cui resta nascosto il fenomeno originario della verità. Questo consiste nell'essere svelamento, ma anche al tempo stesso velamento. Questo vuol dire che, nell'accadere storico, l'essere non appare mai nella sua totalità, non si esaurisce mai in quel che di volta in volta accade: nel momento in cui si manifesta, l'essere anche si sottrae, cioè effettua un' epochè , una sospensione. Questo manifestarsi e, insieme, sottrarsi dell'essere determina quella che Heidegger chiama appunto un' della epoca . Ogni epoca risulta dunque caratterizzata dalla compresenza di svelamento e velamento: tale è anche l'epoca della metafisica che da Platone arriva sino a noi. Secondo Heidegger, la filosofia di Nietzsche rappresenta il punto in cui la metafisica giunge a compimento: essa pertanto consente di scoprire l'essenza della metafisica stessa e, quindi, anche i tratti costitutivi della nostra epoca. Su Nietzche, Heidegger torna a riflettere a più riprese, in lezioni e scritti, per una decina di anni, dal 1936 al 1946: il frutto di queste riflessioni sarà raccolto in due volumi intitolati Nietzche e pubblicati nel 1961. Con il detto di Nietzche "Dio è morto" giunge al termine quel che era cominciato con Platone secoli addietro, cioè la fondazione della verità in un ente supremo. Per Nietzche, nichilismo è non soltanto il diventar privo di valore dei valori tradizionali, ma soprattutto il platonismo, che ripone il vero nell'idea sovrasensibile e in tal modo svaluta e indebolisce la vita corporea. Sulla linea del platonismo Nietzsche dice che si collocano il giudaismo e il cristianesimo, i quali mettono l'ente nelle mani di Dio e così facendo lo sottraggono alla presa e al dominio dell'uomo; in opposizione ad essi, Nietzsche pensa l'essere come volontà di potenza, che mira ad incrementarsi costantemente e così ritorna eternamente, in un divenire incessante che porta ad innalzarsi sopra di sé in vista del proprio essere. Crollata la distinzione platonica tra sovrasensibile e sensibile, la volontà di potenza può trovare solo in se stessa la propria giustificazione e così essa rappresenta la vita nella sua verità. Stando ad Heidegger, però, anche Nietzsche, pensando la volontà di potenza come quel che è costante e l'essere nella figura del superuomo, rimane nell'ambito della metafisica, portando il soggettivismo alle sue estreme conseguenze: l'essere, il fondamento di tutto e di ogni valore, è infatti inteso come la soggettività incondizionata, la volontà di potenza che si vuole come eternamente ritornante e per questo si rende permanente nella sua presenza. Dunque per Heidegger anche la filosofia di Nietzsche va annoverata a pieno titolo nel nichilismo, cioè nella storia in cui ' dell'essere non ne è più niente '. Il dominio del mondo rappresenta il compimento della storia della metafisica: per Heidegger, con Nietzsche arriva a manifestarsi il tratto basilare dell'epoca corrente come lotta per il dominio della terra. Heidegger effettua queste riflessioni negli anni in cui avverte l'instaurarsi di una lotta planetaria, in cui la Germania è stretta fra la morsa del comunismo, da una parte, e delle democrazie occidentali, dall'altra parte. Nel discorso rettorale del 1933, Heidegger aveva collegato alla rivoluzione nazionalsocialistica la speranza che i Tedeschi potessero ritrovare il cammino ' verso la loro destinazione ' tramite una decisione comune; in un secondo tempo, però, egli riconobbe nel nazismo (pur non rinnegandolo mai) alcuni aspetti bivalenti: da un lato, il senso del ritorno alla terra patria (cantato da Hölderlin), ma, dall'altro lato, anche un grande impiego della tecnica e un'organizzazione totale della vita. Sotto questo profilo anche il nazismo rimaneva ai suoi occhi nell'ambito della metafisica, anche se il suo imperare avrebbe potuto allestire l'avvento di una nuova epoca. L'epoca della metafisica raggiunge l'apice con il dominio della tecnica ; il mondo attuale, spiega Heidegger, è caratterizzato dal fatto che la scienza e la tecnica sono talmente intrecciate con la vita che questa non è più possibile nella sua immediatezza, ma soltanto tramite esse. Dopo la guerra, Heidegger asserirà che nel mondo attuale tutto quel che è, è massificato per via della riduzione planetaria delle distanze e della diffusione dei mezzi tecnici di comunicazione e si presenta sotto la terribile minaccia di una distruzione totale da parte della bomba atomica. La domanda che egli si pone in questo panorama riguarda pertanto l'essenza della tecnica. Generalmente la tecnica è intesa come strumento in vista di uno scopo e, dunque, come tipica di quel modo specifico dell'agire umano, che consiste nel produrre . Questo vuol dire, in termini heideggeriani, che il produrre porta e fa apparire l'ente della velatezza nella svelatezza. Ma la verità è svelamento, ovvero velatezza e svelatezza ad un tempo, cosicchè pure la tecnica, in quanto produrre, rientra a pieno titolo nell'ambito della verità. E del resto questo era il modo in cui i Greci concepivano la tecnica, ma anche la tecnica del mondo moderno è un modo dello svelamento, con la differenza che in essa la natura appare come deposito di risorse energetiche di cui si può usufruire. Nella tecnica moderna, quindi, mondo e impianto, risultante da una im-posizione, formano una cosa sola. Nell'impianto l'essere dell'ente coincide con il suo essere rappresentabile e impiegabile e questo vuol dire che esso è reso presente e disponibile alla conoscenza e alla prassi umana. L'impianto dà quindi all'uomo la possibilità di aumentare il proprio valore fino a configurarsi come signore della terra, ma così resta dimenticato l'essere nella sua verità, cioè come evento che, nello svelarsi, al tempo stesso si nasconde e si sottrae sempre ad una totale disponibilità; nella tecnica moderna arriva all'apice la nullità dell'essere e del mondo , ridotto ad una somma di enti meramente presenti e disponibili alla manipolazione umana: essa rappresenta quindi il nichilismo come esito ultimo dell'epoca della metafisica. Nel mondo della tecnica come impianto l'uomo perde la sua essenza, che risiede nel salvaguardare la verità e metterla al riparo nella sua inesauribilità. Ben lontana dal rappresentare il disincanto del mondo (come aveva voluto Weber), la tecnica moderna assoggetta il mondo col suo incantesimo e per questo motivo Heidegger ravvisa in essa un pericolo per l'umanità, soprattutto in quanto genera l' illusoria impressione che non sussista pericolo alcuno. Questo non vuol dire però che la salvezza debba essere ricercata al di fuori della tecnica, in un ricordo tanto nostalgico quanto assurdo ad una situazione pretecnologica; piuttosto, come aveva spiegato Hölderlin, ' dove è il pericolo, cresce anche ciò che salva '. In altre parole, per Heidegger, proprio quando il pericolo si rivela come tale, allora può esserci la svolta e si può essere richiamati al fatto che l'essere non è mai del tutto disponibile all'uso da parte dell'uomo; in virtù di questo richiamo, la tecnica può cessare di essere praticata in modo cieco o come semplice strumento di dominio della natura e l'uomo può acquisire l' abbandono necessario per adoperare gli strumenti della tecnica, ma in modo da rendersi libero per il mondo in quanto non riducibile ai soli usi della tecnica; si possono in questo modo porre le condizioni per un possibile nuovo avvio rispetto all'epoca della metafisica, ormai terminata.

PENSIERO E LINGUAGGIO
La domanda che sta al centro della riflessione dell'ultimo Heidegger è: come si può trovare il cammino che porti ad un altro inizio, non più legato all'epoca della metafisica e al suo modo di pensare l'essere? In altre parole, Heidegger si chiede come possa avvenire un oltrepassamento della metafisica. Chi si prepara all'attesa di un altro inizio è in qualche modo straniero nel mondo moderno, caratterizzato dall'imperare dell'uomo su tutti gli altri enti. Per questo motivo, nell'immediato dopoguerra, nella Lettera sull'umanismo Heidegger respinge l'idea di essere qualificato come esistenzialista, visto che l'esistenzialismo, nella formulazione sartreiana, è solamente una delle forme del soggettivismo moderno e, dunque, appartiene del tutto all'epoca della metafisica. La grande svolta, dopo Essere e Tempo , sta in una ripresa del problema dell'essere, ma senza più adottare l'esistenza umana come il luogo privilegiato in cui è chiarificabile il senso dell'essere; la svolta è caratterizzata dal fatto che l'uomo non dispone dell'essere, ma è pastore dell'essere : la cura dell'uomo consiste nel custodire l'essere. In questo modo il baricentro si sposta dall'esistenza alla verità dell'essere, che di volta in volta avviene come insieme di svelamento e velamento: l'essere si configura come evento . La svolta determina dunque un passaggio dall' oblìo dell' essere, proprio della metafisica, alla custodia della sua essenza, ma questo non vuol dire che si arrivi ad un fondamento ultimo e definitivo, in quanto il velamento che appartiene all' essenza della verità e, quindi all' oblìo ad esso connesso non sono mai definitivamente annullati. Se l' oblìo della verità dell' essere appartiene all' essenza della verità, in quanto insieme di svelamento e velamento, il compito consisterà piuttosto nel ripercorrere la storia della metafisica per pensare quel che è rimasto velato e, dunque, non non pensato in quel che è detto nella metafisica. Questo spiega perchè la produzione dell' ultimo Heiddeger sia un continuo confrontarsi con i testi canonici della tradizione filosofica a partire dagli antichi greci, in particolare con i primi, che egli chiama "pensatori" per distinguerli dai filosofi dell' epoca della metafisica, che inizia con Platone. Il superamento della metafisica consiste, infatti, nell' andare verso l' elemento iniziale che regge tutto il pensiero della metafisica, ma che in esso non è pervenuto a farsi linguaggio: il pensiero si fa dunque interpretazione storica, al fine di recuperare in un altro inizio quel che è rimasto dimenticato e occultato in quell' inizio. Anche nell' interpretazione la verità dell' essere è esperita non come qualcosa di meramente presente e, quindi del tutto disponibile: l' interpretazione non si traduce dunque mai in una ricostruzione storiografica oggettiva con pretese di scientificità, ma è esperita come evento di volta in volta storicamente variabile e inesauribile. La condizione perché abbia luogo questa esperienza consiste nel disporsi di fronte a quel che è già stato pensato, ma considerandolo non fissato e irrigidito una volta per tutte, ma come qualcosa su cui bisogna ancora riflettere, in modo che ne possa emergere quel che è rimasto impensato, ma meritevole di essere pensato. In tal modo s' intreccia un dialogo con la tradizione, a partire dal luogo che si occupa nella tradizione stessa, ossia condizionati dalla pre-comprensione, che determina storicamente quel che è da interpretare e i presupposti che guidano l' interpretazione. Il che vuol dire che non si può mai raggiungere una risposta e una visione definitiva e totale, in quanto di volta in volta si occupa sempre e soltanto un luogo limitato e circoscritto nella storia della verità, in cui l' essere si mostra, ma senza che mai si possa disporre completamente di esso. Il pensiero, che esperisce la storia dell' essere e in tal modo s' inserisce nella storia della sua verità, si chiarisce allora come pensiero dell' essere , nel senso che pensiero e essere si appartengono l' uno all' altro e si manifestano nella loro identità come evento. Il pensiero è tale solo se è aperto all' essere e, quindi, nella sua essenza, esso appartiene all' essere: l' uomo appartiene all' evento della verità come svelatezza, di cui egli non può mai disporre come si trattasse di una cosa. Del resto, l' essenza dell' uomo, come aveva insegnato Cartesio, è pensiero e, in questo senso, nella sua essenza esso è rimemorazione dell' essere. Quando si parla di di pensiero, Heidegger non intende la costruzione di ragionamenti o o di teorie: la logica, a suo parere, non esaurisce le possibilità del pensiero , anzi alla base di essa è la decisione di assumere la correttezza come criterio della verità e pertanto anche la logica appartiene all' epoca della metafisica. Pensare non è, per Heidegger, qualcosa di puramente teorico e disinteressato, separato dalla pratica, ma è il mondo originario di custodire la verità e di abitare il mondo Per custodire la verità è essenziale il linguaggio, ma anche per comprendere l' essenza del linguaggio bisogna prendere le distanze dal modo metafisico di concepirlo. Tradizionalmente il linguaggio è considerato soltanto in termini di comunicazione verbale, come un ente che ha la proprietà di essere segno o uno strumento per informare sugli enti e, in tal modo metterli a disposizione dell' uomo; in questo orizzonte si fa consistere il dire nel prendere qualcosa come costantemente presente, in modo da poter tornare costantemente su esso. Ma in tal modo, stando ad Heidegger, l' essere continua a rimanere celato, non è propriamente portato al linguaggio, che è l' evento in cui l' essere e il mondo si danno storicamente all' uomo. L' uomo, infatti, non crea il linguaggio, ma nascendo trova già sempre il linguaggio, che è la casa dell' essere ", il luogo in cui le cose si mostrano all' uomo. ' Il linguaggio è ad un tempo la casa dell'essere e la dimora dell'essere umano. Solo perchè il linguaggio è la dimora dell'essenza dell'uomo, le umanità storiche e gli uomini possono non essere di casa nel loro linguaggio, cosicchè questo diviene per loro l'abitacolo delle loro macchinazioni '. In questo senso, proprio in quanto predeterminato dal linguaggio in cui storicamente via via si trova, il parlare dell' uomo poggia sull' ascolto e appropriazione di quel che è detto nel linguaggio: propriamente non è mai l' uomo che parla, ma il linguaggio stesso, che però ha sempre a che fare con l' uomo e dispone dell' uomo, facendolo essere quel che è. Nel linguaggio è rivolto un appello all' uomo, cosicchè il pensiero diventa ascolto del linguaggio, un porsi " In cammino verso il linguaggio ", come suona il titolo dell' opera pubblicata da Heidegger nel 1959. Se il linguaggio giunge a parola, allora è esperito come "la casa dell' essere", il luogo dell' accadere della verità, in cui l'essere è custodito e protetto nel suo manifestarsi e nascondersi e in cui l' uomo può trovare il cammino verso la sua essenza che è il pensiero: è nel linguaggio, infatti, che si decide sempre il destino e si prepara una nuova epoca, in quanto ogni mutamento che avviene nelle parole essenziali del linguaggio determina, al tempo stesso, il mutamento del modo in cui le cose e il mondo si mostrano e sono per l' uomo. Ogni accadere della verità è, infatti, essenzialmente un accadere linguistico : per questo secondo Heidegger, è opportuno preservare la forza delle parole più elementari della lingua greca e tedesca (le lingue per eccellenza del pensiero, a suo parere), le quali hanno determinato la storia del pensiero occidentale. I modi in cui il linguaggio parla sono molteplici: il pensiero è uno di questi, ma accanto ad esso c' è, secondo Heidegger, la parola poetica . Abitualmente pensare e poetare sono radicalmente distinti; in realtà secondo Heidegger, essi sono strettamente congiunti, anche se rimangono diversi per la maniera di dire propria di ciascuno. Il pensatore, infatti, "dice l' essere", cioè porta ad espressione il non detto tramite quel che è detto nel pensiero della metafisica, mentre il poeta " nomina il sacro ", vale a dire che inventa un nuovo linguaggio e in tal modo inaugura una nuova apertura dell' essere, preparando l' avvento degli dei, che nell' epoca attuale, come aveva spiegato Hölderlin, "hanno abbandonato la terra". Pensare e poetare, però, sono imparentati fra loro, in quanto entrambi prendono congedo da quel che è abituale, per volgersi a ciò che è rimasto non detto e che è meritevole di essere detto nel futuro. Per questo Heidegger torna più volte a esercitare il suo pensiero sui versi di Trakl, George e soprattutto di Hölderlin. Con questi poeti egli si pone in cammino, cercando di far riaffiorare quel che è rimasto non pensato e quindi anche i presupposti non ancora pensati, che hanno determinato il modo di parlare dell' epoca della metafisica. Per questa via si può fare esperienza della verità come cammino che non giunge a compimento, cosicchè Heidegger può presentarsi come un " viandante diretto nelle vicinanze dell' essere ". Un pensatore, che è in cammino e non è giunto nè può giungere alla meta, non ha dunque dottrine da comunicare e trasmettere , ma può soltanto indicare, a sua volta, itinerari possibili e così preparare l' avvento di una nuova epoca. Del resto all' edizionedizione delle sue Heidegger stesso appose il motto: "Cammini, non opere".

RIASSUNTO DI ESSERE E TEMPO
Essere e Tempo I
Domanda sull'essere. Heidegger si pone la domanda "cos'è l'essere?". In tal domanda possiamo individuare un cercato (ciò che si domanda), un ricercato (ciò che si trova), e un interrogato (ciò a cui si domanda); il nostro cercato è l'essere, il nostro ricercato è il senso dell'essere, l'interrogato non può che essere un ente, in quanto l'essere è sempre di un ente; questo ente è l'esserci dell'uomo, poiché è costitutivamente apertura all'essere, dunque ne ha sempre una comprensione preconcettuale. Interrogare l'esserci significa studiare le strutture del suo modo d'essere, cioè l'esistenza.
Esistenza. L'esistenza è una possibilità di rapporti che l'uomo può determinare, è trascendersi, progettarsi.
Comprensione ontica ed ontologica. L'uomo posto di fronte alle scelte che deve compiere, ha dapprima una conoscenza ontica del mondo, cioè lo assume come dato, poi però riflettendo si perviene ad una conoscenza ontologica cioè delle strutture dell'esserci che danno un senso al mondo.
Esserci. L'analitica dell'esserci non è studiare il soggetto invece dell'oggetto, poiché l'esserci è costitutivamente apertura al mondo e comprensione di esso. L'esserci è essere-nel-mondo, rapporto con esso, e l'esserci è la totalità del rapporto, non solo un polo di essa.
Mondo. il mondo in cui l'esserci è, per Heidegger, non è né l'insieme degli enti intramondani, né una cornice che li circonda, ma è il campo d'apparizione degli enti che accompagna la comprensione; il mondo è un esistenziale, cioè una struttura dell'esserci, non un ente esso stesso.
Essere-nel-mondo. L'essere dell'esserci è essere-nel-mondo, il che significa prendersi cura degli enti, utilizzarli e maneggiarli, progettare trascendendoli per realizzare un progetto che fa capo all'esserci stesso.
Enti. Gli altri enti dunque hanno il loro essere nella loro utilizzabilità da parte dell'esserci. Fra l'altro, la semplice-presenza degli enti, cioè il fatto di prenderli come dati, è anche essa una forma di utilizzo, utilizzo per il puro conoscere.
Il prendersi cura ha una circospezione, cioè una precomprensione dei rimandi degli enti fra loro: un ente rimanda sempre ad un altro e lo significa in rapporto ad un fine ultimo; tutti questi rimandi fanno capo all'esserci, , il quale ha una precomprensione della totalità dei rimandi, totalità che costituisce il mondo.
Coesistenza. Rispetto agli altri, l'esserci ha cura di essi, e questo può darsi in due modi: o togliere loro le cure, o aiutarli a prendersi cura delle loro cose.
Modi di essere-nel-mondo. L'uomo si trova in una situazione affettiva, nella quale sente di essere-gettato, sente la sua fatticità, ed è una modalità passiva. Poi è nel comprendere, cioè nel progettare; infine è nel parlare.
Esistenza inautentica. Alla base di questa c'è una comprensione ontica, che prende il mondo come dato. È l'esistenza del Si (si dice, si fa), l'esistenza in cui uno è tutti e nessuno, in modo fittizio e convenzionale. Questa esistenza è determinata dalla chiacchiera (il linguaggio che originariamente svela l'essere si banalizza), dalla curiosità (la ricerca del nuovo per l'apparenza visibile), dell'equivoco (non si capisce chi è il "si dice").
Deiezione. La deiezione è quella che permette all'uomo, avendo commerci coi fatti, di ritenersi un fatto, poiché si sente un essere-gettato; la situazione emotiva, che per natura fa sentire il proprio essere gettato, lo fa sentire abbandonato a ciò che è.
Cura e circolarità della Cura. La Cura è la totalità delle strutture dell'esserci, che si prende cura e ha cura. La struttura di questa cura è circolare; infatti mentre da una parte progetta in avanti, nel futuro, dall'altra la situazione emotiva gli fa sentire la propria gettatezza che lo fa tornare indietro.
Essere e Tempo II
Morte. L'esserci è determinato dall'incompiutezza, dalla mancanza. Fra ciò che manca c'è anche la sua fine, la morte. La morte non va concepita in modo epicureo come scomparsa dell'io, né in modo inautentico come fatto. La morte è una possibilità dell'esserci, è la possibilità più propria (concerne l'essere stesso), incondizionata (l'uomo vi si trova davanti da solo), insormontabile (si eliminano tutte le altre possibilità), certa.
Con la anticipazione della morte, l'uomo comprende autenticamente sé stesso, ma ha anche la situazione emotiva dell'angoscia, che lo pone di fronte al nulla della morte, che è possibilità dell'impossibilità di possibilità.
Essere-per-la-morte. La morte non va rifuggita, ma affrontata con la decisone anticipatrice di essa: non è il suicidio o l'attesa (forme di realizzazione che tolgono il carattere di possibilità), ma è tenere presente che questa possibilità c'è sempre: così l'uomo si considera come poter-essere e vede le cose come possibilità, vede la sua possibilità di realizzarsi.
Voce della coscienza. Quello che porta l'uomo alla decisione anticipatrice e all'inizio della vita autentica è la voce della coscienza che lo richiama alla sua nullità. L'esserci è nullità: sia perché è fondamento di sé, ma essendo gettato, è infondato; sia perché nella scelta nullifica altre possibilità; sia perché sarà nullificato dalla morte. L'esserci è il nullo fondamento di un nullificante. Tale nullità non è privazione ma è il nulla assoluto che precede tutto. La voce della coscienza richiama a tale nulla e spinge a sceglierlo, cioè a scegliere la morte, per progettarlo.
Temporalità. La Cura, cioè l'essere dell'esserci, è temporalità. Il progetto è il futuro, l'essere-gettato è il passato e la deiezione è il presente; si parla di essere-avanti-a-sé, di essere-stato e di essere-presso. Questa temporalità dell'essere ha poi originato la temporalità della progettazione, quella ordinaria.
Storia. L'esserci, è storicizzarsi, è determinare mondi storici nel lasso di tempo fra la vita e la morte; è progettare, è tornare indietro alle possibilità ricevute in eredità, e tramandarne di nuove.
Circolarità di vita autentica ed inautentica e differenze con la circolarità della Cura. Un esserci può passare tutta la vita nell'esistenza del Si o percorrere un circolo fra vita autentica ed inautentica. L'esistenza è possibilità, ma le possibilità sono istituite dall'uomo; quindi quando ci si chiede il proprio senso, o lo si cerca nel mondo (valore dell'universo all'interno del quale io mi trovo), o in me stesso come dato (io padrone di me faccio delle scelte perché ho un valore di me intrinseco). L'esserci si sente gettato quando capisce che il mondo non ha senso e nemmeno lui stesso; ma sentendosi gettato, sostituisce un progetto assolto, un valore assoluto, un senso assoluto con un altro di assoluto, ma in questo modo non entra affatto nella vita autentica. Questa circolarità della Cura è ben diversa dalla circolarità di vita autentica-vita inautentica. Essere-per-la-morte non significa sentirsi gettato, ma significa considerare che tutte le scelte non sono assolute ma destinate a essere superate; l'uomo deve scegliere con una riflessione sulla morte, deve pensare che quello che sceglie non va elevato a valore assoluto. Tuttavia, in questa situazione, rischia di rimanere paralizzato, perché nulla assurge ad assoluto; allora cade nell'errore opposto, cioè progettandoti considera il suo progetto come un assoluto, ma ciò è necessario, poiché per fare qualcosa bisogna crederci. In questo modo però si eleva una scelta a valore assoluto, e così ricadi nella vita inautentica.
Il problema della terza sezione di Essere e Tempo
Il rovesciamento. Heidegger, una volta evidenziato che la temporalità era il senso dell'essere dell'esserci, avrebbe dovuto vedere l'essere in quanto tale e la sua temporalità; dopo aver studiato il rapporto dell'esserci con l'essere, avrebbe dovuto studiare il rapporto dell'essere con l'esserci. Quindi non si trattava più di andare dall'ente all'essere come aveva fatto finora e come avevano fatto i metafisici tradizionali, poiché in questo modo l'essere risulta sempre in misura dell'ente. Heidegger doveva andare dall'essere all'ente. Ma, appunto, questo era un processo che la metafisica non aveva mai fatto, e dunque Heidegger non aveva la terminologia adatta al percorso che si riproponeva.
Verità. L'essere per Heidegger è infatti qualcosa che mette in luce gli enti, che ne fa da sfondo. L'essere è verità, ma non come adaequatio rei et intellectus , cioè uguaglianza di essere e verità, fondando l'essere sulla verità; la verità per Heidegger è aletheia , disvelamento, apertura. La verità si disvela, e disvelandosi si apre, cosicché in essa uomo ed enti si possono incontrare. Ma se è disvelamento, c'è anche una parte celata: l'essere stesso, che è niente (= non-ente), implica una parte negata, nascosta. Si capisce perché Heidegger parli di verità chiaroscurale.
Ontologia. Heidegger vuole fare dell'ontologia, cioè vuole esporre il pensiero dell'essere, il pensiero che viene pensato dall'essere, il suo disvelamento. Le strutture esistenziali, riferite prima all'esserci, andranno all'essere. L'esserci ora potrà conoscere ma solo perché è in un mondo che fa capo all'essere e in cui ci sono altri enti illuminati dall'essere; l'esserci deve dunque aprirsi all'essere, abbandonarvisi, e interpretarsi come appartenente all'essere; ma l'essere ha bisogno dell'uomo come termine del suo disvelarsi; l'uomo è il pastore dell'essere, custode della sua verità rivelata.
Critica alla metafisica
Storia. Per Heidegger l'essere, come l'esserci, si storicizza nella forma dell'invio; l'uomo è sempre rinviato ad un mondo storico che ha già una sua comprensione dell'essere. La successione dei mondi è la storia dell'essere; ma tale storia è fatta di epoche, cioè di momenti di sospensione del disvelamento dell'essere. L'essere è evento, poiché si storicizza, e l'evento di questo non-disvelamento, di questo oblio dell'essere nel mondo occidentale è la metafisica.
Metafisica. La storia della metafisica è storia dell'oblio dell'essere. La metafisica e il suo oblio dell'essere è il corrispondente dell'alienazione di Marx, della reificazione di Lukács, cioè è la causa dello scadimento della società occidentale. La metafisica, più in particolare, come oblio, è oblio della differenza ontologica fra essere ed ente; differenza di cui si è tenuto conto, che ha operato, ma mai fatto oggetto di attenzione. Heidegger vuole superare la metafisica tornando alla verità chiaroscurale dell'essere.
Storia della metafisica. Dapprima i metafisici hanno stabilito l'essere come essere oggettivo, poi hanno posto l'uomo al punto massimo, poi hanno reso l'oggettività un prodotto del soggetto, e infine l'uomo è stato elevato ancora più in alto, spezzando ogni legame colla realtà. La metafisica comincia con Platone, il quale nasconde il carattere chiaroscurale della verità e la definisce conformità intelletto-oggetto. Con Cartesio l'essere-vero è certo per il soggetto, poiché il pensiero viene assolutizzato. Hegel riconduce tutto allo Spirito. Nietzsche infine parla di volontà di potenza che esaurisce tutta la realtà; Nietzsche fa metafisica sbagliata (a differenza di Heidegger che fa una metafisica più corretta), poiché in lui non c'è esistenzialismo, non c'è uno scarto fra essere ed esserci, ma la volontà di potenza viene posta come assoluto. Dopo Nietzsche la metafisica non può più espandersi.
Tecnica
La tecnica per Heidegger è il compimento della metafisica, poiché la tecnica ritiene l'uomo capace di utilizzare tutto l'ente, fino in fondo (imposizione). Ma la stessa imposizione è svelamento dell'essere.
Opera d'arte
Un'opera d'arte non è un ente intramondano nella rete dei rimandi, ma ente che dischiude un suo mondo, istituisce un mondo di valori e di significati, che provengono dalla materialità fisica della terra. La terra è il tratto di chiusura implicato in un'apertura, ma è una chiusura che contiene molti altri significati per epoche e culture successive.
Linguaggio
La poesia è un arte molto importante, poiché si avvale della parola, cosa che schiude mondi nuovi. Il linguaggio è la casa dell'essere, perché l'incontro degli enti può avvenire solo col linguaggio. Però non si può parlare del linguaggio: infatti, parlando del linguaggio siamo già in esso, che ci ha preceduto. Esiste una circolarità ermeneutica fra uomo e linguaggio: infatti, usare il linguaggio per parlare di qualcosa significa che già abbiamo una comprensione di quel qualcosa come un mondo, e la comprensione non può avercela fornita che il linguaggio. Tale circolarità si articola come chiamata e ascolto: il linguaggio che pensiamo di usare, in verità viene prima di noi, poiché senza di esso nemmeno possiamo pensare, dunque essere uomini.

L'ESSERE-PER-LA-MORTE
Introduzione
"Benché la rinascita della 'metafisica' sia considerata una conquista del nostro tempo, tuttavia il problema dell'essere è purtroppo dimenticato". Così inizia l'opera più famosa di Heidegger, Essere e tempo. Heidegger imposta la questione del problema dell'essere - che considera "oscura e aggrovigliata" -, indagando e analizzando "quell'ente che noi che cerchiamo, già siamo". La metafisica si presenta nel primo Heidegger come analisi dell'Esserci, cioè di quell'essere, appunto, "che noi stessi già siamo, e che ha, fra le altre possibilità, quella del cercare". Come viene detto in questo passo, l'Esserci è caratterizzato, nel suo essere-nel-mondo, dall'essere-per-la-morte. Se l'Esserci è definito dalla possibilità di essere, la morte gli si presenta come il limite e la negazione di questa possibilità e gli chiede di accettare l'essere per la morte come "orizzonte in cui si iscrive la sua vita". Il "Si muore" cerca di esorcizzare l'angoscia davanti alla morte, di tranquillizzare gli uomini, ma Heidegger considera inautentico questo approccio all'essere-per-la-morte, che, invece, richiede all'uomo di progettarsi sapendo quale è la possibilità estrema che gli appartiene. Sapendo che non può solidificarsi su nessuna delle situazioni esistenziali raggiunte.
Testo di Heidegger
La morte sovrasta l'esserci. La morte non è affatto una semplice presenza non ancora attuatasi, non è un mancare ultimo ridotto ad minimum, ma è, prima di tutto, un'imminenza che sovrasta. Ma all'esserci, come essere-nel-mondo, sovrastano molte cose. Il carattere d'imminenza sovrastante non è esclusivo della morte. Un'interpretazione del genere potrebbe far credere che la morte sia un evento che s'incontra nel mondo, minaccioso nella sua imminenza. Un temporale può sovrastare come imminente; la riparazione d'una casa, l'arrivo d'un amico, possono essere imminenti; tutte cose, queste, che sono semplici-presenze o utilizzabili o compresenze. Il sovrastare della morte non ha un essere di questo genere. [...] La morte è una possibilità di essere che l'esserci stesso deve sempre assumersi da sé. Nella morte l'esserci sovrasta se stesso nel suo poter-essere più proprio. In questa possibilità ne va per l'esserci puramente e semplicemente del suo essere-nel-mondo. La morte è per l'esserci la possibilità di non-poter-più-esserci. Poiché in questa possibilità l'esserci sovrasta se stesso, esso viene completamente rimandato al proprio poter-essere più proprio. In questo sovrastare dell'esserci a se stesso, dileguano tutti i rapporti con gli altri esserci. Questa possibilità assolutamente propria e incondizionata è, nel contempo, l'estrema. Nella sua qualità di poter-essere, l'esserci non può superare la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell'esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile. Come tale è un'imminenza sovrastante specifica. [...] Questa possibilità più propria, incondizionata e insuperabile, l'esserci non se la crea accessoriamente e occasionalmente nel corso del suo essere. Se l'esserci esiste, è anche già gettato in questa possibilità. [...]. L'esser-gettato nella morte gli si rivela nel modo più originario e penetrante nella situazione emotiva dell'angoscia. Un'angoscia davanti alla morte è angoscia davanti al poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile. [...] L'angoscia non dev'essere confusa con la paura davanti al decesso. Essa non è affatto una tonalità emotiva di 'depressione', contingente, casuale, alla mercé dell'individuo; in quanto situazione emotiva fondamentale dell'esserci, essa costituisce l'apertura dell'esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine. Si fa così chiaro il concetto esistenziale dei morire come esser-gettato nel poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile, e si approfondisce la differenza rispetto al semplice scomparire, al puro cessare di vivere e all'esperienza vissuta dei decesso. [...] Un'interpretazione pubblica dell'esserci dice: "Si muore"; ma poiché si allude sempre a ognuno degli Altri e a noi nella forma dei Si anonimo, si sottintende: di volta in volta non sono io. Infatti il Si è il nessuno. [...] Il morire, che è mio in modo assolutamente insostituibile, è confuso con un fatto di comune accadimento che capita al Si. Questo tipico discorso parla della morte come di un "caso" che ha luogo continuamente. Esso fa passare la morte come qualcosa che è sempre già "accaduto", coprendone il carattere di possibilità e quindi le caratteristiche di incondizionatezza e di insuperabilità. Con quest'equivoco l'esserci si pone nella condizione di perdersi nel Si proprio rispetto al poter-essere che più di ogni altro costituisce il suo se-Stesso più proprio. Il Si fonda e approfondisce la tentazione di coprire a se stesso l'essere-per-la-morte più proprio. Questo movimento di diversione dalla morte coprendola domina a tal punto la quotidianità che, nell'essere-assieme, "i parenti più prossimi" vanno sovente ripetendo al "morente" che egli sfuggirà certamente alla morte e potrà far ritorno alla tranquilla quotidianità del mondo di cui si prendeva cura. Questo "aver cura" vuol così "consolare il morente". Ci si preoccupa di riportarlo nell'esserci, aiutandolo a nascondersi la possibilità del suo essere più propria, incondizionata e insuperabile. Il Si si prende cura di una costante tranquillizzazione nei confronti della morte. In realtà ciò non vale solo per il "morente" ma altrettanto per i consolanti. [...] Il Si non ha il coraggio dell'angoscia davanti alla morte. [...] Nell'angoscia davanti alla morte, l'esserci è condotto davanti a se stesso in quanto rimesso alla sua possibilità insuperabile. Il Si si prende cura di trasformare quest'angoscia in paura di fronte a un evento che sopravverrà. Un'angoscia, banalizzata equivocamente in paura, è presentata come una debolezza che un esserci sicuro di sé non deve conoscere. [...] Un essere-per-la-morte è l'anticipazione di un poter-essere di quell'ente il cui modo dì essere è l'anticiparsi stesso. Nella scoperta anticipante di questo poter-essere, l'esserci si apre a se stesso nei confronti della sua possibilità estrema. Ma progettarsi sul poter essere più proprio significa poter comprendere se stesso entro l'essere dell'ente così svelato: l'anticipazione dischiude all'esistenza, come sua estrema possibilità, la rinuncia a se stessa, dissolvendo in tal modo ogni solidificazione su posizioni esistenziali raggiunte.
[Tratto da Essere e Tempo ]