quarta di copertina da "I Simpson e la filosofia"

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domenica 5 agosto 2007

GIOVANNI GOZZINI, AUSCHWITZ, VIOLENZA, TOTALITARISMO E ANTISEMITISMO

GIOVANNI GOZZINI
AUSCHWITZ: VIOLENZA, TOTALITARISMO E ANTISEMITISMO
1. Posizione del problema: Auschwitz e la coscienza civile contemporanea In Europa le vittime di guerra sono state pari a tre milioni nel XVII secolo, a più di cinque nel Settecento, a cinque milioni e mezzo nell’Ottocento, a dieci milioni nella prima guerra mondiale, a cinquanta milioni nella seconda. Le perdite civili, pari al 5% del totale nel primo conflitto mondiale, sono state pari al 50% nella seconda; ma nella guerra del Vietnam hanno superato il 70% e si sono avvicinate al 100% in quella recente che ha insanguinato per quattro anni l’ex Jugoslavia e in quella recentissima in Iraq. Auschwitz si trova al centro di questa macabra contabilità, che segnala un impressionante salto di quantità, destinato a porre domande scabrose a chiunque creda alle sorti progressive dell’umanità. Nella sequenza millenaria della storia della civiltà, il Novecento si segnala soprattutto per la capacità del genere umano di condurre a dimensioni senza precedenti la propria volontà autodistruttiva. Come mai?
Una prima risposta ci rinvia allo sviluppo della tecnologia, simboleggiata in qualche modo dall’esplosione di Hiroshima. Ma ancora prima della bomba atomica, nel secolo scorso sono stati prodotti aerei da combattimento, navi da guerra, carri armati che hanno aumentato in misura esponenziale la potenza di fuoco degli eserciti e la loro capacità distruttiva. E anche Auschwitz si segnala per la specifica invenzione di una tecnologia per la somministrazione in massa della morte: le camere a gas. Nell’Ottocento una dimensione così seriale e massiccia dell’assassinio sarebbe stata impossibile, prima di tutto per la mancanza di mezzi idonei.
Ma si tratta ancora di una risposta insufficiente: come dimostra l’impiego per scopi pacifici dell’energia nucleare, le tecnologie possono essere utilizzate in modi diversi. In fondo, il Novecento è anche il secolo della Società delle Nazioni e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite: dei primi tentativi, cioè, che l’umanità ha fatto per dotarsi di un governo mondiale che fosse in grado di evitare il ricorso alla guerra come strumento per risolvere i contenziosi tra gli stati.
Una seconda risposta rinvia quindi al ruolo dei governi e della politica. Il drammatico incremento delle vittime civili segnala un mutamento di natura della guerra che avviene tra i due conflitti mondiali. Vale a dire il passaggio a una "guerra totale", che vede lo scontro tra ideologie contrapposte e che — come i duelli "all’ultimo sangue" della cavalleria medievale — può concludersi solo con la sparizione dei
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modelli sociali e delle forme istituzionali incarnati dal nemico: non più semplicemente con un trattato di pace che sposta di alcuni chilometri alcune frontiere nazionali. E’ di questo tipo la guerra che Hitler combatte per «un nuovo ordine europeo». Al tempo stesso, la seconda guerra mondiale è il frutto di regimi dittatoriali che danno al sostegno dell’opinione pubblica, espresso in forme plebiscitarie, confuse e disorganiche — senza la mediazione organizzata del pluralismo partitico e delle libere consultazioni elettorali
— un ruolo centrale nell’appoggio allo sforzo bellico. Per questa ragione, la strategia militare degli alleati ha teso, di converso, a piegare quel sostegno attraverso bombardamenti indiscriminati sugli abitati civili, che fiaccassero il morale della popolazione e la convincessero ad opporsi ai regimi responsabili della guerra. Auschwitz si colloca entro questo mutamento di quantità e di natura della guerra in guerra totale. Ma, al tempo stesso, non appartiene alla logica bellica — cui invece è ancora riconducibile Hiroshima — bensì ad una logica del tutto diversa: un progetto di rifondazione razziale dello stato attraverso l’eliminazione di una minoranza che non rappresenta né un pericolo né un nemico di guerra. Per questa sua apparente inspiegabilità, nella coscienza dell’uomo contemporaneo Auschwitz occupa il posto dello standard negativo: la vetta di malvagità raggiunta dal genere umano. Questo diffuso giudizio di natura etico-politica si sposa a una altrettanto diffusa ignoranza storica del problema. Nonostante il lavoro incessante degli studiosi, il senso comune — immediatamente rintracciabile negli studenti (provare per credere) — interpreta lo sterminio nazista degli ebrei come il frutto di una volontà omicida tanto radicale quanto incomprensibile: una zona oscura più vicina alla follia che alla normalità. Estratto dalla storia e collocato sul piedistallo dei simboli universali, Auschwitz diventa qualcosa di sacro ma anche qualcosa di sterile, un totem e nello stesso tempo un tabù: l’uomo qualunque ha potuto separarlo da sé, relegarlo tra i "mostri" di una realtà aliena che non gli appartiene e non lo coinvolge.
Perché Hitler ha ucciso sei milioni di ebrei? Perché era pazzo, è la risposta dei nostri studenti: una risposta prima di tutto rassicurante perché circoscrive, individualizza la colpa e, nello stesso tempo, scava un fossato invalicabile tra noi e il male.
La pedagogia occidentale ha sempre scelto il modulo western per la trasmissione dei propri precetti morali: buoni da una parte, cattivi dall’altra, i cattivi perdono, i buoni vincono. Ogni apologo, ogni fiaba può essere "decostruita" e ricondotta a questo schema semplice, logico, efficace: l’etica personale diventa questione di scelta e
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autocollocazione in uno schieramento preconfezionato a priori, la chiarezza manichea prevale sulla ricerca del senso. Ogni volta che il male fa capolino nelle nostre vite, dalle pagine di cronaca nera dei quotidiani, il modulo western funziona prima di tutto nel senso di allontanarlo e separarlo da noi: di ricacciarlo cioè tra i "mostri" con i quali, per fortuna, non abbiamo niente da spartire. Non tentare di spiegarlo conviene a tutti perché ricrea il senso condiviso della nostra convivenza civile attraverso l’esclusione di chi non ne fa parte in quanto radicalmente e strutturalmente "cattivo": cioè estraneo, marziano, tenebroso. Gli ebrei, come le streghe o gli zingari, hanno spesso sperimentato sulla propria pelle la logica funzionale del capro espiatorio, oggetto sacrificale per la rigenerazione della comunità dei "buoni".
È paradossale che nella questione dello sterminio nazista il modulo western abbia funzionato in modo analogo. Quasi sempre la memorialistica dei sopravvissuti sembra trovare sollievo nel rappresentare lo stereotipo di una "belva nazista" aliena e inspiegabile: la divisione tra buoni e cattivi equivale allo smarrimento delle ragioni. Ha scritto Primo Levi:
forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: «comprendere» un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l'autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Göbbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta, ed insieme, ci porta sollievo1.
Ma sempre Primo Levi ha scritto dieci anni dopo, parlando dei suoi aguzzini:
erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelli
genti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro
viso2.
Per sua natura il mestiere dello storico e dell’insegnante assume questo secondo punto di vista: cerca di spiegare e capire il senso, le ragioni di quanto è avvenuto. Insegnare Auschwitz significa allora muoversi lungo un sentiero stretto e accidentato tra due burroni: da una parte quello della banalizzazione, dell’appiattimento di un evento-limite come Auschwitz nella sequenza di un passato lontano, alla pari delle guerre puniche o dei martiri cristiani, dall’altra quello della demonizzazione pregiudiziale, alibi
1 P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, p.347. 2 Id. , I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, pp.166-7.
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del quieto vivere al riparo del male. Storicizzare il tentativo di genocidio compiuto al centro del nostro continente e al centro del Novecento da un regime politico salito al potere con il libero voto della maggioranza dei cittadini, non vuol dire affatto normalizzare il passato ma, al contrario, denormalizzare il presente, mostrandone i fili molteplici e spesso sotterranei che a quel passato lo legano. Auschwitz non è stato il folle disegno di un gruppo di alieni demoniaci impadronitisi con la forza del potere, esso è stato reso possibile dalla connivenza di migliaia di persone in tutta Europa che sapevano e hanno rifiutato di porsi il problema della propria responsabilità personale.
Il primo problema che si pone è quello della unicità dello sterminio nazista: un evento della storia umana, privo di precedenti e di paragoni possibili. Lo storico tedesco Eberhard Jäckel ne ha dato una definizione che è poi stata universalmente ripresa:
L’assassinio nazista degli ebrei rimane incomparabile perché mai in precedenza uno stato, attraverso l’autorità dei propri leader responsabili, ha deciso e annunciato lo sterminio totale di un certo gruppo di persone, compresi i vecchi, le donne, i bambini, i neonati e tradotto in pratica questa decisione con l’uso di tutti i possibili strumenti di potere a disposizione dello stato3.
Sono molti gli studiosi che, partendo da questa singolarità, vedono nella storicizzazione dei delitti nazisti un rischio di banalizzazione del male, di relativizzazione — e quindi di attenuazione — delle responsabilità criminali. Auschwitz per loro rimane «una terra di nessuno della comprensione, una scatola nera della spiegazione, un vuoto di significato extrastorico»4: uno standard negativo, appunto, la cui unica possibile spiegazione oggettiva risiede nel punto di vista soggettivo delle vittime che vi erano destinate. Solo la memoria dei testimoni può restituirci la verità del male radicale — nel doppio senso di sofferenza e malvagità — da essi soltanto sperimentato.
Sono molti anche gli storici convinti che l’impatto morale del nazismo come simbolo negativo si sia progressivamente esaurito. Ha scritto Martin Broszat:
3 E. Jäckel, Die elende Praxis der Untersteller, in «Historikerstreit»: Die Dokumentation der Kontroverse um die Einzigatigkeit der nationalsozialistischen Judenvernichtung, Monaco, Piper, 1987, p.118.
D. Diner, Zwischen Aporie und Apologie: Über die Grenzen der Historikerstreit des Nationalsozialismus, in Id.(a cura di), Ist der Nationalsozialismus Geschichte? Zu Historisierung und Historikerstreit, Francoforte, Fischer, 1987, p.73. 5
Alla luce di nuove catastrofi e atrocità l’epoca nazista ha perso molto della sua singolarità e ci rimane solo un bagaglio di convinzioni, tanto salde quanto vaghe, che non hanno più una forza morale. Immagini come quella del «nazismo regno del terrore» sono diventati stereotipi stanchi e solo una nuova, più profonda, analisi storica può renderli di nuovo moralmente utili5.
Nel riaffermare il valore civile della ricerca, Broszat ha un obiettivo polemico diretto: la generazione di storici precedente alla sua, che ha dominato la scena dell’immediato dopoguerra — Meinecke in Germania, Croce in Italia — con una interpretazione della dittatura come prodotto di forze demoniache estranee alla civiltà occidentale. Questa visione "parentetica" di un passato scabroso appena trascorso è stata allora la più idonea per un pubblico che aveva il bisogno di rinascere: il bisogno, cioè, di allontanare in un’altra galassia il racconto del male e tornare il prima possibile alla rassicurante convinzione di vivere in un mondo diverso, più civile, dove queste cose non potevano più accadere. Rifiutato nel 1947 da molti grandi editori, il libro di Primo Levi su Auschwitz venne pubblicato con una tiratura molto ristretta da Franco Antonicelli ma dovette aspettare la ristampa presso Einaudi nel 1958, per conoscere l’odierno successo di pubblico. Come già nel gennaio 1945 scrisse Hannah Arendt6 erano troppi i padri di famiglia che, per difendere la propria sicurezza, avevano accettato di non vedere, non sentire, non parlare.
Le guerre si combattono altrove, le grandi calamità sono riservate agli altri. La nostra vita rifugge dagli estremi. Eppure, uno degli insegnamenti del nostro recente passato è appunto che non esiste rottura tra estremi e centro, bensì una serie di impercettibili transizioni. Se nel 1933 Hitler avesse proclamato ai tedeschi che dieci anni dopo avrebbe sterminato tutti gli ebrei d’Europa, non avrebbe mai vinto le elezioni, come invece accadde. Ogni concessione accettata da una popolazione assolutamente non estremista è di per sé insignificante; prese insieme, portano all’orrore7.
A ben vedere, è proprio questa la verità più scottante che emerge da Auschwitz: perché riguarda da vicino ognuno di noi. E invece lo stesso termine che siamo abituati ad usare quando parliamo dello sterminio nazista — Olocausto — riflette un messaggio particolare fatto di unicità e di mistero: di lontananza. Come sappiamo, esso indica la
5 M. Broszat, A Plea for the Historicization of National Socialism, in P. Baldwin (a cura di), Reworking the Past. Hitler, the Holocaust, and the Historians' Debate, Boston, Beacon press 1990, p.77.
H. Arendt, Colpa organizzata e responsabilità universale, in Id., Ebraismo e modernità, Milano, Feltrinelli, 1986, pp.63-76. 7 T. Todorov, Di fronte all’estremo, Milano, Garzanti, 1992, pp.248-9. 6
pratica diffusa tra i popoli pastori dell’antichità di offrire, bruciandola completamente nel fuoco, una vittima sacrificale alla divinità in segno di ringraziamento o di riconciliazione. Il problema è che questo significato sacralizzante, sempre più massicciamente impiegato a partire dalla fine degli anni cinquanta per indicare lo sterminio operato dalla Germania nazista, è in realtà del tutto assente nel termine ebraico di cui dovrebbe pur essere la traduzione: shoah, "distruzione". Per indicare il rito sacrificale dell’Olocausto l’Antico Testamento usa, infatti, un altro termine: 'olâ. Si tratta quindi di una deviazione terminologica impropria e non indifferente, che tende a relegare lo sterminio nel regno dell’inspiegabile. Come di fronte al fuoco scatenato dal fulmine, la mitizzazione religiosa serve all’umanità per risolvere la propria impotenza, per riappropriarsi in qualche modo di quanto non si riesce a dominare. Il rapporto fra l’uomo e la divinità annulla — o quantomeno lascia sullo sfondo — il rapporto fra l’uomo e i suoi simili, cioè la responsabilità terrena e concreta di chi all’Olocausto ha posto mano di propria volontà. L’intenzione sacrosanta di restituire onore e dignità alle vittime rischia di conferire alla "distruzione" un senso provvidenzialistico che — alla pari di ogni altro sacrificio — implica la necessità e il merito catartico della sofferenza ricondotta a un Dio terribile e imperscrutabile. E che assegna al popolo ebraico il ruolo eletto di capro espiatorio, pronto ad assumere su di sé e a riscattare il male del genere umano.
Da qualsiasi parte lo si guardi, è un senso totalmente ed evidentemente inaccettabile: Olocausto è proprio una parola sbagliata usata a sproposito. Basta rifletterci un attimo per rendersene conto. Eppure tutti la usano: perché? Proprio la grande diffusione di questo errore — forse piccolo o forse no — dovrebbe metterci in guardia sul peso e la forza dei luoghi comuni che la tradizione è pronta a consegnarci, sul peso e la forza della trama troppo compatta di un discorso già fatto una volta per tutte.
In Israele, ad esempio, il nesso tra shoah e identità ebraica è oggetto di un dibattito sempre più vivo. Mentre gli ultimi governi laburisti hanno teso a ridimensionare l’importanza dello sterminio nella formazione scolastica delle giovani generazioni, sono stati soprattutto i partiti della destra religiosa a insistere su Auschwitz non solo come principio fondante di legittimazione politica dello Stato di Israele ma anche come strumento di costruzione sociale delle differenze con "l’altro": con chi non è stato perseguitato e può tornare in ogni momento a farsi persecutore, tedesco o palestinese che sia. Olocausto diventa, in questo caso, un termine paradossalmente appropriato,
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perché il sacrificio di allora ha remunerato Israele legando la nascita e la sicurezza di questo Stato alla superiorità che deriva dal senso di colpa altrui.
La parola Olocausto non è uscita dalla bocca dei sopravvissuti, non appartiene alla sfera della memoria. È il frutto della costruzione collettiva di un "discorso" su Auschwitz che nel corso del tempo ha standardizzato la verità attraverso i più diversi mezzi di comunicazione di massa, indulgendo talvolta al luogo comune. Ed è nel vuoto lasciato dalla storia quando diventa tradizione, stanca e rituale ripetizione di verità date per scontate una volta per tutte, che si inserisce la menzogna del negazionismo. Una menzogna volgarmente antisemita uscita dalla penna di neonazisti come Faurisson e Butz, che riducono l’esistenza delle camere a gas a un falso della propaganda ebraica. È stato proprio uno di loro, un chimico francese di nome Jean-Claude Pressac, che — convinto della impossibilità tecnica di una tale macchina di morte — è andato a cercare la verità negli Archivi centrali di Mosca dove si trovano i documenti recuperati nel lager di Auschwitz dall’Armata Rossa al momento della liberazione, nel gennaio 1945 e solo di recente aperti alla consultazione degli studiosi. Nel suo libro8 racconta la storia dell’installazione delle camere a gas attraverso la corrispondenza commerciale della direzione del campo con la ditta Topf, specializzata in forni crematori: una verità sconvolgente che emerge dalla prosa burocratica e anonima di fonti naziste «involontarie», frutto di routine quotidiana e non scritte per i posteri. Proprio questo episodio dimostra l’importanza di una impostazione didattica che non si limiti «a tenere accesa la memoria», ripetendo una verità sempre uguale, bensì restituisca il senso di work in progress costante della ricerca, smontando nei ragazzi luoghi comuni consolidati e spingendoli a cercarsi la propria verità. Impostata in questi termini — fuori dal piagnisteo rievocativo e rituale — la questione Auschwitz non smette di appassionarli: perché pone domande capitali sull’uomo, sulla sua natura buona o cattiva, e le pone non in astratto — come quesiti filosofici — ma a partire da una esperienza storica, concreta e recente. Questa esperienza storica è stata indubbiamente unica e irripetibile: come qualsiasi altro evento della storia: ogni fatto è unico e irripetibile ma può essere capito meglio se comparato — per analogie e differenze — ad altri. Il mestiere dello storico e dell’insegnante è quello, non di ripeterne la descrizione fatta dai testimoni, ma di tentare di spiegarlo. Nel caso dello sterminio nazista, però, questa semplice e neutra verità di metodo urta contro un paradigma interpretativo che è stato
8 J.C. Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, Milano, Feltrinelli, 1994.
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definito come intenzionalista che si è stabilito nel senso comune e nel lavoro degli storici a partire dal processo di Norimberga. Se la Shoah è stata il frutto della volontà omicida di un pugno di uomini, ogni tentativo di confrontarla e paragonarla significa relativizzare e quindi diminuire la colpa dei responsabili: la storia serve a denunciare e condannare criminali mossi da un odio incomprensibile e irrazionale. Lo storicismo tradizionale, che si muove nella dimensione del verstehen anziché dell’erklären — del «capire» le motivazioni e le scelte dei personaggi storici cercando di riviverle, anziché dello «spiegare» — si arresta sconcertato di fronte a questa realtà e non può che consegnarci una verità descrittiva e tautologica: lo sterminio di massa è stato una novità così assoluta e radicale da risultare incomprensibile per quanti l’hanno vissuta, il cuore della civiltà europea ha smesso per un certo tempo di battere, invaso e sconvolto da un pugno di marziani. Da ogni racconto di sopravvissuto uscirà fuori inevitabilmente questa verità: ed è questo il punto di partenza ineliminabile per ogni insegnante. Per i ragazzi l’impatto fisico con un testimone è un’esperienza indispensabile, che lascia il segno (a differenza di quasi tutte le nostre parole).
Ma l’insegnante deve inchinarsi a questa verità dell’esperienza, per assumerla e andare avanti: il suo mestiere è appunto quello di scoprire, insieme ai ragazzi, qualcosa di più di quanto già ci dicono i protagonisti e i testimoni.
Oltre la verità dei testimoni si colloca il problema della comparabilità dello sterminio. In fondo, anche il ricorso al termine Olocausto come indicatore di un novum assoluto deriva pur sempre da un raffronto implicito con le esperienze precedenti. E bisogna notare che nell’uso comune quel termine è stato soggetto a una banalizzazione crescente, frutto di una strumentalizzazione politica scriteriata che lo intende come standard unico e irripetibile ma lo applica disinvoltamente alle più diverse circostanze, dal nucleare all'ecologia agli incidenti stradali. Alla storia dell’umanità il XX secolo ha consegnato la novità dirompente di regimi totalitari che hanno perseguito politiche di genocidio — di persecuzione fisica ai danni di ceti economici, gruppi etnici o religiosi
— per scopi di ingegneria sociale, di rivoluzione delle gerarchie e degli equilibri che regolano la convivenza civile. Da tempo i sociologi lavorano attorno ai nessi possibili tra lo sterminio degli ebrei operato dal Terzo Reich e il milione e mezzo di armeni massacrati dal governo turco nel corso della prima guerra mondiale, i milioni di contadini e oppositori politici uccisi dalla politica di collettivizzazione forzata e dalle grandi purghe di Stalin negli anni Trenta, i due milioni di cambogiani uccisi dai Khmer 9
rossi negli anni Settanta. In ognuno di questi casi una dirigenza politica relativamente recente e portatrice di un progetto di trasformazione radicale dello stato si è trovata ad affrontare una crisi interna di consenso e legittimazione, insieme a una crisi esterna di isolamento nei rapporti internazionali legata a un conflitto armato in corso o prevedibile a breve termine. In questa situazione un gruppo di cittadini, che era di ostacolo ai piani governativi, è stato identificato come un doppio nemico interno ed esterno: radicalizzando antiche rivalità o creando nuove ideologie, è stato escluso dalla comunità nazionale e dai diritti di cittadinanza, concentrato in campi di prigionia e costretto a morire per malattie e privazioni o per esecuzione capitale9.
Per molti aspetti la sociologia è antitetica alla storia, perché cerca di costruire collegamenti tra esperienze storiche lontanissime tra loro prescindendo dal contesto spazio-temporale. Ma questo sforzo comparativo non può tradursi in un piano inclinato univoco e predestinato che annulla le differenze e attribuisce ad ogni rivoluzione — intesa in senso stretto come rottura dell’ordine costituzionale — un destino ineluttabile di totalitarismo e quindi di genocidio. La tesi di un nesso storico tra Terrore giacobino e totalitarismi del XX è stata sostenuta per primo da J. Talmon e poi ripresa da F. Furet: quando un’avanguardia si sostituisce alla massa per realizzare un proprio disegno utopico, lì si verificano le condizioni per una dittatura sanguinaria10.
In realtà questa tesi si presenta come troppo generica e indifferenziata. L’uso della violenza nei confronti degli oppositori non è uguale alla eliminazione di un intero gruppo sociale, etnico o religioso. Risulta difficile concepire sub specie genocidio — sebbene abbiano combattuto duramente i propri nemici interni ed esterni — la Rivoluzione francese così come quella inglese o americana. E può apparire forzato attribuire intenti di sterminio a regimi indubbiamente dittatoriali come quello cileno degli anni settanta o quello iraniano degli anni Ottanta. Viceversa è difficile negare che la democrazia americana sia stata costruita sulla deportazione di migliaia di schiavi africani e sul genocidio degli indiani d’America.
9 H. Fein, Accounting for Genocide. National Responses and Jewish Victimization during the Holocaust, New York, The Free Press, 1979; L. Kuper, Genocide: Its Political Use in the Twentieth Century, New Haven, Yale University Press, 1981; F. Chalk-K.Jonassohn, The History and Sociology of Genocide, New Haven, Yale University Press, 1990; R.F. Melson, Revolution and Genocide. On the Origins of the Armenian Genocide and the Holocaust, Chicago, The University of Chicago Press, 1992.
10 J. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna, il Mulino, 1967; F. Furet, Il passato di un’illusione, Milano, Mondadori, 1995.
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La realtà insomma sfugge sempre alle classificazioni troppo semplici. Nella Germania di Hitler l’individuazione dell’ebreo come nemico poté appoggiarsi a una tradizione culturale, specifica e plurisecolare, di antisemitismo. Ma non esisteva un odio razziale antiarmeno nella Turchia di inizio Novecento; mentre i nemici di Stalin e Pol Pot erano connazionali, identificati come bersagli per conseguenza subordinata di ideologie politiche generali. D’altra parte, gli ebrei tedeschi non costituivano una minaccia per il governo: non erano animati da progetti autonomistici, come gli armeni, né potevano incarnare una potenziale opposizione di classe, come i kulaki russi. Peraltro, il piano nazista di pulizia etnica si spinse ben oltre i confini della sicurezza interna del Reich, fino a ridisegnare la fisionomia razziale di tutta l’Europa: un proposito espansionista che non compare in nessuno degli altri casi ricordati. La definizione di uno sfondo comparativo serve insomma a capire meglio unicità e differenze; non serve a fissare schemi causali obbligatori e universali.
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2. Il totalitarismo Ma la comparazione, appartiene anche alla sfera soggettiva dei personaggi di cui ci occupiamo. «Dopotutto, chi parla oggi dell’annientamento degli Armeni?»11 disse Hitler ai suoi capi militari prima di lanciare l’invasione della Polonia. E non mancò di paragonare la guerra antipartigiana alla conquista del West12.
Al centro di questo problema della comparazione si trova la questione del rapporto tra Lager e Gulag (sigla in russo di Gosudarstvennoe Upravlenie Ispravitel’notrudovich Lagerej, «Amministrazione statale dei campi di lavoro e correzione»), tra nazismo e stalinismo. Per anni la coscienza antifascista uscita vincitrice dal conflitto mondiale ha rifiutato come improponibile tale questione.
Ma l’avvento della guerra fredda ne ha poi mutato radicalmente i termini. La fortuna internazionale del termine di «totalitarismo» risale infatti all’inizio degli anni Cinquanta quando apparve l’opera di Hanna Arendt13. Attraverso un’analisi condotta a cavallo di diverse scienze sociali — sociologia, storia, filosofia — la Arendt connetteva le dittature appena sperimentate dalla civiltà europea con il processo di modernizzazione che nel corso del Novecento aveva trasformato le società europee in società di massa. Industrializzazione e urbanizzazione, insieme alla crescita demografica e all’aumento della disoccupazione, avevano rotto gli antichi vincoli comunitari e le relazioni personali "faccia a faccia" dei paesi e dei villaggi; gli individui si erano atomizzati, le loro esistenze civili e professionali si erano separate fino alla reciproca ignoranza e indifferenza. Questa massa amorfa rappresentava nello stesso tempo la condizione di affermazione e la base di consenso dei nuovi regimi autoritari capaci di dominare queste folle divise e solitarie attraverso l’autorità carismatica di un capo. Lo strumento per restituire unità e identità a queste moltitudini informi era costituito dal mito imperialistico della nazione forte e potente nel consesso internazionale: un mito agitato dal capo secondo i moduli tradizionali della cultura militarista, senza aver quindi bisogno della mediazione rappresentativa della democrazia parlamentare, sostituita dalla
11 Discorso del 22 agosto 1939, documento L 003, riprodotto in Office of United States Chief of Counsel for Prosecution of Axis Criminality, Nazi Conspiracy and Aggression, Washington, United States Government Printing Office, 1946-1948, v.7, p.753.
Conversazioni segrete ordinate e annotate da Martin Bormann durante il periodo più drammatico della seconda guerra mondiale (5 luglio 1941-30 novembre 1944), Napoli, Richter, 1954, p.660, 8 agosto 1942. 13 H. Arendt Le origini del totalitarismo, New York, 1951.
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compenetrazione tra partito unico e stato. I cittadini e lo stato formavano anzi una comunità di tipo esoterico in cui gli altri, i "diversi", erano automaticamente e sempre nemici. Nazismo tedesco e stalinismo sovietico erano, per la Arendt, le forme storiche integralmente sviluppate del totalitarismo, accomunate da un controllo totale della vita pubblica e privata degli individui e dalla conseguente distruzione della spontaneità e della libertà personali.
La visione della Arendt si fonda sulla centralità del sistema concentrazionario: il lager e il gulag sono lo specchio estremo del tipo di disgregazione e normalizzazione che i regimi totalitari intendono imporre all’intero corpo della società civile. Nel 1986 questa impostazione è stata riproposta da uno storico conservatore tedesco, Ernst Nolte, che ha individuato nei campi di lavoro staliniani il vero modello ispiratore di Hitler, suscitando in Germania e all’estero un acceso dibattito, noto con il nome di Historikerstreit, «contesa degli storici»14.
L’«Arcipelago Gulag» non precedette Auschwitz ? Non fu lo «sterminio di classe» dei bolscevichi il prius logico e fattuale dello «sterminio di razza» dei nazionalsocialisti ? [...] Non compì Hitler, non compirono i nazionalsocialisti un’azione «asiatica» forse soltanto perché consideravano se stessi e i propri simili vittime potenziali o effettive di un’azione «asiatica»?15
Con lo stile allusivo e volutamente ambiguo che spesso lo distingue, Nolte confonde due cose diverse: la proposta di una suggestione comparativa interna — il gulag come modello dei lager — e l’affermazione di un preciso nesso causale che individua nel lager una risposta alla minaccia del gulag. Anche in virtù di questa confusione, la sortita di Nolte ha messo a rumore il mondo culturale non solo tedesco, con un dibattito singolarmente povero di nuovi risultati di ricerca e molto piegato ad esigenze di natura politica contingente, relative a un’identità nazionale della Germania contemporanea finalmente libera dalle colpe del passato. L’attenzione degli studiosi si è concentrata sul nocciolo ideologico dell’interpretazione di Nolte — la «guerra civile europea»16 che contrappone nazismo e bolscevismo — e sul suo tentativo di riabilitare almeno parzialmente, in questa luce di difensore dell’Occidente, il regime hitleriano.
14 G.E. Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e l’identità tedesca, Torino, Einaudi, 1987. 15 E. Nolte, Vergangenheit die nicht vergehen will, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 6 giugno 1986. 16 Id., Nazionalsocialismo e bolscevismo. La guerra civile europea 1917-1945, Firenze, Sansoni, 1988.
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Ma davvero le persecuzioni di Stalin rappresentarono una fonte di ispirazione per i piani nazisti di sterminio?
Faccio un esempio di trattazione didattica di questa domanda, nel senso di una proposta della ricerca storiografica come work in progress, che richiamavo in precedenza. A sostegno dell’ipotesi di Nolte potrebbero essere chiamate due fonti. La prima appartiene al corpus di documenti burocratici nazisti raccolti per il processo di Norimberga ed è un memorandum di 6 pagine elaborato nel maggio 1940 da Heinrich Himmler, il capo delle SS, sul trattamento da riservare alle popolazioni dell’Est europeo.
La mia speranza è di cancellare [auslöschen] completamente il concetto di ebrei attraverso la possibilità di una grande emigrazione di tutti gli ebrei in Africa o altrimenti in una colonia [...] Per quanto crudele e tragico possa risultare ogni caso individuale, questo metodo è ancora il più mite e il migliore, se si rifiuta come contrario alle nostre più profonde convinzioni il metodo Bolscevico dello sterminio [ausrottung] di un popolo perché non tedesco e impraticabile17.
La seconda è invece una fonte retrospettiva e volontaria: la testimonianza di Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz.
L’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich aveva diffuso tra i comandanti dei campi un ampio rapporto sui campi russi di concentramento. Alcuni prigionieri che ne erano fuggiti, riferivano fin nei particolari le condizioni e il tipo di organizzazione in essi vigenti. Particolare evidenza veniva data al fatto che i Russi annientavano intere popolazioni mediante la grande organizzazione del lavoro forzato. Così, dopo aver consumato i detenuti di un campo nella costruzione di un canale, facevano venire altre migliaia di kulaki o di altri elementi malfidi: i quali, dopo un certo periodo, erano a loro volta logorati18.
Come si vede, l’ipotesi che nell’immaginario nazista «il metodo Bolscevico» identificasse una politica di genocidio — scartata nel 1940 come «non tedesca» e successivamente imitata — è tutt’altro che priva di riscontri documentari. Al tribunale di Norimberga Stalin sedeva tra gli accusatori, forte dell’enorme tributo di più di 20 milioni di vite pagate nella lotta contro l’invasione tedesca, e l’argomento del tu quoque venne messo tra parentesi. Ma anche in seguito, negli anni della guerra fredda, alla cultura legalistica americana di circoscrizione della colpa giuridica, si contrappose la
17 Si tratta del documento NO 1880, pubblicato da H. Krausnick, Einige Gedanken über die Behandlungder fremdvölkischen im Osten, «Vierteljahreshefte für zeitgeschichte», 5, 1957, pp.194-8. 18 Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss, Torino, Einaudi, 1960, p.157.
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dottrina sovietica del nazismo come sbocco e malattia del capitalismo. Da entrambe le parti prevalse un’idea semplificata e strumentale dello sterminio, preoccupata di allontanarlo come "altro" da sé e di rilanciarlo sempre e comunque nel campo dell’avversario.
Dei gulag staliniani è rimasta in Occidente, anche dopo il 1956, un’immagine tenebrosa, ancora schiava della segretezza imposta dal regime sovietico. Con le poche fonti a disposizione — i censimenti demografici, la voce degli esuli e della dissidenza clandestina, gli elenchi telefonici — si è cominciato a dipingere un quadro. Tra il 1930 e il 1953 la dittatura di Stalin aveva causato la morte di circa 20 milioni di persone: più di 7 nelle carestie e nel processo di collettivizzazione forzata dei primi anni Trenta, quasi 12 per «cause naturali» e 1 per esecuzioni capitali (concentrate soprattutto negli anni 1937-1938) all’interno dei gulag19.
Ma solo dopo le aperture del periodo gorbacioviano, gli studiosi hanno potuto accedere agli archivi della sezione del NKVD (Narodnyi Komissariat Vnutrennykh Del, «Commissariato del popolo per gli affari interni») che amministrava i Gulag20. Ne esce un quadro più concreto del sistema repressivo staliniano che sembra ridimensionare le cifre conosciute. I 53 campi di lavoro e correzione dell’Unione Sovietica erano solo l’anello centrale di una catena reclusiva che comprendeva anche colonie di confino per misure detentive temporanee. Il numero di arresti documentabile al culmine delle grandi purghe, nel biennio 1937-1938, è pari a 2.5 milioni e la popolazione dei gulag alla fine del 1938 sfiora i 2 milioni. Nel biennio, considerato le morti archiviate per "cause naturali", sono 160.084 (R. Conquest ipotizzava un totale di 2 milioni), le esecuzioni 681.692; il totale delle pene capitali comminate dal regime tra il 1921 e il 1953 è pari a
799.455. Il quadro complessivo degli internati di questi anni non rivela un accanimento particolare nei confronti di specifici gruppi etnici: ucraini — indicati da R. Conquest come uno dei bersagli privilegiati del terrore staliniano per il loro nazionalismo — ed ebrei risultano sottorappresentati rispetto al peso percentuale da essi esercitato nel mosaico di nazionalità dell’Unione Sovietica. Il vero obiettivo della repressione sembra piuttosto essere l’élite della cultura e delle professioni: come dimostrano l’età e gli alti livelli di scolarità dei detenuti. 19 R. Conquest, Il Grande Terrore. Le purghe di Stalin negli anni Trenta, Milano, Mondadori, 1970; Id., The Harvest of Sorrow: Soviet Collectivization and the Terror-Famine, Londra, Hutchinson, 1986.
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È evidente che questi nuovi risultati di ricerca non possono essere considerati come definitivi: le fonti di polizia, da sole, non bastano e attendono riscontri e verifiche incrociate. Siamo in realtà ancora agli inizi di un lavoro di scavo negli archivi che faccia emergere le dinamiche locali e sociali di una dittatura non riducibile alla paranoia persecutoria di un uomo solo. Sussiste quindi un divario evidente di documentazione e di studio per una seria indagine comparativa tra lager e gulag, che rimane ancora da scrivere.
Resta però aperta una direzione di ricerca importante. I politologi che, dopo la Arendt, hanno elaborato la categoria di totalitarismo insistono — piuttosto che sulla centralità del sistema concentrazionario — sulla somiglianza dei mezzi di potere impiegati dalle dittature del Novecento: partito unico di massa, ideologia ufficiale, regime di polizia, censura, centralizzazione statale dell’economia21. L’accento sui sistemi di governo permette di costruire una griglia interpretativa elastica, capace di comprendere le più diverse esperienze nazionali: capace, ad esempio, di recuperare all’interno della categoria «totalitarismo» anche l’esperienza del fascismo italiano, che era invece esclusa dalla Arendt. Ma senza un'analisi dei fini che questi sistemi si propongono, la rottura autoritaria della vita politica di un paese rischia di rimanere autoreferenziale: di spiegarsi con sé stessa. La categoria di totalitarismo si riconnette così al paradigma intenzionalista: l’introduzione del terrore nella vita civile rimane il frutto della volontà malvagia di una banda di criminali malamente coperta da una patina di propaganda e priva di una logica che non sia quella della conquista e del mantenimento del potere con ogni mezzo.
Sfugge a questa impostazione il fatto che nazismo e stalinismo abbiano perseguito non solo un modo di governare ma anche un modello sociale alternativo al patto di cittadinanza proprio della democrazia parlamentare. Al libero confronto delle rappresentanze politiche — che non possiede fini esterni se non il rispetto delle maggioranze di volta in volta costruite — si intende sostituire una nuova, pervasiva e centralizzata autorità statale fondata sulla razza, nel primo caso, e sulla classe, nel secondo. Proprio il postulato della superiorità di questi scopi rispetto ai mezzi da usare rende possibile l’eliminazione attraverso il lavoro forzato, che diventa lo strumento
20 J. Arch Getty-G.T. Rittersporn-V.N. Zemskov, Victims of the Soviet Penal System in the Prewar Years: A First Approach on the Basis of Archival Evidence, in «American historical review», 98 (1993), n.4, pp.1017-49.
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principale per rimuovere differenze e resistenze all’interno di questo progetto: la proprietà contadina e l’opposizione della intelligencija per Stalin, i bacilli di contaminazione «antiariana» per Hitler.
A questa base comune — l’uso della forza statale per un disegno di ingegneria sociale o razziale — fanno però riscontro ulteriori differenze, non solo di quantità come sembrano suggerirci le nuove acquisizioni documentarie. Nei gulag non entrarono bambini: la dimensione dello sterminio familiare — certamente presente nelle carestie indotte da Stalin all’inizio degli anni Trenta che secondo Conquest provocarono 7 milioni di morti, tra cui circa 3 milioni di bambini — era estranea al sistema concentrazionario sovietico. E solo al nazismo appartennero la creazione di campi di sterminio dedicati esclusivamente alla morte di massa attraverso l’invenzione di una nuova tecnologia chimica per il genocidio e l’aggancio del proprio progetto razziale a un piano di conquista militare dell’Europa.
Sottrarre Auschwitz al mondo alieno della follia e ricondurlo al centro della condizione umana moderna non significa però cancellarne il contesto storico. Perché tutto questo avvenne in Germania?
Il senso comune ignorante risponde a questa domanda con uno stereotipo da fumetto: il tedesco obbediente, disciplinato, militarista. Questa tesi ha conosciuto nuova fortuna grazie al libro di un giovane ricercatore americano22: nella cultura tedesca — e solo in essa — si troverebbe il peso secolare di un condizionamento specifico, rappresentato dall’antisemitismo, che determinerebbe un pregiudizio cognitivo nei confronti degli ebrei, non più considerati come esseri umani pari agli altri. È una tesi non suffragata dai fatti. Le culture nazionali di Francia e Russia — si pensi al caso Dreyfus o al libello falso costruito dalla polizia segreta dello zar I protocolli dei Savi di Sion — erano sicuramente più antisemite di quella tedesca. In Germania i partiti antisemiti scomparvero del tutto alle elezioni del 1912. Molti treni verso Auschwitz partirono dall’Italia, dalla Francia, da fuori dei confini della Germania; dentro quei confini più di 6 mila tedeschi vennero condannati a morte negli ultimi mesi di guerra.
Ma questa doverosa avvertenza preliminare non può esaurire le nostre domande: il nazismo fu un'invasione di alieni, una «dolorosa parentesi», per mutuare la categoria
C. Friedrich-Z.Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Autocracy, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1956. 22 D.J. Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Milano, Mondadori, 1997. 18
usata da Benedetto Croce a proposito del fascismo italiano? Oppure esiste nella storia tedesca un Sonderweg, un «percorso speciale», che — anche a causa della posizione centrale nel continente europeo — tende ad affidare la sicurezza di questa nazione alla forza delle armi e dello stato? Riaccesa nel 1961 dal libro di F. Fischer23 — che documentava il ruolo dell’apparato militare tedesco nello scatenamento della prima guerra mondiale — la polemica storiografica sulle peculiarità della Germania moderna ha passato in rassegna il ritardo di questo paese nel decollo industriale (parallelo a quello di Italia e Giappone, altre dittature del Novecento), l’influenza dell'aristocrazia terriera e delle caste militari, la perdurante debolezza del ramo parlamentare eletto a suffragio universale rispetto a quello eletto con criteri censitari, il tradizionalismo e la compattezza della burocrazia pubblica. Sono tutti elementi reali, che compongono l’identità storica della Germania moderna e che, tuttavia, sembrano presupporre un modello normativo universale di democrazia occidentale. Questo modello esiste davvero? In fondo, anche paesi con radici democratiche più profonde come Inghilterra, Francia e Stati Uniti hanno usato — in modi e tempi diversi — il potere militare a fini coloniali e imperialistici.
E viceversa nel Novecento le dittature totalitarie hanno rappresentato un elemento di novità e di rottura non solo in Germania, ma anche in Italia, Ungheria, Romania, Spagna e Portogallo.
Come si vede, la dimensione comparativa serve a sottolineare le differenze, piuttosto che le analogie. Essa tuttavia colloca con chiarezza il genocidio al centro del mondo contemporaneo, attribuendogli una fisionomia diversa dalle guerre di popolo e di religione del passato: quella dei crimini di regimi totalitari. Questi crimini rappresentano una delle innovazioni del Novecento. Non hanno niente di infraumano, né di "tipicamente tedesco" o di "tipicamente asiatico". Attraversano il cuore della nostra civiltà e nascono da trasformazioni politiche che introducono la paura e l’obbedienza nella vita quotidiana: hanno a che fare con la nostra incapacità di apprezzare — e difendere — la libertà anche e soprattutto di chi non è come noi o non la pensa come noi. Non ce la possiamo cavare a buon mercato. Ha scritto chi è tornato dai lager:
23 F. Fischer, Assalto al potere mondiale, Torino, Einaudi, 1965.
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Desidero ardentemente attirare l’attenzione dei responsabili sulla tragica facilità con cui le "brave persone" possono diventare carnefici senza neanche
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accorgersene.
L’esperienza totalitaria implica dunque alcune questioni morali di fondo, che attengono a un piano ancora diverso di indagine: quello della psicologia individuale e collettiva. Il processo di Norimberga obbedì alla necessità di una nuova Germania circoscrivendo al massimo le colpe del nazismo e ponendo quindi le basi del paradigma intenzionalista. Ma la realtà era diversa: nel 1939 Anna Strasser lavorava nel paese di Mauthausen.
Una volta, mentre pranzava nel vicino ristorante della stazione [...] un attraente uomo delle SS si sedette al suo tavolo. Lei non poté fare a meno di chiedergli, «come fosse possibile che degli uomini potessero essere tenuti in prigione o in un campo di concentramento senza un giusto processo. Egli non mi diede alcuna risposta ma cambiò discorso». Tuttavia le sue parole lo avevano colpito poiché quando lei riprese la strada dopo pranzo il giovane la seguì. «Non si allarmi se la sto seguendo. Vorrei dirle che dovrebbe essere più cauta nelle sue dichiarazioni sullo stato della legge e così via. Tali affermazioni potrebbero portarla in un luogo da cui, forse, non c’è ritorno. Io intendo farle del bene»25.
Tra il regime nazista e il popolo tedesco funzionava un patto non scritto. Il primo avrebbe fatto quanto era in suo potere per risparmiare ai cittadini la conoscenza diretta delle atrocità; il secondo doveva evitare di vedere e di capire. Per mantenere in efficienza questo patto bastava la presenza discreta ma capillare di una rete informativa, capace di introdurre un clima di sospetto generalizzato nella vita sociale: più di metà delle denunce di violazioni delle norme razziali introdotte da Hitler pervenne alle autorità da parte di privati cittadini e non da uffici di polizia26. «Dev’essere chiaro che la massima colpa pesa sul sistema, sulla struttura stessa dello stato totalitario»27, ha scritto Primo Levi. Al tempo stesso, questa verità indubitabile non annulla le responsabilità individuali di ciascuno: nessuno è mai completamente privo della possibilità di scegliere.
24 G. Tillion, Ravensbrück, Parigi, Seuil 1988, p.214. 25 G.J. Horwitz, All'ombra della morte. La vita quotidiana attorno al campo di Mauthausen, Venezia,Marsilio, 1994, pp.69-70.
R. Gellately, The Gestapo and German Society. Enforcing Racial Policy 1933-1945, Oxford, Clarendon, 1990. 27 P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p.30. 20
La misura del mio isolamento - ha scritto con onestà Albert Speer, ministro del Reich per gli armamenti condannato a vent’anni di carcere a Norimberga - la fermezza delle mie scappatoie e il livello della mia ignoranza, alla fin fine ero io a deciderli28.
All’estremo opposto della scala gerarchica si trovava Werner Dubois, semplice sorvegliante nel lager di Sobibor ma altrettanto onesto nella sua deposizione rilasciata nel novembre 1962 davanti a un tribunale tedesco:
So bene che i campi di annientamento erano usati per uccidere. Il mio compito era aiutare a uccidere. Se dovessi essere condannato lo riterrei giusto. L’omicidio è omicidio. A mio giudizio, nel valutare la colpevolezza non bisognerebbe considerare la funzione specifica del singolo nel campo. Quale che fosse il nostro posto, eravamo tutti ugualmente colpevoli. Il funzionamento del campo dipendeva da una catena di funzioni. E in una catena, se solo manca un anello, l’intero funzionamento si arresta29.
Lasciato alla spontaneità — più o meno diretta dalle squadre del partito — l’odio antisemita dei tedeschi era riuscito a colpire quasi un centinaio di persone, al culmine del suo sviluppo nella «Notte dei Cristalli» del novembre 1938. A questo ritmo la «soluzione finale» del problema ebraico avrebbe richiesto più di un secolo: per accelerarla ci voleva un'organizzazione pianificata di serie.
A partire dagli anni Sessanta le ricerche di uno storico americano di origine tedesca,
R. Hilberg, hanno messo in luce che lo sterminio nazista era stato anche una macchina burocratica complessa, forte di una estesa rete di collaboratori a diversi livelli. Soprattutto nei territori conquistati ad Est, questa macchina poteva contare su una tradizione di antisemitismo popolare che dette il suo contributo attivo, ad esempio con la costituzione di milizie autoctone nelle regioni baltiche e ucraine30. Ma in tutta Europa la soluzione finale della questione ebraica venne organizzata secondo una divisione burocratica dei compiti che permetteva a ciascuno di non sentirsi veramente responsabile. Gli organizzatori come Eichmann maneggiavano carte e non dovevano usare violenza a nessuno, i quadri intermedi come Höss e Stangl si limitavano a dirigere la vita dei lager, gli esecutori effettivi delle eliminazioni nelle camere a gas spesso non 28 A. Speer, Memorie del Terzo Reich, Milano, Mondadori, 1976, p.162. 29 R. Hilberg, Carnefici, vittime, spettatori. La persecuzione degli ebrei 1933-1945, Milano, Mondadori, 1994, p.30. 30 E. Klee - W. Dressen - V. Riess (a cura di), «Bei tempi». Lo sterminio degli ebrei raccontato da chil’ha eseguito e da chi stava a guardare, Firenze, Giuntina, 1990.
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erano tedeschi e spesso erano addirittura scelti tra le vittime predestinate, come gli ebrei dei Sonderkommando. Ciascuno degli anelli della catena poteva scaricare la colpa su altri, poteva scindere il proprio ruolo personale dagli effetti complessivi della macchina.
Allo sterminio collaborarono attivamente esperti del Ministero degli Esteri nazista, solo in minima parte motivati da un personale antisemitismo ma pienamente concentrati sulla propria carriera di funzionari dello stato31. Il battaglione 101 di riservisti della polizia, responsabile della fucilazione di oltre 38 mila ebrei nella zona di Lublino in Polonia, era composto da circa 500 padri di famiglia di mezza età, in gran parte impiegati e lavoratori provenienti soprattutto dalla città di Amburgo, in gran parte ex socialisti e solo per un quarto iscritti al partito nazista32. I dirigenti della I.G. Farben, l’impresa chimica che utilizzava il lavoro dei detenuti nel lager di Auschwitz, perseguirono i loro affari con il potere nazista obbedendo a una coerente e asettica logica aziendale di sviluppo del fatturato e dell'occupazione33.
Insomma lo sterminio funzionò grazie a un apparato organizzato secondo criteri gerarchici di obbedienza ma si affidò anche alla implementazione creativa di sottoposti come Höss, cui si deve l’innovazione tecnologica dell’uso dei gas integrato all’interno dei forni crematori. Di per sé, questa dimensione procedurale non appare più prerogativa esclusiva dei regimi totalitari. Possiamo anzi vederla come la manifestazione paradossale di una razionalità burocratica moderna, abituata a identificarsi totalmente con l’"azienda" cui si appartiene e a posporre la morale rispetto al successo tecnico: la razionalità di un mondo nel quale la deumanizzazione dei soggetti procede parallela alla divisione e separazione delle loro mansioni34.
Questa deresponsabilizzazione era ed è strettamente collegata alla complessità organizzativa della società moderna che frammenta ruoli e funzioni individuali, distacca i mezzi dai fini, rende difficile una valutazione morale dei propri comportamenti. Gli operai delle industrie chimiche che allora producevano il gas per Auschwitz, o quelli delle industrie meccaniche che oggi producono navi da guerra o gli scienziati che hanno ideato la bomba atomica, sono responsabili dei morti causati dal loro prodotto? Quanti degli uomini che occupano posizioni in organizzazioni complesse sono abituati a porsi
31 C.R. Browning, The German Foreign Office and the Final Solution: A Study of the Referat DIII of Abteilung Deutschland 1940-1943, New York, Holmes and Meier, 1978.
C.R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, Torino, Einaudi, 1995. 33 P. Hayes, Industry and Ideology: I.G. Farben in the Nazi Era, New York, Cambridge University Press, 1987. 22
domande sugli scopi ultimi del proprio lavoro? A prendere in esame considerazioni di natura etica nelle proprie scelte di redditività ed efficienza?
Nel 1974 lo psicologo americano S. Milgram35 pubblicò i risultati di una ricerca destinata a provocare un acceso dibattito. A un campione di cittadini statunitensi venne chiesto di collaborare a un esperimento scientifico infliggendo scariche elettriche a delle cavie umane. Solo il 30% rispose positivamente alla richiesta di tenere a forza le mani della cavia sulla piastra. Ma se l’esperimento avveniva attraverso interruttori a distanza, con le reazioni della cavia nascoste alla vista e all’udito, la percentuale saliva al 65%. La conclusione di Milgram era che la possibilità di ignorare la propria responsabilità cresce quando si è soltanto l’anello intermedio di una catena decisionale e si è lontani dalla percezione degli effetti finali delle proprie azioni. Come ha testimoniato con chiarezza il capo di Auschwitz, l’espediente della camera a gas rappresentò «un conforto» per gli esecutori rispetto alla pratica troppo diretta e troppo penosa — ma anche meno rapida e «produttiva» — della fucilazione, magari compiuta su donne e bambini.
Non solo da questo punto di vista Auschwitz risulta imparentato con la modernità. Oggi sappiamo che la logica della pulizia etnica è sopravvissuta ai regimi totalitari e perdura nelle democrazie contemporanee: essa non esprime solo una reazione ma anche una forma di adattamento alla società moderna. Gli sviluppi odierni della psicologia sociale ci dicono che il razzismo fornisce una risposta al bisogno elementare di sicurezza vissuto da personalità immature, incerte di sé, impaurite dal rapporto con gli altri. La società di massa priva gli individui delle loro antiche identità di appartenenza di ceto e di clan: ognuno diventa libero e la sua vita sarà il risultato di ciò che egli, da solo, dimostrerà di saper fare. Alla vecchia e immobile sicurezza si sostituisce l’angoscia della competizione. Lo Stato razziale rimette invece le cose come stavano: ognuno è giudicato per quello che è, non per quello che fa. La nascita fissa di nuovo per sempre le gerarchie ed elimina l’ansia del confronto con gli altri. Ogni regime totalitario soddisfa il bisogno di una "fuga dalla libertà" e dalla responsabilità personale. Lo stato pensa e decide al mio posto36. Al tempo stesso l’appartenenza al partito e al regime genera un’identità di gruppo sicura ed immobile: un guscio e un riparo dentro una società in perenne movimento che tiene continuamente sotto esame e non rassicura. Alla stessa
34 Z. Bauman, Modernità e Olocausto, Bologna, Il Mulino, 1992. 35 S. Milgram, Obedience to Authority: An Experimental View, Londra, Tavistock, 1974.
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cosa servivano le uniformi dei piccoli Balilla e della Hitlerjugend. L’antisemitismo corrisponde alla scorciatoia pratica immediata per raggiungere tale scopo: eliminare gli ebrei significa eliminare l’immagine vivente di una civiltà urbana in movimento e senza confini. Anche in società del tutto lontane da esperienze totalitarie, come quella americana, l’antisemitismo emerge come indicatore estremo di una «personalità autoritaria» che soccorre una scarsa identità personale col rafforzamento dei legami di gruppo, si nutre di conformismo e xenofobia, divide il mondo tra «noi» e «loro» proiettando sugli altri l'immagine di un complotto organizzato da nemici potenti e oscuri37. Chiedete provocatoriamente ai vostri ragazzi cosa c’è dietro lo zainetto, le scarpe tutte uguali, che segnano la loro comune appartenenza a una compagnia: un’identità di gruppo che soccorre identità individuali ancora fragili. In conclusione, il processo di modernizzazione non riesce a cancellare il razzismo e la risposta, distorta ma efficace, che esso fornisce al bisogno di rassicurazione. Di conseguenza, "l’antirazzismo" non può continuare a confidare sulla ragione illuministica che predica l’uguaglianza degli uomini; esso in realtà presuppone una forza dell’identità individuale tale da permettere il riconoscimento del diverso da sé come motivo di ricchezza e non di
paura38.
Smontata nei suoi meccanismi interni, la macchina dello sterminio continua ad interrogare la coscienza dell’uomo contemporaneo. Continua a porre, in particolare, un problema politico cruciale: la differenza tra democrazia e totalitarismo è solo a livello strutturale e collettivo, nell’esistenza di spazi aperti al dissenso e nella pluralità dei centri di potere, o non anche e forse soprattutto in un'identità individuale fondata meno sull’obbedienza e più sulla responsabilità personale?
L’errore più grande della mia vita - ha scritto al figlio maggiore il comandante di Auschwitz - è stato di credere ciecamente a ogni cosa che veniva dall’alto e di non aver avuto il coraggio di nutrire il minimo dubbio sulla verità di quanto mi veniva detto39.
36 E. Fromm, Fuga dalla libertà, Milano, Comunità, 1963, ed.or. New York, 1941. 37 T.W. Adorno -E. Frenkel Brunswik - D.J. Levinson -R.N. Sanford, La personalità autoritaria, 2 vv.,Milano, Comunità, 1973, ed.or. New York, 1950. 38 P.A. Taguieff, La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e l'antirazzismo, Bologna, Il Mulino, 1994. 39 La lettera non è compresa nell’edizione italiana del Memoriale di Höss e si trova in S. Paskuly, Death Dealer. The Memoirs of the SS Kommandant at Auschwitz, New York, Prometheus, 1992, p.194.
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In fondo è questa l’unica lezione che conta trasmettere di fronte alle esperienze totalitarie che il secolo scorso ci ha lasciato in eredità. Nessun uomo è insignificante e impotente, buono solo a fare massa; ogni uomo è importante e acquista significato quando esprime la sua voce responsabile.
Superare il modulo didattico western equivale a tradurre in pratica questo principio etico: non esistono buoni e cattivi a priori, verità e schieramenti preconfezionati. Esistono le domande e la libertà di rispondere. Auschwitz si trova sempre in fondo alla strada di chi accetta che siano altri a rispondere al posto suo.
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3. I documenti e la memorialistica L’equivoco legato all’uso del termine Olocausto deve richiamare la nostra attenzione sull’importanza del rigore metodologico. La rievocazione dello sterminio è ricca di luoghi comuni, tramandati da un modo ripetitivo di concepire la storia. Si pensi solo per un attimo alla credenza popolare che i cadaveri dei campi di sterminio fossero utilizzati per la produzione di sapone. Nel "decostruire" questa verità ci si accorge che si tratta di una voce raccolta in ambienti militari nel corso del 1942 e rilanciata anche da fonti diplomatiche autorevoli come il rappresentante americano in Vaticano. Una voce che finora non ha trovato alcun riscontro probatorio effettivo e che invece era già circolata all’epoca della prima guerra mondiale nelle file dell’esercito inglese, a proposito di presunte officine tedesche addette alla fusione dei cadaveri (l'equivoco è legato al termine tedesco Kadaver che significa esclusivamente carogna di animale). Oppure si pensi a un testo di così grande impatto e diffusione come il diario di Anna Frank.. Solo l’edizione critica40 ha potuto appurare sia l’opera di censura effettuata dal padre sul testo pubblicato nel 1947 prendendo di mira soprattutto le parti più intime e sentimentali del diario, sia la completa riscrittura cui Anna sottopose la prima stesura del diario tra il maggio e l’agosto del 1944 con piena coscienza del valore non più soltanto privato della propria esperienza. La verifica critica del passato è riuscita, in questo caso, ad allargare il "santino" immobile e sacrale della tradizione restituendoci una Anna Frank più complicata e più vera, più umana e personale. Ma si pensi ancora ai numeri dello sterminio. Siamo abituati a ripetere la cifra canonica di sei milioni di ebrei uccisi e a reagire istintivamente contro ogni tentativo di metterla in discussione come un tentativo di ridimensionare le responsabilità del nazismo. Eppure da qualche anno la lapide che ad Auschwitz rendeva omaggio a quattro milioni di vittime è stata tolta.
Perché? Dipanare la matassa della verità significa mostrare — e soprattutto far apprezzare di nuovo — la fatica e il rigore della ricerca che vi sta dietro. Significa, in altre parole, far scendere quella verità dall’altare della rivelazione e della ripetizione rituale per renderla viva e appassionante come un’indagine in divenire. La cifra di sei milioni emerse nel corso del processo di Norimberga, seguendo due strade diverse: quella di fonti interne al Terzo Reich e quella delle organizzazioni ebraiche
40 H. Paape - G. Van Der Stroom - D. Barnw, De Dagboeken van Anne Frank, Amsterdam, Bert Bakker, 1986; ma si veda anche l’appendice di F. Sessi alla nuova edizione di A. Frank, Diario, Torino, Einaudi, 1993.
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internazionali. Il 26 novembre 1945 Wilhelm Höttl, un maggiore del Servizio di Sicurezza nazista, fornì sotto giuramento il resoconto di una conversazione avvenuta nella sua casa di Budapest nell’agosto 1944 con Adolf Eichmann, il maggiore delle SS responsabile della sezione ebraica nell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich.
Espresse la sua convinzione che la Germania avesse ormai perso la guerra e che lui personalmente non avesse più alcuna possibilità. Sapeva che le Nazioni Unite lo avrebbero considerato uno dei più importanti criminali di guerra, dal momento che aveva sulla coscienza sei milioni di vite di ebrei. Gli chiesi quante erano e lui rispose che sebbene la cifra fosse un grande segreto del Reich me l’avrebbe confidata dato che io, come storico, ero interessato e che lui con ogni probabilità non sarebbe tornato dalla sua missione in Romania. Poco tempo prima aveva compilato un rapporto per Himmler che voleva sapere il numero esatto di ebrei che erano stati uccisi. Sulla base delle sue informazioni Eichmann aveva ottenuto i seguenti risultati: circa quattro milioni di ebrei erano stati uccisi in diversi campi di sterminio mentre altri due milioni erano morti in altro modo, per la maggior parte fucilati dai reparti operativi della Polizia di Sicurezza durante la campagna di Russia. Himmler non fu soddisfatto del rapporto perché secondo lui il numero di ebrei uccisi doveva essere superiore a sei milioni.
L’affidavit (la testimonianza scritta e giurata dinanzi a pubblico ufficiale prevista dal diritto anglosassone) di Höttl compare tra i documenti allegati al processo di Norimberga con la sigla PS 2738 e si trova nel volume 31 degli atti41. Per altra via, il congresso ebraico mondiale confermò già nel 1946 le cifre attribuite ad Eichmann, sulla base dei rapporti pervenuti dai ghetti europei e dei calcoli effettuati sui censimenti europei precedenti al 1933 e successivi al 1945: le stime concordavano nel fornire un totale di perdite subite dagli ebrei in Europa nel corso della guerra oscillante tra i
5.659.000 e i 5.978.000. A metà degli anni Cinquanta i periodici di alcune organizzazioni neonaziste tedesche attribuirono alla filiale svizzera della Croce Rossa la cifra ufficiale di 300 mila vittime cadute nel corso delle persecuzioni politiche, razziali e religiose del regime nazista tra il 1939 e il 1945. Interrogato in proposito dall’Istituto per la storia contemporanea di Monaco, l’ufficio stampa del Comitato Internazionale della Croce Rossa negò di aver mai potuto fornire statistiche di perdite militari o civili, che non rientravano nelle competenze dell’organizzazione42. Ma intanto la prima ricerca 41 Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, v.31, Norimberga, 1947, pp.85-6. 42 W. Benz, Die Dimensions des Völkermords. Einleitung, in Id.(a cura di), Dimensions des Völkermords. Die Zahl der jüdischen Opfer des Nationalsozialismus, Monaco, Oldenburg, 1991, pp.5-6, trad.ital. in «Qualestoria», 21 (1993), nn.2-3, pp.1-28.
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storica sul tema43, pubblicata nel 1953, aveva criticato i dati di Norimberga come frettolosi e poco affidabili, proponendo un computo diverso basato sull'esame dei singoli casi nazionali che andava da un minimo di 4.194.200 a un massimo di
4.581.200. La ricerca di G. Reitlinger venne resa nota in Italia dagli articoli, poi ripubblicati in volume44, di L. Meneghello. In seguito, R. Hilberg ha verificato le documentazioni già esaminate da Reitlinger: le statistiche dei morti per privazioni e malattie che i consigli ebraici nei ghetti europei sottoponevano alle autorità naziste per la pianificazione delle razioni alimentari e degli spazi, insieme con i rapporti quotidiani e mensili delle Einsatzgruppen — i reparti di polizia politica che operarono ad Est — contenenti il riepilogo delle esecuzioni sommarie effettuate tra il 1941 e il 1943 ai danni della popolazione civile. Ma ha anche recuperato negli archivi delle ferrovie del Reich e dei territori occupati le liste dei partenti nei treni destinati ai diversi campi di sterminio. Su questa base Hilberg giunge a un totale di 5.100.000 vittime, di cui 800.000 mietute nei ghetti, 1.300.000 fucilate nel corso della guerra e 3.000.000 soppresse all’interno dei Lager45. L’ultimo studio complessivo apparso nel 1991 e basato sulla ricostruzione di 17 casi nazionali ha però reinnalzato la stima complessiva delle vittime a oltre sei milioni, portando alla luce nuove documentazioni relative alla Bulgaria e all’Unione Sovietica46. La stima totale più bassa che emerge dalla ricerca di W. Benz è di 6.281.081 vittime. La discrepanza più sensibile con gli studi precedenti riguarda i territori sovietici occupati dalle truppe naziste, le cui vittime sono valutate in 2.100.000. Hilberg giunge per queste zone a un totale di 900.000. Questa macabra esercitazione contabile sembra quasi una realizzazione a posteriori del progetto nazista: l’annullamento del tesoro unico ed irripetibile che ogni singola vita umana rappresenta. È vero. Anche se in alcuni paesi (Francia, Olanda, ex-Germania federale, Belgio) è stato possibile ricostruire le liste nominative dei deportati47, i numeri non riescono più ad esprimere una dimensione riconoscibile, una grandezza commensurabile. Li ho voluti richiamare soltanto come indicazione di un sentiero nel bosco dei documenti, come tracce di una pista da percorrere a ritroso alla ricerca della verità. Finora questo percorso ci mostra che quasi cinque decenni di ricerca non hanno
43 G. Reitlinger, La Soluzione Finale. Il tentativo di sterminio degli Ebrei d'Europa 1939-1945, Milano, Il Saggiatore, 1962, p.597 sgg. 44 L. Meneghello, Promemoria, Bologna, Il Mulino, 1994. 45 R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, Torino, Einaudi, 1995, p.1303 sgg. 46 W. Benz, Dimensions des Völkermords, cit., pp.15-6.47 L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia 1943-1945, Milano, Mursia, 1992.
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spostato di molto le valutazioni di prima mano fornite dai protagonisti. La fonte intenzionale e retrospettiva di parte nazista è stata sostanzialmente confermata dall'esame di documenti coevi burocratici e "involontari", non finalizzati alla testimonianza per i posteri.
Ma non sempre è così. Diverso, ad esempio, è il caso specifico del campo di prigionia di Auschwitz, il cui comandante, Höss, dichiarò a Norimberga di aver sterminato due milioni e mezzo di ebrei. Secondo l’affidavit48 di Höss del 5 aprile 1946 a 2.500.000 di morti nelle camere a gas andavano aggiunti altri 500.000 decessi per cause naturali. Ma Höss medesimo ha poi criticato come eccessiva questa cifra49. A differenza di quella di Eichmann, la memoria di Höss è stata però smentita dal raffronto delle stime demografiche relative alle comunità ebraiche in Polonia prima e dopo l’occupazione nazista con la somma dei convogli ferroviari arrivati al campo. Su questa base documentaria, G. Reitlinger ha ridimensionato la cifra dei morti di Auschwitz a 770.000, Hilberg a un milione. L’apertura recente degli Archivi centrali di Mosca ha consentito l’esame della serie quasi completa dei registri mortuari tenuti dalle autorità del lager tra l’agosto 1941 e il dicembre 1943. J.C. Pressac, che per primo li ha esaminati, ne estrapola la cifra di 126 mila detenuti morti per cause naturali e iscritti nei registri, cui aggiunge da 470 a 550 mila ebrei uccisi immediatamente al loro arrivo,
15.000 prigionieri di guerra sovietici e 20 mila internati diversi (zingari e di altre nazionalità), per un totale oscillante tra 631 e 711 mila morti. Ma l’edizione italiana del libro presenta, a questo proposito, notevoli discordanze con l’edizione originale francese. Insomma, dovremo riscrivere la lapide di Auschwitz e forse dovremo riscriverla ancora: anche questo è un modo meno riverente ma sicuramente più partecipato di rendere vita alla memoria di ogni vittima. È come se lo storico, per recuperare la propria funzione civile di avanzamento della conoscenza, avesse di fronte a sé il dovere iconoclasta di trasformare Auschwitz da "monumento a strumento" di interrogazione sul presente: smontarlo nelle sue logiche interne per comprenderne la presenza scabrosa e ingombrante al centro della nostra modernità. Per non pensare Auschwitz, lo abbiamo fatto uscire dalla storia, lo abbiamo attribuito alla follia degli uomini, alla barbarie, all’oscurantismo medievale, tutti riferimenti astratti e atemporali. Ma pensare
48 Documento PS 3868 in Trial of the Major War Criminals cit., v.33, p.276. 49 Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss, Torino, Einaudi, 1960, p.196.
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Auschwitz significa non concedere Auschwitz al mistero e all’irrazionale. Per far questo lo storico deve anche rendere accessibili le verità che conquista, mostrando la strada percorsa per arrivarci, la "cassetta degli attrezzi" del proprio mestiere: le fonti documentarie su cui si fonda, le categorie analitiche che usa, le interpretazioni con le quali si confronta.
La segretezza, soprattutto sul tema della persecuzione razziale, aveva sempre rappresentato una vera e propria ossessione per il regime nazista. Ciò nonostante le truppe alleate riuscirono comunque a sequestrare una mole enorme di documenti che, raccolti presso il Federal Records Center di Alexandria nello Stato americano della Virginia, occuparono più di otto chilometri di scaffali lineari. Il loro contenuto, catalogato e in gran parte microfilmato, è stato descritto in 67 Guides to German Records Microfilmed curate dalla American Historical Association e alla fine degli anni Sessanta è stato restituito nella sua interezza alla Germania, che lo ha diviso fra l’Archivio civile di Coblenza e quello militare di Friburgo.
Le verità conservate nei documenti non sono mai neutre. Ben lo sapevano i gerarchi del Reich ansiosi di distruggerle; ben lo sapevano gli alleati interessati a utilizzarle contro il loro nemico. Ad entrambi era chiara la natura compromettente di documenti ufficiali "involontari", frutto normale della routine quotidiana di lavoro, cui era molto difficile attribuire intenti di falsificazione o di deformazione ideologica. Quelle fonti involontarie vennero così raccolte, selezionate e utilizzate per lo scopo meno involontario che esista: l’accumulo di prove per il processo di Norimberga. I collegi accusatori di Stati Uniti, Francia, Inghilterra e Unione Sovietica si misero alla ricerca dei documenti che con maggiore chiarezza provavano le responsabilità naziste e che a tale scopo vennero presentati nel corso del dibattimento. Insieme ai resoconti delle sedute processuali, il materiale documentario scelto con questi criteri venne subito pubblicato in tre edizioni identiche di ben 42 volumi in lingua francese, inglese e tedesca, noti dal colore della copertina come «serie blu»50. Ogni documento conservava
— e in questa forma viene ancor oggi citato — un riferimento archivistico originario, composto di un numero d’ordine e di una sigla che può riferirsi sia al contenuto sia alla provenienza della fonte: PS ad esempio indica un documento compreso tra quelli raccolti dagli americani a Parigi, mentre NO sta per «Nazi organizations» e NOKW per 50 Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, 42 vv., Norimberga 19471949.
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«Nazi Oberkommando der Wehrmacht». Tra i documenti si trovano anche testimonianze (come quelle di Höttl e Höss) che però appartengono a un altro genere di fonti "volontarie", costruite intenzionalmente e filtrate dalla memoria, per loro stessa natura più aperte ad errori e condizionamenti interni ed esterni. Come abbiamo visto nel caso di Höss, affidarsi unicamente alla loro "verità", senza ulteriori riscontri, può risultare anche fuorviante.
Dopo il processo ai 22 criminali di guerra più importanti, la corte alleata insediata a Norimberga istituì altri 12 procedimenti nel corso dei quali vennero giudicate responsabilità diverse da quelle degli alti gerarchi nazisti, che andavano dai crimini commessi dai medici tedeschi e dal personale di servizio nei Lager allo sfruttamento di lavoro schiavistico da parte di industrie tedesche. Un resoconto condensato e una selezione dei documenti esibiti a questi processi furono pubblicati nella cosiddetta «serie verde»51. In parallelo uscì una selezione di materiale curata dal governo degli Stati Uniti in otto volumi e due supplementi dal titolo Nazi Conspiracy and Aggression, nota anche come «serie rossa»52. Sono poi uscite numerose scelte di queste raccolte, ma nel corso degli anni al materiale processuale di Norimberga si sono via via affiancate nuove documentazioni: le fonti ferroviarie indagate da R.Hilberg53, gli elementi accumulati nel corso della caccia ai criminali sfuggiti alla giustizia dall’Ufficio Centrale delle amministrazioni giudiziarie di stato per l’accertamento dei crimini nazisti aperto in Germania a Ludwigsburg, vicino a Stoccarda, nel 1958, gli archivi sovietici solo di recente aperti agli studiosi.
Se la preoccupazione nazista era quella di cancellare la documentazione del proprio operato, esattamente opposto è stato lo sforzo delle vittime. Conservare una traccia scritta delle proprie esperienze era un modo per sopravvivere, per sconfiggere la violenza che li investiva. Il 5 marzo 1945 nel terreno del campo di Auschwitz venne dissotterrata una bottiglia di alluminio con dentro una lettera che iniziava così:
51 Nuremberg Military Tribunals, Trials of War Criminals, 15 vv., Washington 1947-1949. 52 Office of United States Chief of Counsel for Prosecution of Axis Criminality, Nazi Conspiracy and Aggression, 10 vv., Washington, United States Government Printing Office 1946-1948. 53 R. Hilberg, Sonderzüge nach Auschwitz, Mainz, Dumjahn, 1981.
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caro scopritore, cerca ancora ovunque in ogni zolla di terra. Dozzine di documenti vi sono sepolti, i miei e quelli di altre persone, che faranno luce su quanto è accaduto in questo posto. C’è sepolto anche un gran numero di denti. Siamo stati noi, del Sonderkommando, a spargerli tutt’intorno nel più gran numero possibile, perché il mondo trovasse tracce materiali dei milioni di uomini assassinati. Noi abbiamo ormai perso la speranza di poter vivere per vedere il momento della liberazione54.
Gli originali di questa e di altre testimonianze ritrovate dopo la guerra nel campo di Auschwitz sono conservati presso il Museo di Oswiecim (il nome polacco della cittadina di Auschwitz). Oneg Shabbat, «le gioie del sabato», era il nome dell’organizzazione che cominciò a raccogliere materiale informativo e culturale di vario genere tra i 450 mila ebrei di Varsavia — più di un terzo degli abitanti della città
— che erano stati rinchiusi nel ghetto fin dall'autunno 1940. In tre riprese, tra l’agosto 1942 e l’aprile 1943, vennero sotterrati dei bidoni di metallo contenenti testimonianze, poesie, documenti che sopravvissero alla distruzione del ghetto ordinata il 16 febbraio 1943 dal capo delle SS, Heinrich Himmler. Dopo la fine della guerra, nel settembre 1946, venne ritrovata una parte dei bidoni con 1209 documenti scritti; nel dicembre 1950 un'altra parte con 484 testi, che insieme ai precedenti sono conservati in originale nell'Istituto di storia ebraica di Varsavia. Una terza parte, che si presume riferirsi all’insurrezione del ghetto, manca ancora all’appello. Come quella più nota di Anna Frank, queste testimonianze provengono in diretta dal teatro degli avvenimenti e sono il frutto di una volontà precisa di lotta per la sopravvivenza della memoria. Mi limito a richiamare la testimonianza del capo di Oneg Shabbat55, giustiziato nel marzo 1944. Sono fonti intenzionali nel più alto e drammatico senso del termine: ideate e realizzate ad uso dei posteri contro la cancellazione della propria esistenza. Alla cultura ebraica, in particolare, appartiene per tradizione la costruzione sociale di un legame forte tra la memoria trasmessa di generazione in generazione e l'identità collettiva di popolo: ricordare significa tenere insieme i vecchi con i giovani, i morti con i vivi.
Ancora prima della fine della guerra e della fondazione dello Stato di Israele, l’idea di un luogo del ricordo per le vittime dell’antisemitismo nazista aveva gettato le sue
54 Handschriften der Mitglieder des Sonderkommandos, «Hefte von Auschwitz», 1, 1972, p.118. 55 E. Ringelblum, Sepolti a Varsavia. Appunti dal Ghetto, Milano, Il Saggiatore, 1962. Tradotti in italiano sono anche M. Berg, Il ghetto di Varsavia. Diario (1939-1944), Torino, Einaudi, 1991; J. Gumkowsky
A. Rutkowsky - A. Astel (a cura di), Diario dal ghetto di Lodz, Roma, Teoria. 1989; J. Bauman, Inverno nel mattino. Una ragazza nel ghetto di Varsavia, Bologna, Il Mulino, 1994. 33
basi nella comunità ebraica internazionale. Yad Vashem (letteralmente «un posto e un nome», secondo le parole del profeta Isaia) è il museo-monumento che il Parlamento israeliano decise all’unanimità nel 1953 di erigere vicino a Gerusalemme. Visitato ogni anno da più di un milione di persone, questo luogo ha lo scopo di restituire un nome ad ogni ebreo caduto nei Lager e di conferirgli la cittadinanza onoraria postuma dello Stato di Israele, così come di ricordare «i giusti delle nazioni» che hanno soccorso gli ebrei durante le persecuzioni. Yad Vashem è quindi un centro di ricerca attivo, con una biblioteca ricca di 80 mila volumi e pubblicazioni scientifiche correnti; ma anche un simbolo della «religione laica» che collega la battaglia per l’indipendenza nazionale di Israele alla resistenza dei ghetti europei contro l’oppressione nazista.
Assai più problematica questa conservazione è stata, ad esempio, per le popolazioni zingare: oggetto, al pari degli ebrei, delle persecuzioni naziste — le stime più recenti valutano in 500 mila il numero delle loro perdite sotto il Terzo Reich — ma meno capaci di affermare i propri diritti del tutto trascurati al processo di Norimberga e meno legate a una tradizione della memoria scritta. Anche per questo l’Holocaust Memorial Museum inaugurato nell’aprile 1993 sul National Mall di Washington — nel cuore della civiltà americana, tra i monumenti a Lincoln, a Washington, ai caduti in Vietnam — ha inteso allargare i propri confini a tutte le vittime non ebree del nazismo. Ogni persona che entra nell’Holocaust Memorial viene collegata all’identità di un perseguitato e nel corso della visita viene progressivamente svelato il destino del proprio "doppio".
La memoria ridiventa così qualcosa di vitale, un’esperienza concreta che interroga e coinvolge tutti gli uomini dell’oggi senza differenze di religione e cultura. All’uscita dal museo, gli stessi luoghi-simbolo della democrazia americana sono destinati ad apparire in una luce diversa da prima: meno rituale e più problematica.
Non è sempre stato così. Nell’immediato dopoguerra la memoria delle vittime ha faticato ad affermarsi. Gli incubi, i pudori e le difficoltà di comunicazione dei testimoni si combinarono con l’"amnesia collettiva", la voglia di rimozione e di rinascita senza il peso del passato — se non anche un sotterraneo e persistente antisemitismo — di chi testimone non voleva essere. Solo a poco a poco, in modo spontaneo o organizzato collettivamente attraverso le associazioni nazionali di ex-deportati — e in parallelo alla costruzione del mito patriottico della Resistenza contro l’occupante nazista — è cresciuto nella cultura europea un intero e variegato filone di letteratura memorialistica,
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fatta di ricordi e testimonianze56. In particolare quest’ultimo testo è particolarmente importante perché sottolinea le differenze di comportamento individuale all’interno del lager: anche nel laboratorio di sperimentazione del potere totale non fu possibile cancellare del tutto sentimenti di altruismo e generosità.
È probabile che una svolta importante nell’affermarsi di questa verità della memoria si sia avuta con il processo Eichmann, celebrato nel 1961 a Gerusalemme. Adolf Eichmann fuggì nel 1945 da un campo di prigionia americano e riparò sotto falso nome in Argentina, dove fu catturato nel 1960 dai servizi segreti israeliani. Il processo di Gerusalemme si concluse con una condanna a morte, che venne confermata in appello ed eseguita il 31 maggio 1962. Sulle colonne della rivista americana «New Yorker» H. Arendt scrisse un resoconto del processo, poi raccolto in un libro57. Da quel momento anche la ricerca storica conobbe un impulso nuovo — al 1961 risale la prima edizione dell’opera di Hilberg58 — e il racconto dello sterminio uscì dalla ristretta cerchia dei diretti interessati. Il mondo intero fu messo a confronto con una realtà imbarazzante che presentava gli ideatori delle camere a gas come uomini banali, normali, uguali a tutti gli altri, che proprio per questo potevano nascondersi e continuare a vivere tranquillamente.
Alla memorialistica delle vittime si aggiunse così quella di parte nazista, direttamente autobiografica (come il Memoriale di Höss) o sollecitata sotto forma di intervista (come quella al capo del lager di Treblinka Franz Stangl59). Si tratta di documenti spesso deformati da intenzionalità autoassolutorie se non da esagerazioni di segno opposto, come abbiamo visto nel caso dei ritmi di sterminio vantati dal comandante di Auschwitz. Ma che regolarmente sfuggono al cliché fumettistico del nazista sadico e psicopatico, rivelando invece la banale "normalità" di funzionari incolori.
L’unico modo che avevo per sopravvivere era di dividere la mia coscienza in compartimenti stagni. In tal modo potevo applicare questo principio alla mia situazione; se il "soggetto" era il governo, l’"oggetto" erano gli ebrei, e l’"azione" erano i gasaggi, allora potevo dire a me stesso che, per me, il quarto elemento, lo "scopo" mancava60.
56 A. Bravo - D. Jalla, Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia 1944-1993, Milano, Angeli, 1994. Sono diverse anche le opere storiche costruite sulle testimonianze, tra le quali milimito a ricordare H. Langbein, Uomini ad Auschwitz, Milano, Mursia, 1985; A. Bravo - D. Jalla, La vitaoffesa, Milano, Angeli, 1986; T. Todorov, Di fronte all’estremo, cit.57 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1964. 58 R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, cit.59 G. Sereny, In quelle tenebre, cit.60 Id., p.220.
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Nel suo freddo linguaggio di burocrate, che gli serve a mantenere le distanze dall’orrore, il ragionamento di Stangl è certamente ipocrita ma investe un nodo di fondo. Tutti i sistemi giuridici moderni collegano imprescindibilmente l’esistenza di un reato alla volontà del reo e alla piena coscienza soggettiva di tale volontà. Nascondendosi dietro l’obbedienza a ordini superiori, Stangl cancellava la propria volontà e quindi il proprio reato. Anche Eichmann a Gerusalemme non negò l’autenticità dei circa 1600 documenti, in gran parte tratti dal materiale raccolto a Norimberga, che comprovavano la responsabilità dell’ufficio da lui diretto nella «soluzione finale» del problema ebraico. Si limitò a negare — a quanto se ne sa, con ragione — di aver ucciso personalmente un ebreo o un non ebreo. Il tribunale israeliano, come quello di Norimberga, si trovava così ad affrontare una contraddizione di fondo: dover giudicare cittadini di un altro stato sovrano per aver obbedito alle leggi di quello stato. Fino al 1945 gli accordi sottoscritti dalle maggiori potenze del mondo si limitavano a regolare il trattamento dei militari prigionieri di guerra. La convenzione firmata a L’Aja il 18 ottobre 1907 che includeva, oltre agli eserciti regolari, anche le forze volontarie purché riconoscibili a distanza (articolo 1), obbligava gli stati al mantenimento dei prigionieri secondo le leggi territorialmente vigenti (articoli 7 e 8) e proibiva l’attacco con ogni mezzo a insediamenti civili non difesi militarmente (articolo 25). Queste norme vennero confermate a Ginevra il 27 luglio 1929 nell’accordo riconosciuto da 47 nazioni — tra cui la Germania — che regolava la vita nei campi per prigionieri di guerra, prescrivendo ad esempio razioni alimentari pari a quelle delle truppe sorveglianti (articolo 11). Su questa base giuridica gli articoli 228230 del trattato di pace della prima guerra mondiale obbligavano il nuovo governo tedesco a perseguire i crimini di guerra perpetrati dai propri militari. Ma su una lista fornita dagli alleati di quasi 900 responsabili di vari reati — dall’affondamento di una nave ospedale al maltrattamento di prigionieri — i tribunali tedeschi comminarono soltanto 13 condanne per una pena massima di 4 anni di detenzione.
Il diritto internazionale si infrangeva contro la barriera della sovranità nazionale degli stati. Ma soprattutto si limitava a fissare un "galateo" di guerra che la nuova e terribile realtà della guerra totale emersa con il secondo conflitto mondiale aveva mandato in frantumi. Nel 1945 era chiaro che i principi fissati a L’Aja e a Ginevra erano stati violati dagli eserciti hitleriani con il trattamento riservato ai deportati nei lager e con le rappresaglie ai danni di civili in risposta alle azioni partigiane. Ma inglesi e americani
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avevano bombardato intere città tedesche e giapponesi come Dresda o Hiroshima; i sovietici si erano spartiti la Polonia con Hitler e avevano fucilato 15 mila soldati polacchi a Katyn. La costituzione di un tribunale militare internazionale che giudicasse il Terzo Reich si presentava quindi come una soluzione problematica, che non mancò di sollevare opposizioni soprattutto da parte di Churchill: una soluzione dotata di basi giuridiche internazionali solo sul terreno dei crimini di guerra — suscettibile di imbarazzanti ritorsioni — ma del tutto priva di precedenti per crimini commessi da uno stato contro i propri cittadini.
Era però altrettanto chiaro che Hiroshima e Auschwitz rendevano indispensabile e urgente un nuovo diritto internazionale che limitasse la facoltà degli stati di perseguitare una parte dei propri cittadini come anche di ricorrere alla guerra e di estenderla senza ritegno alle popolazioni civili. Peraltro, basi giuridiche per procedere in tal senso erano presenti anche nel diritto nazionale della Germania nazista. Il codice penale riformato da Hitler ed esteso alle regioni conquistate dal Reich puniva l’omicidio senza riguardi alla razza, alla religione, alla nazionalità dell’ucciso; e i regolamenti militari nazisti in vigore durante la guerra condannavano il soldato che avesse eseguito un ordine superiore «sapendo che l’ordine aveva lo scopo di condurre a un crimine o a una illegalità sia militare sia civile». Attraverso un lungo e complesso negoziato, Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia e Gran Bretagna si accordarono nell’agosto 1945 per una Carta che stabilisse le basi dell'azione giudiziaria delle potenze vincitrici. L’articolo 6 stabiliva la tipologia dei reati perseguiti. Accanto ai crimini di guerra definiti nei termini tradizionali di «assassinio, maltrattamento o deportazione» di popolazioni civili e prigionieri nemici così come di saccheggio e devastazione di abitati non giustificati da necessità militari, erano individuati altri due generi di reato: i crimini contro la pace, intesi come pianificazione di una guerra di aggressione, e i crimini contro l’umanità:
vale a dire assassinio, sterminio, schiavizzazione, deportazione e altri atti inumani commessi ai danni di ogni popolazione civile, prima o durante la guerra, o persecuzioni su base politica, razziale o religiosa in esecuzione o in connessione di ogni altro crimine sottoposto alla autorità del tribunale, siano esse compiute in violazione o meno delle leggi vigenti nel territorio dove sono perpetrate.
Lo "strappo" giuridico di questa formulazione non era indifferente. Per la prima volta il diritto internazionale oltrepassava i confini territoriali dello stato di diritto,
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sostituendosi esplicitamente — con l’ultima frase — alle leggi in vigore nella Germania nazista. Non solo: questa ingerenza contravveniva a uno dei principi fondamentali del diritto moderno sintetizzato dalla formula nullum crimen, nulla poena sine lege, applicando in senso retroattivo nuove norme ancora non vigenti all'epoca dei reati.
I giudici di Norimberga e anche quelli del processo di Tokyo intentato ai criminali di guerra giapponesi (che durò dal 3 maggio 1946 al 12 novembre 1948 e giudicò 28 alti funzionari militari e politici giapponesi, comminando 7 condanne a morte e 21 condanne a pene detentive) difesero il loro strappo sostenendo la necessità di un diritto internazionale che garantisse la pace come un bene collettivo da proteggere con la legge. Norimberga e Tokyo, insomma, non si basavano sul passato e su una giurisprudenza consolidata ma si appellavano al futuro di un nuovo ordine mondiale: lo stesso obiettivo che figurava in testa allo statuto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, fondata a San Francisco nel giugno 1945. Proprio sulla base dei «crimini contro l'umanità» giudicati a Norimberga, la Convenzione dell’ONU approvata nel 1948, definì il nuovo reato di «genocidio», inteso come «azioni commesse con l'intento di distruggere per intero o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale».
Lo strappo di Norimberga aveva così l’ambizione di prospettare un nuovo mondo in cui l’esistenza stessa di un diritto internazionale implicasse un livello più alto di corresponsabilità umana. Significasse cioè considerare ogni azione contro la pace un danno apportato non solo alla singola comunità aggredita bensì all’ordine e all’equilibrio del mondo intero; ogni tentativo di genocidio non solo un crimine condotto nei confronti di quel popolo bensì un attentato alla ricchezza che con la propria diversità quello stesso popolo apporta all'umanità nel suo complesso. Non c’è bisogno di sottolineare come e quanto questa nobile petizione di principio sia stata disattesa fino ai giorni nostri. Essa rimane ancora tra gli impegni cui il genere umano deve porre mano per migliorare la qualità della convivenza su questo pianeta.
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4. Il tempo della pace Poche ore prima di togliersi la vita nel bunker della sua Cancelleria ormai assediata dall’Armata Rossa, Hitler dettò il suo testamento politico.
Non è vero che io o chiunque altro in Germania abbiamo voluto la guerra nel 1939. Essa è stata voluta e provocata esclusivamente da quegli uomini di stato internazionali che erano d'origine ebraica o lavoravano per interessi giudaici [...] Passeranno secoli, ma dalle rovine delle nostre città e dei nostri monumenti si rinnoverà l'odio contro il popolo alla fin fine responsabile, che dobbiamo ringraziare per tutto questo: il giudaismo internazionale e i suoi soccorritori [...] Soprattutto impongo ai dirigenti della nazione e ai dipendenti di mantenere rigorosamente le leggi razziali e di opporre una resistenza inesorabile all'avvelenatore di tutti i popoli, il giudaismo internazionale61.
La suprema eredità politica che il Führer consegnava al mondo e alla storia non era la riscossa espansionistica della Germania né la difesa dell’Occidente dal «bolscevismo asiatico»: era l’antisemitismo. Nel fissare questa priorità, Hitler rispettava una logica coerente. In Mein Kampf («La mia battaglia»), la summa ideologica scritta in carcere vent’anni prima, era già la questione ebraica a detenere lo spazio maggiore: i riferimenti all’ebraismo erano circa 3 volte più frequenti di quelli a bolscevismo, comunismo e marxismo.
Questa centralità teorica e pratica dell’antisemitismo distingueva nettamente il movimento nazista dal suo antecedente storico più vicino: il fascismo italiano. Ma era anche il riflesso sia del peso diverso che la comunità ebraica esercitava nella Germania degli anni Venti rispetto all’Italia — circa 500 mila contro 40 mila — sia di una tradizione assai più viva e diffusa. Alle spalle di questa tradizione stava una cultura popolare millenaria, cresciuta con l’insegnamento religioso delle chiese cristiane e abituata a stigmatizzare negli ebrei gli «assassini del Figlio di Dio». Gli eccidi di massa condotti in base a questa accusa risalivano fino alle "deviazioni" che nella primavera del 1099 i primi Crociati effettuarono, lungo la strada del Santo Sepolcro, nelle città di Worms, Spira e Magonza. Soprattutto in Europa orientale la prassi dei pogrom (vocabolo russo che significa «saccheggio») ai danni degli ebrei si mantenne nel tempo,
61 Il testamento di Hitler è il documento di Norimberga PS 3569, in Trial of the Major War Criminals cit., v.41, pp.547-52.
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accompagnandosi regolarmente alle guerre e alle sommosse popolari. Ma anche altrove, nel solco aperto dalla persecuzione religiosa si fecero largo gli stereotipi dell’ebreo errante, parassita e cospiratore, che alla fine dell’Ottocento si cristallizzarono nei Protocolli dei Savi di Sion: che nel 1920 in Germania aveva già venduto 120 mila copie.
Nel corso dell’Ottocento su questo antisemitismo religioso si venne innestando un nuovo antisemitismo laico e scientista, a carattere razziale, che mutuava da Darwin il principio della lotta e della selezione naturale: l’ebreo diventava il bacillo capace di infettare, minare e alla fine distruggere anche le razze più pure e superiori, come quella ariana. Si trattava di un salto di qualità decisivo rispetto al razzismo coloniale che, fissando una gerarchia tra i bianchi dominatori e gli "altri" dominati, assegnava pur sempre un ruolo complementare ai sottoposti nell’ambito di un rapporto di sfruttamento. Il nuovo razzismo entrava, invece, in una logica di esclusione reciproca — "o noi o loro" — e quindi di eliminazione e "sterminabilità". Da numerosi autori appartenenti a questo filone di pensiero (Liebenfels, List, Schönerer) Hitler attinse gli strumenti per sconvolgere le categorie tradizionali della politica. Alle rovine della Germania, sconfitta dalla guerra e rovinata dalla pace di Versailles, si trovava finalmente un responsabile palese, vicino, individuabile e debole. A questo nemico interno si sovrapponeva per giunta un nemico esterno: era sempre la finanza ebraica a provocare i debiti e l’iperinflazione della Germania. Dietro il bacillo infettivo spuntava l’ombra del complotto dei «Savi di Sion».
Perché la lotta contro gli ebrei ebbe per Hitler questa importanza così decisiva, abbastanza priva di riscontri in altri regimi totalitari e in altri casi di genocidio del Novecento?
Alcuni storici hanno cercato la risposta a questa domanda in motivazioni psicologiche profonde, collegando il trauma collettivo tedesco della sconfitta nella prima guerra mondiale al trauma individuale della morte della madre di Hitler, in cura presso un medico ebreo62. Non è una risposta da scartare alla leggera. È vero che identificare il male con la follia di pochi rappresenta per molti un alibi allettante. Ma è altrettanto vero che uno dei tratti fondamentali delle dittature del Novecento risiede nel ruolo determinante di un uomo solo: senza Mussolini difficilmente ci sarebbe stato il fascismo, senza Hitler difficilmente l’antisemitismo avrebbe avuto questo peso cruciale
62 R. Binion, Hitler among the Germans, New York, Elsevier, 1976; R.G.L. Waite, The Psychopathic God: Adolf Hitler, New York, Basic Books, 1977.
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nella storia della Germania. Riuscire a spiegare le ossessioni personali di Hitler, però, non serve a spiegare perché nel 1932 un partito antisemita come quello nazista controllava più di un terzo dei voti degli elettori tedeschi.
Franz Stangl, il capo del lager di Treblinka, ha una risposta semplice: «volevano i soldi degli ebrei»63, i loro averi, i loro posti di lavoro. E pure, potremmo aggiungere, forza lavoro a costo vicino allo zero da destinare all’industria bellica. Anche questa non è una risposta banale. Esprime uno dei canoni fondamentali che reggono la teoria (e la pratica) dell’economia contemporanea: ogni individuo obbedisce a una razionalità utilitaria di massimizzazione degli utili e minimizzazione dei costi. Era interesse del Terzo Reich — in altre parole — perseguitare gli ebrei per trarne un vantaggio economico: è il fondamento dell’interpretazione sovietica del nazismo come frutto del capitalismo, che ha sempre sottaciuto i contenuti razziali dello sterminio riducendolo allo sfruttamento di lavoro schiavistico e all'eliminazione sistematica di oppositori reali
o potenziali. Questa logica economica non era estranea a uomini e sfere di comando del regime. Nel dicembre 1943 a Himmler vennero trasmessi rapporti dettagliati sugli aspetti economici dello sterminio, che stimavano in centinaia di milioni di marchi l’ammontare dei beni sottratti ai deportati. Per tutta la fase precedente allo sterminio vero e proprio, quando nelle casse naziste affluirono i proventi delle confische e delle tasse sull'emigrazione, il bilancio di costi e ricavi della persecuzione antisemita fu in attivo. Ma il saldo diventò negativo quando nel computo entrò la distrazione di risorse dallo sforzo bellico per il trasporto dei deportati, l’installazione e il funzionamento dei lager. Il contributo all’industria di guerra del lavoro schiavistico dei detenuti nei lager — da non confondere con quello dei lavoratori stranieri più o meno liberamente impegnati nel territorio del Reich — fu irrilevante. Gli ebrei dei ghetti che affidarono a questa logica economica la propria sopravvivenza — finché siamo utili lavorando, non ci uccideranno
— furono tragicamente disillusi: la logica razziale dello sterminio non era la maschera di interessi economici, era il fulcro dell’intero sistema. Chi ha studiato da vicino l’evoluzione della propaganda hitleriana ha trovato un’altra risposta che identifica nell’antisemitismo la chiave ideologica di un’opposizione radicale alla modernità. L’idea dello Stato razziale riprendeva ed estremizzava la tradizione romantica e ottocentesca del Volk tedesco. Non solo nei contenuti ma anche
63 G.Sereny, In quelle tenebre, op. cit., pp.135 e 312.
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nelle forme di spettacolarizzazione della politica — le adunate di massa, le parate marziali, le uniformi e le organizzazioni paramilitari d’élite — il movimento nazista traeva ispirazione dal passato mitologico dei popoli germanici, barbari e guerrieri64. Recuperando queste radici la rivoluzione hitleriana restituiva alla Germania la propria identità nazionale e quindi la forza militare, attraverso l’autorità indiscussa dello Stato e di un unico leader. Ognuno di questi valori — nazionalismo, militarismo, dittatura — era l’esatto opposto dei principi di libertà — democrazia, pacifismo, internazionalismo
— nati con la Rivoluzione francese. Gli ebrei senza patria e senza armi erano i simboli viventi di tali principi e in quanto tali costituivano un bersaglio privilegiato: la loro eliminazione era, insieme, lo strumento e il banco di prova della nuova «politica biologica» di potenza. Il nazismo incarnava così il sogno di una reazione integrale, "transpolitica", contro lo sviluppo di una società moderna: industriale, urbana, pluralistica, interamente secolarizzata e in perenne movimento65. All’autorità legale si contrapponeva l’autorità carismatica, all’attivismo il fatalismo, all’organizzazione razionale il rituale di massa, alla specificità funzionale delle competenze l’ideologia generica. Nella Germania prostrata e confusa del dopoguerra — ma forse ovunque prevalga la sfiducia nei confronti dei governanti — l’antisemitismo era uno strumento formidabile di propaganda che dava risposte facili alle ansie di tutti. Non possiamo collocarlo con facilità alle nostre spalle. Se ci guardiamo intorno vediamo che il crollo del comunismo e del progetto di uno stato concepito come strumento per difendere una classe sociale contro le altre, ha lasciato due sole alternative concrete alla democrazia mobile e pluralistica: lo stato fondato su integralismi religiosi e quello fondato su discriminazioni etniche.
Il progetto nazista di uno stato fondato sulla pulizia etnica va preso sul serio: non era semplice propaganda. All’idea razzista vennero piegati — con incentivi e minacce — ordini professionali e discipline scientifiche, che fornirono il proprio contributo all’elaborazione della politica nazista in campo razziale. I criteri del miglioramento
64 G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Milano, Il Saggiatore, 1968. 65 E. Nolte, I tre volti del fascismo, Milano, Mondadori, 1971.
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della razza furono applicati con vigore nel campo della eugenetica, dell’eutanasia, della sterilizzazione femminile, della pianificazione familiare66.
Insomma, l’antisemitismo hitleriano occupava un posto preciso nell’economia di un progetto ideologico e politico complessivo. Dobbiamo dedurne che lo sterminio ha realizzato coerentemente un disegno già annunziato in Mein Kampf che aspettava solo l’opportunità della guerra per essere portato a termine senza troppi pericoli e resistenze? È questa la tesi degli storici «intenzionalisti»67, che però presta il fianco a una doppia critica. La prima è quella di ragionare con il "senno di poi" e di ordinare una trama conoscendone in anticipo la soluzione. La seconda è quella di sequestrare e sussumere l’intera storia europea alla luce di una sola categoria: l’antisemitismo.
Il programma del partito nazista (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, «Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori») elaborato nel 1920, poneva tra gli obiettivi fondamentali l’annullamento della pace di Versailles, l’espansione territoriale della Germania e, insieme, la restrizione dei diritti di cittadinanza ai Volksgenosse (letteralmente «compagni di popolo e di razza»). L’antisemitismo era, in altre parole, una conseguenza subordinata e specifica di un progetto complessivo di stampo sia nazionalista che razziale. Per risollevare la Germania bisognava, prima di tutto, fare pulizia all’interno: questo era il messaggio da propagandare. L’antisemitismo "razionale" di Hitler — da lui stesso contrapposto all’antisemitismo "emotivo" dei pogrom spontanei — si identificava con un nuovo patto razziale di cittadinanza attuato dallo stato. La rinascita nazionale che avrebbe allargato i confini del Reich, creando ricchezza e lavoro, partiva dalla definizione degli esclusi sulla base di una nuova ideologia che sfruttava gli antichi problemi di legittimazione della minoranza ebraica e, al tempo stesso, la indicava esplicitamente come responsabile della crisi contingente vissuta dal paese. Esclusione morale, crisi di legittimazione, capro espiatorio: i sociologi che studiano i casi di genocidio del mondo contemporaneo — dalla Cambogia dei Khmer rossi, alle etnie tutsi e hutu del Rwanda, ai comunisti indonesiani sterminati da Sukarno — classificano questi tre passaggi come altrettanti prerequisiti per una politica di eliminazione fisica delle minoranze. La privazione dei
G. Bock, Zwangssterilisation im Nationalsozialismus. Studien zur Rassenpolitik und Frauenpolitik, Opladen, Westdeutscher Verlag, 1986; C. Koonz, Mothers in the Fatherland. Women, the Family and Nazi Policies, Londra, Cape, 1987. 67 L. Dawidowicz, The War against the Jews 1933-1945, Londra, Weidenfeld and Nicholson, 1975; G. Fleming, Hitler und die Endlösung, Wiesbaden, Limes Verlag, 1982.
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diritti civili non è ancora genocidio. A questo stadio lo sterminio rimane solo una delle opzioni pratiche a disposizione — insieme all’emigrazione, alla deportazione, alla chiusura in riserve — ma da questo momento in poi la scelta del metodo di "pulizia" sarà effettuata secondo criteri di razionalità utilitaria, valutando costi, benefici, opportunità. La strada è aperta. È questa l’impostazione generale del paradigma interpretativo funzionalista68, che ha alle spalle una visione policratica delle dittature del Novecento, contraria alla reductio ad unum del totalitarismo e fondata sulla analisi articolata dei diversi centri di potere che preesistono e, in misura variabile, sopravvivono all’avvento del dittatore. Nell’opera che segna il punto di avvio di questa interpretazione F.Neumann dipinge il nazismo come una dialettica costante tra quattro diversi principi di autorità: il partito e Hitler, l’esercito, i potentati economici privati, la burocrazia di stato69.
La categoria di totalitarismo ha prodotto una visione indifferenziata della normalità sotto il nazismo — la "massa amorfa" di individui isolati e spersonalizzati, privi di ogni libertà e capacità di decidere, di cui ha parlato la Arendt — che assume un'oggettiva funzione deresponsabilizzante, scaricando il peso della colpa solo sui vertici del potere organizzato. Ricerche di storia politica locale hanno invece ridimensionato la diffusione di massa dell’antisemitismo e mostrato il peso decisivo che un’immagine di forza e di efficienza militare esercitò nell’attrarre verso il partito nazista il consenso attivo dei ceti medi70. Sono state così verificate e confermate le risultanze di inchieste sociologiche condotte in Germania prima e dopo l’avvento al potere di Hitler che mostravano una presenza estremamente minoritaria di propensioni antisemite violente non solo nell’opinione pubblica ma anche tra i militanti nazisti71.
Sulla base di numerose fonti di polizia, è stato tracciato un quadro più articolato dell’opinione pubblica sotto il nazismo. Emergono in primo luogo differenze di tempo.
Il peso dell’antisemitismo nella propaganda e nel consenso seguì una curva che conobbe delle punte in concomitanza della presa del potere (1933), delle leggi razziali di Norimberga (1935) e delle persecuzioni antiebraiche durante la «Notte dei Cristalli»
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K.A. Schleunes, The Twisted Road to Auschwitz. Nazi Policy towards the German Jews, Urbana, University of Illinois Press, 1970. 69
F. Neumann, Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Milano, Feltrinelli, 1977, ed.or.New York 1942. 70 W.S. Allen, Come si diventa nazisti. Storia di una piccola città 1930-1945, Torino, Einaudi, 1968. 71 T. Abel, Why Hitler came into Power. An Answer based on the original Life Stories of Six Hundred of his Followers, New York, Prentice Hall, 1938.
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(1938); mentre si ridusse al minimo negli anni di guerra, che segnarono un ripiegamento nel privato per la maggior parte dei cittadini. Ma emergono anche differenze sincroniche: gesti quotidiani, minuti ma significativi, di solidarietà verso gli ebrei continuarono a manifestarsi sia pure in misura molto circoscritta. L’antisemitismo violento e aggressivo rimase sostanzialmente ristretto alla parte militante delle organizzazioni naziste, mentre gli atteggiamenti popolari più diffusi andavano dalla accettazione convinta dei principi dello Stato razziale, vissuta anche come restaurazione d'ordine, a un'indifferenza largamente maggioritaria72. In tale quadro la disponibilità a farsi coinvolgere nella mobilitazione antisemita sembrava paradossalmente crescere insieme all’assenza di contatti effettivi con gli ebrei tedeschi: i giovani più dei vecchi, le campagne e i villaggi più delle città, le classi popolari più delle classi medie. Sembrava, in altre parole, rispondere alla necessità — psicologica piuttosto che oggettiva — di proiettare in un "capro espiatorio" esterno ed immaginario le ansie legate alla propria condizione socioeconomica. La soluzione sacrificale diventava lo strumento per reintegrare una coesione sociale messa in pericolo dalla libera concorrenza individuale, tipica delle società sviluppate73.
Le stesse fonti di polizia ci dicono che il sopraggiungere della guerra alterò profondamente le condizioni dello "spirito pubblico", restringendo all’orizzonte familiare le preoccupazioni dei tedeschi. L’evacuazione forzata degli ebrei, che era assai difficile per quasi tutti ignorare, diventò una delle cose orribili che accadono in tempo di guerra e che è impossibile e inutile contrastare. La propaganda prebellica aveva preparato il terreno per un consenso — o quantomeno una passiva indifferenza — all’operazione di sterminio. L’atteggiamento più diffuso, cioè, non era quello di una adesione attiva alla «soluzione finale», bensì di una rimozione consapevole delle conoscenze in difesa del quieto vivere: una «colpa di omissione» che nasceva da una sospensione del senso morale74. La dittatura aveva soppresso gli spazi dove avrebbe eventualmente potuto esprimersi un dissenso e aveva soltanto bisogno di ricordare con delicatezza che il terrore riservato al "capro espiatorio" era l’immagine concreta della minaccia per chi non collaborava.
72 I. Kershaw, Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich. Bavaria 1933-1945, Oxford, Clarendon, 1983. 73 R. Girard, Il capro espiatorio, Milano, Adelphi, 1987. 74 K. Jaspers, La colpa della Germania (Die Schuldfrage), Napoli, ESI, 1947.
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Ma non c’è dubbio che nel panorama dei partiti tedeschi a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, i nazisti fossero i sostenitori più decisi di un’ideologia antiebraica strettamente connessa — questo era il punto centrale — a un disegno di rinascita nazionale. Gli studi condotti sulla base sociale del partito nazista ci dicono che all’origine della sua poderosa avanzata elettorale — 800 mila voti e 100 mila iscritti nel 1928, quasi 14 milioni di voti (il 37%) e quasi un milione e mezzo di iscritti nel 1932 — non ci furono strati sociali marginali e incolti. Ci furono invece le grandi città, i ceti borghesi che aspiravano allo stato forte e i ceti operai che non si sentivano più protetti dai sindacati e dai partiti di sinistra75. Probabilmente solo pochissimi di questi elettori credevano che Hitler avrebbe sterminato gli ebrei. Ma tutti sapevano che Hitler era stato in prigione nel 1923 per aver tentato un colpo di stato. Tutti sapevano di dare il voto a un leader politico antidemocratico, ma erano convinti che valesse la pena di correre questo rischio se in cambio fossero venuti il ripristino dell’ordine e nuovi posti di lavoro.
Nominato cancelliere il 30 gennaio 1933, Hitler formò un governo di coalizione con le altre forze moderate su una base programmatica di ritorno all’ordine e alla collaborazione. Il suo proclama al popolo tedesco del primo febbraio faceva centro sulle riforme dello stato e dell’economia, evitando con cura ogni violento accenno antisemita: un silenzio che Hitler avrebbe proseguito, almeno nei discorsi ufficiali, per tutto l’anno in corso e il successivo76. I primi passi del nuovo governo furono rivolti interamente alla battaglia contro le opposizioni di sinistra: con le prime ordinanze del 4 e 6 febbraio furono vietati i comizi e i giornali comunisti. Il 28 febbraio, a poche ore dall’incendio del Parlamento — anche se il processo celebrato dai nazisti alla fine del 1933 non riuscì a provare la responsabilità dei comunisti arrestati nell’occasione — un’altra ordinanza abrogava alcuni articoli della costituzione, limitando le libertà fondamentali e ripristinando la pena di morte. Circa 4 mila militanti di sinistra, compresi tutti i deputati comunisti e buona parte di quelli socialdemocratici, vennero arrestati. Alle elezioni del 5 marzo successivo il partito nazista conquistava il 44% dei voti. Il 24 marzo, con il voto contrario dei deputati socialdemocratici rimasti liberi, il Parlamento tedesco consegnava al governo il pieno potere legislativo sia ordinario che costituzionale. La
75 R.F. Hamilton, Who voted for Hitler?, Princeton, Princeton University Press, 1982; M.H. Kater, The Nazi Party. A social Profile of Members and Leaders 1919-1945, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1983; P. Manstein, Die Mitgleider und Wähler der Nsdap 1919-1933, Francoforte, Lang, 1988;
J.W. Falter, Hitlers Wähler, Monaco, Beck, 1991. I. Kershaw, The «Hitler Myth». Image and Reality in the Third Reich, Oxford, Clarendon, 1987, pp.233-4. 47
cancellazione dei partiti tedeschi ebbe anche il suggello internazionale. Poco sensibili alla sorte di comunisti e cattolici tedeschi perseguitati dal nuovo regime, Unione Sovietica e Vaticano furono i primi stati stranieri a riconoscere ufficialmente il nuovo Reich di Hitler: la prima rinnovando nel maggio 1933 il trattato di amicizia del 1926, il secondo stipulando nel luglio 1933 il concordato che barattava la salvaguardia (temporanea) della scuola cattolica con il divieto di ogni associazione politica per il cattolicesimo tedesco.
Secondo un copione già sperimentato con successo in Italia da Mussolini, la conquista nazista del potere seguiva una strategia del doppio binario. Il credito di rispettabilità che Hitler riscuoteva dall’establishment politico e finanziario si fondava anche sull’opera di intimidazione quotidiana svolta dalle formazioni paramilitari che fiancheggiavano il partito nazista — le SA (Sturmabteilungen, «reparti d’assalto») e le SS (Schutzstaffeln, «squadre di difesa») — create all’inizio degli anni Venti. Diretta contro gli avversari politici, la loro mobilitazione creava il caos e la richiesta d’ordine da parte delle maggioranze silenziose. Al tempo stesso accresceva il potere negoziale di Hitler come l’unico politico in grado di esercitare un’autorità su queste frange violente.
SA e SS facevano propaganda attraverso la pratica concreta dei propri obiettivi — in primo luogo la lotta ai presunti nemici del Reich — ed erano quindi strumenti di un contropotere nazista esercitato dal basso: davano un’immagine di efficienza e di forza, nel mentre che rompevano i confini normali della legalità ed esponevano tutti alla minaccia di una forza senza remore e senza rivali. «Ogni comizio che è protetto esclusivamente dalla polizia — aveva scritto Hitler in Mein Kampf — scredita agli occhi della massa coloro che lo organizzarono».
Ma SA e SS rappresentavano anche l’immagine vivente del nuovo Stato razziale: una élite di giovani scelti in base alla purezza del sangue e dei tratti somatici, uniti da un codice d’onore e da una struttura di tipo militare ma anche da riti e simboli di tipo religioso. Queste organizzazioni rispondevano a uno schema esoterico, di comunità degli eletti, che raccoglieva ed estremizzava i tratti conformistici e xenofobi della personalità autoritaria. Al tempo stesso fondavano la propria superiorità sulla capacità di dominare sentimenti normali ed eseguire compiti impossibili ai più: l’esercizio della violenza contro gli avversari assumeva un valore iniziatico, il crimine faceva parte di una strategia di identificazione, rafforzava e rendeva irreversibile l’identità di
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appartenenza77. Sbaglieremmo a considerare le SS come uomini amorali: essi, al
contrario, condividevano una morale che imponeva loro di rompere la morale comune e
di esercitare il delitto in vista della loro missione storica di costruzione del nuovo Stato
razziale. Fu il loro stesso capo, Heinrich Himmler, a spiegare meglio di tutti, in un
discorso destinato a rimanere segreto, la logica omertosa di una missione superumana e
antietica che legava il primo crimine pubblico delle SS — il massacro delle SA nella
«Notte dei lunghi coltelli» del 30 giugno 1934 — con lo sterminio degli ebrei: il tempo
di "pace" con il tempo di guerra.
Qui davanti a voi voglio ricordare in tutta franchezza un’altra questione molto difficile. Almeno una volta è necessario parlarne apertamente tra noi e nello stesso tempo osservare il più rigoroso silenzio in pubblico. Non abbiamo esitato il 30 giugno 1934 a compiere il dovere che ci era stato ordinato, di mettere al muro e fucilare i camerati che avevano sbagliato; non abbiamo esitato a non parlarne mai in tutto questo tempo e in futuro. Grazie a Dio, il silenzio mantenuto tutti insieme è una verità consacrata dal tempo e da noi posseduta. Ognuno di noi ha rabbrividito e però ognuno ha avuto chiaro che questo era il prossimo segno da dare di nuovo, il segno che ci era ordinato e che era necessario. Mi riferisco alla evacuazione degli ebrei, allo sterminio [Ausrottung] del popolo ebraico. Sono cose di cui si parla con facilità: «il popolo ebraico viene sterminato», dice qualsiasi membro del partito, «è chiaro, fa parte del nostro programma». E poi arrivano tutti, i nostri bravi 80 milioni di tedeschi, e ognuno porta l’ebreo che gli sta a cuore. D’accordo, gli altri sono maiali, ma questo è un ebreo di qualità migliore. Di tutti quelli che parlano così nessuno c’è stato, nessuno è stato presente. La maggior parte di voi sa cosa significa un mucchio di 100 cadaveri, di 500, di mille cadaveri. Aver sopportato tutto ciò e, eccezion fatta per umane debolezze, essere rimasti persone decenti, è ciò che ci ha reso duri. Questa è una pagina gloriosa della nostra storia che non è mai stata scritta né mai lo sarà78.
77 F. Jesi, Cultura di destra, Milano, Garzanti, 1979, p.83 sgg. 78 Discorso pronunciato a Posen, nome tedesco della città polacca di Poznan, 4 ottobre 1943, documento di Norimberga PS 1919, Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, v.29, p.145.
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5. L’universo concentrazionario Nel marzo 1933 Himmler, che il nuovo regime aveva messo a capo della polizia di Monaco, annunciò l’istituzione di un «campo di concentramento per prigionieri politici» nella vicina cittadina di Dachau. Alla base di questo regime detentivo parallelo a quello carcerario ufficiale, stava l’ordinanza di emergenza del 28 febbraio che limitava le libertà individuali. Ogni cittadino poteva essere colpito da un provvedimento di Schutzhaft («custodia protettiva»): un fermo di polizia senza limiti di tempo e senza possibilità di controllo da parte del potere giudiziario, che alla fine di luglio aveva già portato all’internamento di quasi 27 mila detenuti nei nuovi lager. Fino al 1938 nessuno di questi cittadini tedeschi era stato arrestato in quanto ebreo, ma perché sospetto di attività antigovernativa. Ai prigionieri politici si aggiunsero però, a partire dal 1937, anche criminali comuni, renitenti alla leva e al lavoro, vagabondi e mendicanti, distinti da un triangolo di stoffa di colore diverso: rosso per i politici, viola per i testimoni di Geova che si rifiutavano di prestare servizio militare, rosa per gli omosessuali, nero per gli asociali, verde per i comuni, blu per i vagabondi.
L’esperienza dei campi di concentramento non era del tutto estranea alla storia europea: in molti paesi era ancora vivo il ricordo dei campi per prigionieri di guerra rimasti in funzione per mesi dopo la fine della prima guerra mondiale79. In seguito Hitler ne attribuì la paternità all’Inghilterra coloniale: ma si trattava ancora di campi per prigionieri di guerra. In realtà l’istituzione di lager in tempo di pace era una novità assoluta, che poteva trovare un corrispettivo soltanto nei gulag dell’Unione Sovietica, all’epoca però ancora largamente sconosciuti in Europa. Proprio la gestione del sistema Schutzhaft-Lager rappresentò lo strumento di penetrazione delle SS nella macchina statale — nel settembre 1933 ben 36 alti dirigenti della polizia tedesca su 37 erano stati sostituiti da dirigenti delle SA e delle SS — e al tempo stesso il segno distintivo di una alterazione profonda delle regole della convivenza civile. Il regolamento di Dachau prevedeva la pena di morte per i reati più gravi di sabotaggio e rivolta, colpi di bastone e carcere duro per ogni mancanza di rispetto nei confronti dei governanti del Reich e delle guardie del campo.
79 A. Kaminski, Storia dei campi di concentramento dal 1893 ad oggi, Torino, Bollati Boringhieri, 1997.
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Questo regolamento venne firmato dal capo del lager, il colonnello delle SS Theodor Eicke, che l'anno seguente ebbe un ruolo di primo piano nella «Notte dei lunghi coltelli», ricevendone in cambio la promozione a ispettore di tutti i campi tedeschi — oltre a Dachau, furono aperti quelli di Buchenwald, Ravensbrück (solo per donne), Sachsenhausen, Lichtenburg e, dopo l’annessione dell’Austria nel 1938, Mauthausen — nonché di capo della sezione delle SS specificamente destinata alla sorveglianza dei campi: le SS-Wachverbände («unità di guardia») che dopo il 1936 presero il nome più sinistro di Totenkopfverbände («unità testa di morto»).
Non si possiedono dati certi sulla mortalità di questi lager prebellici: a Norimberga furono documentati 4 casi di torture e assassinio a sangue freddo di detenuti, ma non esisteva ancora una macchina di sterminio. Le durissime condizioni di vita rispondevano a una logica di rieducazione destinata a cittadini tedeschi che dovevano rinnegare le proprie convinzioni. Al plebiscito del novembre 1933 per l’uscita della Germania dalla Società delle Nazioni, i detenuti di Dachau ebbero diritto di voto (2.154 sì su 2.242 voti); per il Natale 1933 fu annunziata un’amnistia per 5 mila internati e il numero totale dei detenuti rimase fino al 1937 di circa 10 mila. Anche se introdotto con le leggi di emergenza del 1933, l’universo concentrazionario con la sua violazione di uno dei diritti umani fondamentali — l’habeas corpus — assunse ben presto una funzione permanente nello stato nazista. Il lager come strumento persecutorio interamente sottratto all’autorità della legge — precondizione decisiva per lo sterminio
— non appartenne al tempo di guerra: contraddistinse il regime nazista fino dalla sua ascesa al governo. In tutta la Germania vennero creati luoghi di sperimentazione di un potere assoluto — 59 campi attivi nel periodo prebellico; dopo il 1939, 23 campi principali e circa 1.200 campi secondari — che, attraverso un'organizzazione terroristica del tempo e dello spazio, cercavano di cancellare l’umanità e la vitalità degli internati. Essi rappresentavano il tassello centrale di un "doppio stato", parallelo a quello costituzionale normale, dove vigevano le leggi e la costituzione anteriori all’avvento nazista, e un universo parallelo e segreto di violenza e terrore, assolutamente libero da controlli e normative80. L’urgenza e la priorità della battaglia contro le opposizioni non mise in un angolo e anzi accompagnò da vicino la politica antiebraica del regime, che però almeno fino al
80 E. Fraenkel, Il doppio stato. Contributo alla teoria della dittatura, Torino, Einaudi, 1983, ed.or. New York 1941; W. Sofsky, L’ordine del terrore. Il campo di concentramento, Roma-Bari, Laterza, 1995.
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1938 seguì altre vie: non fu affidata a provvedimenti speciali di polizia, ma a leggi organiche dello Stato nazista, secondo i principi dell’antisemitismo "razionale" e non emotivo teorizzati da Hitler. Il programma di privazione dei diritti civili fissato dal partito nazista nel 1920 venne seguito con immediatezza e fedeltà.
Anche in questo caso valse lo schema a tenaglia dell'azione dal basso e dall'alto. Il primo aprile 1933, a una settimana di distanza dal voto dei pieni poteri a Hitler, i militanti nazisti proclamarono una giornata di boicottaggio del commercio ebraico, con picchetti davanti ai negozi e agli studi professionali di ebrei tedeschi, per l’occasione contrassegnati con stelle gialle. Il governo non appoggiò ufficialmente la manifestazione che risultò anzi un insuccesso, suscitando scarse reazioni dell'opinione pubblica, forti rimostranze all'estero e la diffidenza dello stesso presidente Hindenburg. Ciò nonostante, di lì a pochi giorni — il 7 aprile — fu introdotta una legge di ricostruzione della carriera dei funzionari statali di ruolo che decretava il pensionamento dei dipendenti pubblici politicamente indesiderabili insieme a quelli «discendenti di genitori o nonni non-Ariani, specialmente Ebrei». Ogni impiegato fu tenuto a presentare il proprio certificato di nascita e furono esentati dal provvedimento soltanto gli ebrei veterani della prima guerra mondiale, ai quali però un successivo decreto inibì ogni promozione di carriera. Il 22 aprile fu interdetto ai medici ebrei — in giugno il divieto si estese anche ai medici sposi di «non-ariani» — l’esercizio della professione in strutture pubbliche; il 25 una legge contro il sovraffollamento di scuole e università limitò a un tetto massimo pari all’1,5% del totale il numero di iscrizioni di studenti ebrei. Il 14 luglio una legge retroattiva rese possibile la revoca della cittadinanza concessa a immigrati naturalizzati dopo il 1918, in grande maggioranza ebrei dell'Europa orientale. Il 29 settembre i diritti di trasmissione ereditaria delle fattorie di campagna vennero ristretti a coloro che potevano dimostrare di avere sangue ariano fin dal 1800. Il 21 maggio 1935 gli ebrei furono esentati dal servizio militare e quelli sotto le armi esclusi dal grado di ufficiale81.
A differenza del boicottaggio di strada, questa escalation di misure antiebraiche accese l’avidità dei cittadini interessati alle posizioni sociali occupate dagli ebrei tedeschi — che allora rappresentavano circa il 10% tra i medici, il 15% tra gli avvocati
— e in sostanza nessuna resistenza venne opposta alle misure di discriminazione. 81 U.D. Adam, Judenpolitik im Dritten Reich, Düsseldorf, Droste, 1972; A. Barkai, Vom Boycott zur «Entjudung»: der wirtschaftliche Existenzkampf der Juden im Dritten Reich 1933-1945, Francoforte, Fischer, 1988.
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Con sistematicità progressiva gli ebrei vennero esclusi dai diritti di cittadinanza grazie anche alla spinta di coloro che ambivano a prenderne i posti e le risorse.
La persecuzione antiebraica si coniugò con l’approntamento delle basi del nuovo Stato razziale. Il 14 luglio 1933 una legge per la prevenzione di progenie affetta da malattie ereditarie autorizzò la sterilizzazione di «incurabili» su richiesta dell’interessato come anche del medico, del tutore o dell’autorità sanitaria. Il 24 novembre una legge contro i delinquenti abituali consentì la castrazione di specifiche tipologie di criminali definite in base a criteri genetico-razziali; un progetto complessivo di disposizioni nei confronti degli «asociali» venne messo allo studio ma non vide mai la luce82. Il rovescio della medaglia fu costituito dalle misure di promozione demografica della Volksgemeinschaft, la «comunità di razza e di popolo». La legge per la riduzione della disoccupazione del primo giugno 1933 istituì prestiti agevolati per le giovani coppie idonee sul piano razziale, in cui la moglie rinunciasse al lavoro. Nel dicembre 1933 fu limitato al 10% del totale il numero delle iscrizioni di donne tedesche all’università; le donne con più di 3 figli sotto i 10 anni ebbero diritto a trattamenti preferenziali negli acquisti. Dal 1935 una legge sul matrimonio condizionò il diritto di sposarsi alla concessione di un certificato di idoneità rilasciato dalle autorità sanitarie.
Nei loro risvolti persecutori come in quelli «familistici», le misure naziste confermavano la realtà dei campi di concentramento: la persona umana era proprietà dello stato, selezionata e trattata secondo gli intendimenti del potere. La compattezza di questo disegno non lasciava spazio a molte illusioni. Già nei primi sei mesi del governo Hitler 25 mila ebrei tedeschi lasciarono la Germania, nonostante che le leggi vigenti penalizzassero fortemente — si poteva perdere fino a 9 decimi delle proprie fortune — il trasferimento di capitali all’estero. Il numero di ebrei emigrati salì nel 1935 a 60 mila
— tra loro c’erano scienziati come Einstein, registi come Fritz Lang, attori come Peter Lorre — ma ben 10 mila decisero di tornare prima del settembre 1935, contando su un allentamento della morsa del regime. Si sbagliavano. Il 15 settembre 1935 Hitler ruppe il silenzio sulla questione ebraica, che in sede ufficiale osservava dalla nomina a cancelliere e che sarebbe sostanzialmente durato anche per il biennio successivo. Al congresso di partito che si tenne a Norimberga, il Führer aveva bisogno di un pronto riscatto nei confronti di un quadro internazionale che vedeva la Germania sempre più isolata dal patto franco-russo di non aggressione, dal
82 M. Burleigh -W. Wipperman, Lo stato razziale. Germania 1933-1945, Milano, Rizzoli, 1992.
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fronte di Stresa creato da Francia, Inghilterra e Italia in difesa dell’indipendenza dell'Austria, dal congresso dell’Internazionale comunista che aveva varato la politica dei fronti popolari. Occupando una posizione politica di centro — in favore di una soluzione stabile e positiva delle relazioni tra tedeschi ed ebrei, contro ogni illegalità — Hitler annunciò il varo delle cosiddette «leggi di Norimberga»: un insieme di misure messe insieme in fretta che il Führer preferì promulgare nella versione meno dura fra le quattro elaborate dagli uffici della Cancelleria.
La prima legge di Norimberga «sulla cittadinanza del Reich» ratificò il processo di esclusione degli ebrei accumulatosi a colpi di decreto nei due anni precedenti: solo i detentori di sangue tedesco, certificati come tali dalle autorità, potevano considerarsi cittadini del Reich e godere di integrali diritti politici. La seconda legge «per la protezione del sangue e dell’onore tedesco» specificava i contenuti di tale distinzione.
Mosso dalla coscienza che la purezza del sangue tedesco è la premessa per la continuazione del popolo tedesco e ispirato dalla volontà indomabile di assicurare l'avvenire della nazione tedesca, il Reichstag ha approvato all'unanimità la seguente legge, che è promulgata dai presenti: 1. I matrimoni tra ebrei e soggetti di sangue tedesco o assimilato sono proibiti. I matrimoni stipulati in contravvenzione alla legge non sono validi, anche se conclusi all'estero. Le procedure di annullamento possono essere avviate soltanto dai magistrati. 2. Sono proibite le relazioni extraconiugali tra ebrei e individui di sangue tedesco o assimilato. 3. Gli ebrei non possono tenere al proprio servizio come domestiche donne di sangue tedesco oassimilato che abbiano meno di 45 anni. 4. È proibito agli ebrei esporre bandiere dei colori nazionali tedeschi. Viceversa è loro consentito di esporre bandiere dei colori ebraici. L’esercizio di questo diritto è tutelato dallo stato. 5. Le infrazioni alle norme di cui al punto 1 saranno punite con pene reclusive ai lavori forzati. Le infrazioni alle norme di cui al punto 2 saranno punite con pene reclusive con o senza lavori forzati. Le infrazioni alle norme di cui ai punti 3 e 4 saranno punite con più di un anno di reclusione e un’ammenda oppure con l'una o con l’altra di queste sanzioni.
Gli uffici del Reich responsabili per la politica razziale accreditarono una versione delle leggi di Norimberga interamente subordinata alla politica di riarmo del paese avviata, in violazione del trattato di Versailles, fin dal gennaio 1934. In una nazione avviata a recuperare la propria forza, il Führer — era la loro interpretazione — non poteva tollerare una minoranza indecisa sulla propria appartenenza83. Lo Stato razziale era la base della potenza di una nuova Germania che avrebbe cercato verso Est lo spazio vitale per la propria crescita. Alcuni storici hanno sostenuto, da versanti politici opposti,
83 P. Burrin, Hitler e gli ebrei. Genesi di un genocidio, Genova, Marietti, 1994.
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la tesi che vede nel nazismo l’oppositore europeo del comunismo sovietico84. Ma i fatti dimostrano cose diverse. L’anticomunismo di Hitler era la conseguenza subordinata di una rifondazione razziale e militarista dello stato. Invertire questa scala di priorità rischia di mettere tra parentesi o di non riuscire a spiegare fino in fondo la scelta dello sterminio degli ebrei. Ma non solo: se davvero razzismo, nazionalismo e militarismo fossero i semplici strumenti negativi di una crociata anticomunista, la scomparsa del socialismo reale avrebbe dovuto trascinarli via con sé. Come purtroppo sappiamo, è vero esattamente il contrario: nei Balcani, nel Baltico, nella ex Unione Sovietica quella scomparsa li ha riportati drammaticamente alla luce, insieme a un risorgente antisemitismo.
Proprio in omaggio al progetto di una Volksgemeinschaft in armi, il Führer risolse dopo molte indecisioni la questione dei Mischlinge (i «meticci») optando per il «male minore» dell’assimilazione progressiva, rispetto alle altre due soluzioni prospettate: la sterilizzazione o l’espulsione. Con un regolamento emanato nel novembre successivo i figli di matrimoni misti tra ebrei e ariani furono considerati tedeschi a meno che non fossero sposati con ebrei o frequentassero attivamente la comunità ebraica: l’obiettivo di una pulizia etnica immediata e radicale fu temporaneamente e parzialmente sacrificato alla nuova logica di riarmo che esigeva tutte le braccia disponibili. L’ala più radicale del movimento nazista criticò le leggi di Norimberga come un cedimento legalitario e non cessò le proprie azioni di antisemitismo quotidiano e spontaneo. Ma in ogni caso l’effetto principale delle leggi di Norimberga, sottolineato dai rapporti del Servizio di sicurezza — l’organo informativo segreto del partito nazista diretto da Reinhard Heydrich, il più stretto collaboratore di Himmler — fu quello di stabilire definitivamente l’identità separata degli ebrei e di scoraggiare ogni possibile solidarietà nei loro confronti. La maggioranza del popolo tedesco le accettò passivamente.
Lungo la strada che conduceva alla guerra — con la militarizzazione della Renania, lo scoppio della guerra civile spagnola, il patto con Italia e Giappone — la questione ebraica perse di importanza. Fino all’estate 1937 Hitler vi dedicò solo sporadici accenni nei suoi discorsi. Nel febbraio 1936 l’uccisione in Svizzera del responsabile estero del partito nazista ad opera di un giovane ebreo — un incidente simile a quello che due anni dopo avrebbe scatenato la «Notte dei Cristalli» — non suscitò nessuna reazione
84 A.J. Mayer, Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea, Milano, Mondadori, 1990;
E. Nolte, Nazionalsocialismo e bolscevismo, cit. 56
analoga. In parallelo alla politica di riarmo, l’attenzione della dirigenza nazista si spostò sulla «arianizzazione» dell’economia, di cui l’epurazione nelle libere professioni e nell’amministrazione pubblica aveva posto i presupposti, senza tuttavia trovare un accordo sulle misure da adottare. Hermann Göring, il braccio destro di Hitler nominato nel 1936 commissario per il piano quadriennale di pianificazione economica, premeva per una «arianizzazione» diluita nel tempo che ne limitasse al minimo le ripercussioni sulla struttura produttiva e finanziaria tedesca. La parentesi di relativa tranquillità venne bruscamente interrotta da un nuovo attacco frontale di Hitler, che nel settembre 1937 pronunciò un violento discorso centrato sul nesso tra bolscevismo e giudaismo85.
Fu come un segnale di riapertura delle ostilità. In aprile un decreto sulla registrazione delle proprietà ebraiche obbligò gli ebrei a dichiarare ogni bene superiore a 5 mila marchi. Le oltre 50 mila imprese commerciali gestite da ebrei nel 1933 erano già scese nel 1938 a 40 mila. Un anno dopo altre 15 mila erano state liquidate, più di 20 mila «arianizzate» o in via di esserlo: allo scoppio della guerra l’espulsione degli ebrei dalle attività economiche del Reich era praticamente un fatto compiuto. Tra il giugno e l’agosto le sinagoghe di Monaco, Norimberga e Dortmund furono demolite per fare posto ad opere pubbliche. In agosto tutti gli ebrei tedeschi furono obbligati a portare il nome di Sara o Israele; in ottobre ad avere una «J» rossa stampigliata sul passaporto.
Il mese prima erano state revocate le eccezioni a favore degli ebrei reduci della prima guerra mondiale. Il 25 luglio 1938 il ministro della propaganda Goebbels scriveva nel suo diario:
l’essenziale è che gli ebrei siano scoraggiati. In 10 anni devono essere allontanati
[entfernt] dalla Germania. Ma per adesso vogliamo ancora tenerli qui come
ostaggi86.
Ostaggi: nel quadro del peggioramento progressivo delle relazioni diplomatiche, gli intenti di pulizia etnica del regime nazista diventavano un elemento di confronto e di negoziato internazionale. Nel corso del 1938 legislazioni antisemite vennero introdotte in Ungheria, Romania e Italia87, mentre l’annessione nazista dell’Austria sottopose
85 M. Domarus (a cura di), Hitler. Reden und Proklamationen 1932-1945, v.1, Wiesbaden, Löwit, 1973,pp.727-32. 86 E. Fröhlich, Die Tagebücher von Joseph Goebbels: Sämtliche Fragmente, Teil I: Die HandschriftlichenTagebücher, Juli 1924 bis Juli 1941, v. 3, Monaco, Saur, 1987, p. 490.
M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Milano, Zamorani, 1994. 57
senza alcuna gradualità l’antica e consolidata comunità ebraica — circa 180 mila persone, in grande maggioranza viennesi — all’insieme di norme discriminatorie vigenti nel Reich. In agosto a Vienna venne creato un ufficio per l’emigrazione affidato alla direzione di Adolf Eichmann, il tenente colonnello delle SS che dal 1936 lavorava alla sezione del Servizio di sicurezza specificamente dedicata ai problemi ebraici. Eichmann incoraggiò con ogni mezzo l’esodo e gli ebrei più facoltosi furono tassati per pagare le spese di viaggio ai più poveri. Nel giro di un anno e mezzo da Vienna emigrarono più di 110 mila persone: circa due terzi della comunità originaria. A questo flusso in partenza dall’Austria si aggiunse quello che era ripreso dalla Germania, dove il numero delle partenze subì un’impennata con l’avvicinarsi della guerra: al settembre 1937 il loro totale era di 130 mila, cui se ne aggiunsero altre 115 mila nei due anni successivi.
Su iniziativa del presidente americano Roosevelt si tenne nel luglio 1938 ad Evian, in Francia, una conferenza dei rappresentanti delle maggiori potenze occidentali per risolvere il problema dei profughi. In realtà nessuno dei paesi presenti ad Evian accettò di modificare le proprie leggi restrittive sull'immigrazione. L’unico risultato fu un Comitato intergovernativo sui rifugiati, incaricato — nello spirito di appeasement che regolava la politica estera anglofrancese — di trattare direttamente con il governo tedesco.
Com’è noto, la debolezza della conferenza di Evian rappresentò il prologo dell’accordo di Monaco, con il quale Inghilterra, Francia e Italia praticamente consegnarono la regione dei Sudeti alla Germania. Hitler aveva appena incassato questo successo di politica estera quando, il 7 novembre 1938, a Parigi un ragazzo ebreo sparò a un funzionario dell'ambasciata tedesca, che morì due giorni dopo. Il Führer, raggiunto dalla notizia durante i festeggiamenti per l'anniversario del putsch del 1923, non dette personalmente ordini precisi. Chi si mosse fu invece Goebbels: un rapporto segreto redatto qualche mese dopo dal capo del tribunale interno del partito nazista, Walter Buch, ci informa delle sue mosse.
La sera del 9 novembre 1938 il camerata dr.Goebbels segnalò ai capi del partito riuniti in seduta amichevole presso l'antico municipio di Monaco, che nelle province dell'Assia e del Magdeburgo erano avvenute manifestazioni antisemite. Alcuni negozi di ebrei erano stati distrutti, alcune sinagoghe incendiate. Egli ne aveva informato il Führer, il quale aveva deciso che tali manifestazioni non dovevano essere preparate né organizzate dal partito, dal momento che erano
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spontanee, ma che non vi era ragione di ostacolarle. Le istruzioni verbali del ministro della propaganda furono certamente interpretate da tutti i capi presenti nel senso che il partito non voleva apparire pubblicamente come l'istigatore delle dimostrazioni, ma in realtà intendeva organizzarle ed eseguirle. Ed in tal senso furono immediatamente trasmesse per telefono da buona parte dei camerati presenti ai rispettivi distretti88.
Il rapporto di Buch ci permette di intravedere alcune caratteristiche tipiche del modo di prendere decisioni nel Terzo Reich. Nessun ordine scritto del Führer, in primo luogo: una circostanza che — tranne rare eccezioni — ritroveremo in tutti gli snodi fondamentali della strada che porta ad Auschwitz. E che ha consentito a qualcuno di sostenere l'estraneità di Hitler allo sterminio89. In realtà le intenzioni del capo del Reich
— in questo e in molti altri casi, come vedremo — pur sotto forma di "desideri", di "annunci", addirittura di "semplici cenni del capo", esprimevano sempre un orientamento di fondo preciso e davano mandato a parti determinate dell’apparato per la ricerca delle soluzioni tecniche più appropriate. Questo metodo di governo aveva diversi vantaggi: consentiva a Hitler di non legarsi mai definitivamente a una fazione e di continuare ad esercitare il ruolo di ago della bilancia, ma nello stesso tempo sfruttava la concorrenza tra settori diversi del Reich e provocava così un’implementazione creativa spontanea dei progetti originari, con tutte le possibili conseguenze di caos e contraddizioni, che vedremo, ma anche — come in questo caso — di radicalizzazione cumulativa incontrollata. L’11 novembre Heydrich era in grado di comunicare a Göring i risultati dell’azione, poi diventata nota con il termine di Kristallnacht, «Notte dei cristalli», in riferimento ai vetri infranti di case e botteghe: 36 ebrei uccisi e 36 gravemente feriti, 815 negozi distrutti, 29 magazzini, 171 abitazioni e 191 sinagoghe incendiate, circa 20 mila ebrei arrestati. Il numero totale di detenuti nei lager in Germania e in Austria salì bruscamente da 10 mila a circa 60 mila, per la prima volta sulla base di un esplicito e univoco criterio razziale. Buona parte degli ebrei arrestati venne comunque rilasciata grazie all’amnistia del Natale 1939, che fece scendere a circa 20 mila il totale degli internati.
Il 12 novembre si tenne il consiglio dei ministri, l’ultimo nella storia del Terzo Reich, che da allora in poi fece a meno di ogni coordinamento istituzionale di carattere statale a tutto vantaggio delle strutture del partito e delle SS. Nel corso della riunione
88 Rapporto del Parteirichter, «giudice di partito», W.Buch, 13 febbraio 1939, documento PS 3063, Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, v.32, p.21.
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introdotta da Göring, cui Hitler non presenziò, Heydrich propose la costituzione di un centro per l’emigrazione ebraica, sull’esempio di quello viennese, e si oppose alla costituzione di ghetti riservati agli ebrei nelle città maggiori in quanto possibili «covi di criminali, focolai di epidemie» difficili da tenere sotto controllo. Chiese invece l’introduzione di un segno di riconoscimento permanente per tutti gli ebrei del Reich. La discussione si incentrò tuttavia sul problema del risarcimento dei danni provocati dal pogrom: l’orientamento unanime era di addossarne la colpa e l’onere agli ebrei. Fu sempre Göring a tirare le conclusioni.
Propongo la seguente formula: «agli ebrei tedeschi, a titolo di punizione per i loro delitti odiosi ecc. ecc., viene inflitta globalmente l’ammenda di un miliardo». Sarà da ridere! Non ricominceranno tanto presto, quei porci. E lasciatemelo ripetere ancora una volta: non vorrei proprio essere un ebreo in Germania [...] È evidente che se in seguito il Reich dovesse trovarsi coinvolto in un conflitto esterno qui in Germania dovremo regolare in grande stile i conti con gli ebrei. Il Führer, inoltre, è in procinto di iniziare una manovra politica presso le potenze che agitano la questione ebraica, al fine di addivenire a una soluzione della questione del Madagascar. Me ne ha parlato il 9 di novembre. I termini sono ben chiari; dirà agli altri paesi: «perché parlate sempre degli ebrei? Prendeteveli!»90.
Fin dal 1937 l’idea di colonizzare il Madagascar con insediamenti ebraici era stata oggetto di trattative informali tra i governi di Francia e Polonia. Da parte tedesca, nell’autunno del 1938, sembrava piuttosto confermare l’intenzione generica di risolvere la questione ebraica per via migratoria, utilizzandola come arma di ricatto nei confronti delle potenze rivali. Anche Mussolini aveva inserito nella Dichiarazione sulla razza del novembre 1938 un punto specificamente dedicato alla possibilità di un’emigrazione ebraica in Etiopia.
La proposta di un contrassegno per gli ebrei venne invece bloccata per paura di altre esplosioni di antisemitismo non "razionale", ma lo stesso giorno del consiglio dei ministri un decreto escluse gli ebrei da ogni attività di commercio, artigianato e intermediazione finanziaria. Il 16 novembre venne proibito del tutto agli studenti ebrei di frequentare le scuole tedesche. Via via che il paese entrava nel clima della mobilitazione bellica, le norme antisemite presero la forma di misure contro un nemico interno: divieto di tenere piccioni viaggiatori (29 novembre), ritiro delle patenti di guida
89 D. Irving, Hitler’s War, New York, Viking Press, 1977. 90 Verbale del consiglio dei ministri, 12 novembre 1938, documento PS 1816, in Trial of the Major WarCriminals before the International Military Tribunal, v.28, pp.538-9.
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(3 dicembre), divieto di accesso agli uffici governativi di Berlino (3 dicembre). Nel gennaio 1939 venne affidato a Heydrich un Ufficio centrale per l’emigrazione ebraica, che nel luglio successivo formalizzò per decreto la collaborazione con l’Unione degli ebrei tedeschi, un organismo autonomo dal Reich sorto nel 1933 per coordinare le funzioni di assistenza e istruzione nelle comunità ebraiche della Germania. In pratica — le partenze di questo periodo quasi eguagliarono quelle degli anni precedenti — e in teoria l’incoraggiamento alla fuga sembrava essere la scelta del regime.
Ma qualche giorno dopo, nella solenne occasione del discorso al Parlamento per l’anniversario della nomina a cancelliere, Hitler espresse in pubblico la «profezia» che da molti storici intenzionalisti è presa ad esempio della continuità di una volontà antisemita omicida.
In questo giorno memorabile forse non soltanto per noi tedeschi vorrei fare un'altra osservazione. Nella mia vita spesso ho formulato delle profezie e quasi sempre venni deriso. Negli anni della mia lotta per il potere furono in prima linea gli ebrei ad accogliere con risate la mia profezia che un giorno avrei assunto la direzione dello stato e con ciò quella dell'intera nazione ed avrei, fra gli altri, risolto anche il problema ebraico. Ritengo che nel frattempo quelle schiamazzanti risate si siano spente nella strozza. Oggi voglio fare un'altra profezia: se la finanza internazionale ebraica d'Europa e d’Oltreoceano dovesse riuscire a precipitare ancora una volta i popoli in una guerra, il risultato sarebbe non la bolscevizzazione del mondo e con ciò la vittoria dell'ebraismo, ma la distruzione [Vernichtung] della razza ebraica in Europa!91.
Definire questa profezia "il passaggio saliente" di un discorso che durò 2 ore e 22 minuti è senz’altro una forzatura. Goebbels, nel riassunto del discorso che scrisse sul suo diario se ne scordò completamente. In quelle due ore Hitler rievocò la conquista del potere da parte del movimento nazista, presentò le rivendicazioni tedesche sui Sudeti come applicazione del principio di autodeterminazione delle nazioni, illustrò gli sforzi per creare una nuova Volksgemeinschaft e soprattutto proclamò la propria volontà di pace: da quest’ultimo punto di vista l'ambasciatore inglese lo considerò un passo avanti92. Tuttavia fu Hitler stesso a dare importanza alla sua profezia del gennaio 1939: negli anni successivi vi fece spesso riferimento postdatandola erroneamente al primo settembre 1939, data d’inizio della guerra. Un lapsus significativo che indicava
91 M. Domarus, Hitler. Reden und Proklamationen cit., v.2, p. 1058. 92 M.R. Marrus, L’Olocausto nella storia, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 62.
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l’avvenuta chiusura di un cerchio mentale: gli ebrei espulsi dalla Germania avevano riempito e sobillato i paesi che adesso erano nemici del Reich, la guerra contro gli uni era la guerra contro gli altri ed era una guerra — questo mi sembra il punto di novità centrale — che poteva concludersi solo con l’eliminazione di una delle due parti in lotta. In questi termini molti dei gerarchi nazisti — da Goebbels al governatore della Polonia Frank — si riferirono ripetutamente alla profezia del loro capo. La persecuzione antisemita si era ormai spinta oltre il punto di non ritorno e rendeva impossibile ogni convivenza. Ben prima dell’attacco armato all'Unione Sovietica, la dirigenza del Reich era entrata in una dimensione psicologica di Vernichtungskrieg, di «guerra di sterminio». L’abbandono dell'ipotesi sionista, in un primo tempo appoggiata, si spiegava nel quadro di una politica estera mondiale — e non più soltanto nazionale — che non poteva tollerare un centro di resistenza ebraico: chi era stato perseguitato così duramente sarebbe rimasto per sempre e ovunque un nemico mortale del Reich. Proprio la radicalizzazione progressiva delle misure antisemite contribuiva a rendere la guerra ormai imminente un’avventura senza ritorno, senza possibilità di rese condizionate. Allo stesso modo Mussolini nella Dichiarazione sulla razza del novembre precedente aveva motivato l’ipotesi dell'immigrazione ebraica in Etiopia con la necessità di «deviare la immigrazione ebraica dalla Palestina» e l’aveva comunque subordinata «all’atteggiamento che l’ebraismo assumerà nei riguardi dell’Italia fascista». Ancora prima della guerra neppure Mussolini escludeva l’adozione di misure più «radicali» nei confronti degli ebrei: un punto che è stato dimenticato dagli storici — in primo luogo Renzo De Felice — che hanno teso a collocare il fascismo fuori dal «cono d’ombra» della Shoah.
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6. Il tempo della guerra La prospettiva sempre più ravvicinata di un conflitto armato agiva da catalizzatore dei nodi della politica nazista. Da un lato, nel settembre 1939 l’invasione della Polonia fu il primo esempio di guerra totale e "senza ritorno": una gigantesca operazione di polizia finalizzata alla decapitazione dei ceti dirigenti e alla eliminazione dei potenziali nuclei di resistenza. Dall’altro, essa coincise non casualmente, sul piano interno, con la centralizzazione delle strutture del partito e della milizia ma anche con il rilancio dei programmi di eutanasia.
Anzitutto distruzione della Polonia - aveva detto Hitler alla riunione dei vertici militari in agosto - l’obiettivo è l'eliminazione di tutte le forze in grado di operare, non quello di raggiungere una data linea93.
La guerra contro la Polonia doveva essere una guerra radicalmente diversa da quelle combattute in precedenza dalla Germania e da quella che lo stesso Hitler condusse a Occidente, fondate sul rispetto del nemico, sull’obiettivo di una pace negoziata, sul raggiungimento «di una data linea» territoriale. Per la guerra a est, concepita come strumento di dominio permanente anziché conquista di territorio, la teoria razziale era insieme punto di partenza e punto d’arrivo: motivo di legittimazione della propria missione di civiltà verso popoli considerati naturalmente inferiori e, nello stesso tempo, obiettivo da raggiungere grazie ad un assoggettamento totale e senza riserve. Rispettando la spartizione concordata con Stalin, la Germania conquistò nel giro di poche settimane circa 200 mila chilometri quadrati con 22 milioni di abitanti, di cui quasi 2 ebrei. A realizzare le direttive di "eliminazione" enunciate da Hitler vennero inviati, al seguito delle truppe regolari, 2700 effettivi della Polizia di sicurezza diretta da Heydrich, divisi in sei Einsatzgruppen («gruppi d’azione») solo formalmente dipendenti dall’esercito. L'esecuzione degli ordini di Hitler comportò nell’autunno 1939 gravissime perdite nella popolazione civile polacca: esecuzioni sommarie di massa furono
93 Secondo discorso di Hitler ai comandanti in capo, 22 agosto 1939, documento PS 1014, Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, v.26, p.523.
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perpetrate dalle Einsatzgruppen ma anche da reparti della Wehrmacht ai danni di dirigenti politici, intellettuali, ebrei94.
È vero che la logica spietata della guerra razziale venne ripresa e radicalizzata con l’attacco all'Unione Sovietica nel giugno 1941. Ma sottolineare la rottura di barbarie introdotta nel 1941 e le sue implicazioni decisive per l'azione di sterminio, non deve far dimenticare che l’invasione della Polonia ne rappresentò un anticipo fedele e traumatizzante, la cui portata non sfuggì agli alti gradi e ai quadri intermedi della Wehrmacht. La rottura deliberata di tutte le convenzioni internazionali in tema di condotta bellica e la scelta di un coinvolgimento della popolazione civile nella guerra non nacque — per difesa o per reazione — nella lotta contro il bolscevismo; era radicata nella dottrina razziale che costituiva il nucleo decisivo dell'ideologia nazista.
Già allora la guerra distruttiva voluta da Hitler portò in primo piano le strutture politiche che al progetto razziale erano maggiormente legate, anche al prezzo di una aperta sfida all'establishment tradizionale dell’esercito tedesco. Alla libertà d’azione delle Einsatzgruppen in Polonia fece infatti riscontro la centralizzazione istituzionale del blocco di potere rappresentato dalla Polizia di sicurezza di Heydrich e dalle SS di Himmler. Dal giugno 1936 Himmler aveva unificato le cariche di capo delle SS e di capo della polizia tedesca, sviluppando alle proprie dirette dipendenze un apparato armato di spionaggio e repressione — nel 1939 forte di 240 mila unità — parallelo e teoricamente subordinato al ministro degli interni, Wilhelm Frick, ma in realtà del tutto autonomo. Una legislazione di emergenza divenuta permanente configurava la Germania nazista come un «doppio stato» dove, accanto allo stato normativo che formalmente conservava alcune parvenze dello stato di diritto, si imponeva uno stato discrezionale, diretto e realizzato da militanti liberi da vincoli legali e fedeli unicamente al credo ideologico della cieca obbedienza ai loro capi: «il mio onore si chiama fedeltà» era il motto delle SS. Nel settembre 1939 Himmler creò e affidò a Heydrich l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, che riunificò tutti gli organismi di polizia. La sezione IV dell’Ufficio incorporò la Gestapo e dedicò il reparto 4 della sottosezione D (dedicata ai territori occupati) al problema dell’emigrazione, assegnandolo nel dicembre ad Eichmann. Dopo pochi mesi il reparto diretto da Eichmann venne trasferito nella sottosezione B: quella relativa alla questione ebraica. Nel sistema di potere del Reich, la
C. Madajczyk, Die Okkupationspolitik Nazideutschlands in Polen 1939-1945, Colonia, Pahl-Rugenstein, 1988, p.15, fornisce un totale di circa 50 mila vittime. 65
struttura e la logica delle SS assumevano il ruolo di baricentro e di punto d’incontro tra politica interna e politica estera. La razionalità razziale si imponeva, infatti, anche sul fronte interno: le risorse umane non coinvolgibili nello sforzo bellico diventavano inutili bocche da sfamare, i posti letto negli ospedali una necessità da non "sprecare". Il risultato di queste spinte congiunte fu un rilancio del programma di eutanasia per malati incurabili. Dall’aprile 1940 il programma prese il nome di T4 dall’indirizzo berlinese (Tiergartenstrasse 4) degli uffici centrali che dirigevano le operazioni. Furono scelti alcuni ospizi e vecchi carceri tedeschi — Grafeneck, Hadamar, Brandenburg, Bernburg, Hartheim e Sonnenstein — dove una società di trasporti creata allo scopo trasferiva le persone selezionate. Ai familiari ne veniva poi comunicato l’avvenuto decesso e la cremazione. Numerose testimonianze rese a processi del dopoguerra da infermieri e impiegati coinvolti nel programma hanno raccontato che all’inizio del 1940 il metodo delle iniezioni di morfina e scopolamina fu sostituito dalla saturazione di una camera stagna con monossido di carbonio, rivelatosi un procedimento più rapido ed efficace95. Per le proteste della Chiesa Cattolica tedesca — segno sia del peso determinante che un’opposizione aperta poteva avere anche sotto il totalitarismo, sia del silenzio colpevole della chiesa medesima sul problema ebraico — il programma T4 venne sospeso nell’agosto 1941. Nel 1949 una sentenza del tribunale di Tobinga, poi confermata da quelle del 1967 e 1968 di Francoforte, accertò un totale di circa 70 mila morti eseguite nel biennio 1940-1941. Quando in seguito venne il momento di affidare funzioni di sterminio ad alcuni campi di concentramento, molti tra i comandanti e il personale vennero scelti dai ranghi del programma T4. In particolare nel centro di Hartheim avevano prestato servizio Franz Stangl, poi comandante di Sobibor e Treblinka, Christian Wirth, poi capo di Belzec, e Franz Reichleitner, poi capo di Sobibor. In totale furono 92, su un totale di circa 400, gli ex dipendenti del T4 che dopo un periodo di formazione presso la base delle SS a Trawniki, nella regione di Lublino, fornirono i quadri dirigenti dell’azione di sterminio. Nei nessi concreti, fatti di uomini e soluzioni tecniche, la macchina dello sterminio metteva in luce una stretta dipendenza dal progetto razziale elaborato dal Terzo Reich.
La vittoria imprevedibilmente rapida sulla Francia nella prima metà del 1940 mise le ali ai piedi della sezione del Terzo Reich che faceva capo ad Himmler. Tra il 1940 e il
95 E. Kogon - H. Langbein - A. Rückerl, Nazi Mass Murder. A Documentary History of the Use of Poison Gas, New Haven, Yale University Press, 1993.
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1941 i diversi progetti elaborati dagli uffici del commissariato per il rafforzamento della nazionalità tedesca, da lui diretto, confluirono in un Generalplan Ost («Piano generale per l’est»), che estese gli obiettivi di ingegneria razziale alle regioni sovietiche via via conquistate nel corso della guerra. Il piano venne così assumendo una dimensione grandiosa: nella sua formulazione della primavera 1942, prevedeva un tempo di attuazione di 25 anni a partire dalla fine della guerra, per un costo valutato in quasi 46 miliardi di marchi. Su una popolazione totale di 45 milioni di individui, 31 milioni erano classificati come «razzialmente indesiderabili» e dovevano essere trasportati in Siberia; gli altri, «germanizzati» attraverso opportuni incroci con i nuovi coloni tedeschi, dovevano presiedere allo sfruttamento agricolo dell’intera regione.
Era chiaro che il Generalplan Ost non poteva non dipendere da una resa senza condizioni dell’Unione Sovietica e dopo la sconfitta di Stalingrado nell’inverno 194243, Himmler vi perse interesse. Ma nelle sue proporzioni estreme, il piano resta un documento importante della cultura politica del Terzo Reich. Per Hitler rappresentava la realizzazione di un sogno coloniale e imperialista, che doveva sancire anche su questo piano la rivincita della Germania nei confronti della Gran Bretagna. Nel piano per l’est confluivano sia l’ideologia della razza come criterio guida per una rifondazione del patto sociale tra i cittadini e lo stato, sia l’applicazione di nuove teorie scientiste, come la Bevölkerungsökonomie («economia della popolazione») che fissava in un determinato tasso di densità di abitanti per chilometro quadrato la misura ottimale di ogni sviluppo economico96. Sarebbe un errore considerare questi progetti una espressione senza seguito del «delirio d’onnipotenza» del regime. Vi si scorge invece la dimensione titanica della missione che si era prefisso: la creazione di un uomo e di un ambiente radicalmente nuovi. Una missione talmente grande che poteva giustificare qualsiasi mezzo. Gli ebrei, per esempio, non facevano parte nel Generalplan Ost né degli evacuati né dei germanizzati.
Nei territori presi in esame risulta una popolazione totale di 51 milioni. In effetti il numero potrebbe essere più alto di quanto era previsto nel Piano di evacuazione. Anche se si deve pensare che i circa 5-6 milioni di ebrei che abitano in questo spazio, vengano liquidati [beseitigt] prima dell'evacuazione e quindi ne deriva una cifra prevista di 45 milioni di individui stranieri coinvolti nel piano [...] Un'evacuazione ulteriore dei suddetti ebrei è resa superflua dalla soluzione della questione ebraica97.
G. Aly - S. Heim, Vordenker der Vernichtung. Auschwitz und die deutschen Pläne für eine neue europäische Ordnung, Francoforte, Fischer, 1993. 97 H. Heiber, Der Generalplan Ost, «Vierteljahrshefte für zeitgeschichte», 6, 1958, pp. 300 e 305. 67
Quindi tra il maggio 1940 e l’aprile 1942 le intenzioni naziste riguardo agli ebrei, almeno per quanto risaltavano dai documenti ufficiali, erano passate dall’espulsione allo sterminio. Cosa era cambiato?
Dopo la conquista della Francia e dei Paesi Bassi il numero di ebrei controllati dalla Germania era salito a più di 3 milioni e mezzo: la questione si ingigantiva e le SS dettero il via ai loro esperimenti di evacuazione territoriale. A ovest, tra il luglio e il dicembre 1940, più di 100 mila alsaziani (tra ebrei, zingari, asociali e oppositori) furono deportati nella Francia di Vichy; in ottobre anche 6 mila ebrei tedeschi ne seguirono la sorte. Ad est l’Ufficio centrale per la sicurezza ribadì, contro le proteste del governatore Frank, il ruolo della Polonia come contenitore finale: un decreto della fine dell’ottobre 1940 proibì ogni emigrazione di ebrei dal Governatorato Generale, con la motivazione che le partenze sarebbero servite solo ad ingrossare le fila dei nemici della Germania all'estero e soprattutto in America.
Tuttavia erano bastati pochi mesi perché la situazione all’interno del contenitore si facesse caotica. Con due decreti successivi dell’ottobre e novembre 1939, gli ebrei del Governatorato erano stati obbligati al lavoro forzato e a portare una fascia al braccio con la stella di Sion. Ma le direttive di ghettizzazione che Heydrich aveva impartito un anno prima venivano eseguite con grande lentezza. Decretato in dicembre, il ghetto di Lodz
— con quasi 200 mila persone — fu chiuso nella primavera successiva; quello di Varsavia, con una popolazione di oltre 400 mila abitanti, nel novembre 1940. Ancora più tardi, nel corso del 1941, furono realizzati i ghetti di Cracovia e Lublino; gli ultimi furono chiusi nel 1943. Nelle intenzioni originarie di Heydrich i ghetti dovevano essere una misura di concentrazione transitoria in vista di non meglio specificati «scopi finali». In realtà la misura transitoria restò in vigore per diversi anni e quasi immediatamente le autorità naziste si trovarono di fronte al problema dell’approvvigionamento dei ghetti, complicato dalla loro totale separazione economica dal resto delle città. All’inizio i tedeschi accentuarono il blocco economico confidando su una pronta reviviscenza dei capitali che ritenevano nascosti in mano agli ebrei. Ma ben presto apparve chiaro che in assenza di disposizioni alternative il destino degli ebrei sarebbe stato quello di una lenta morte di massa per fame. I Consigli ebraici — gli organismi di autogoverno dei ghetti che collaboravano con le autorità di occupazione naziste — cominciarono allora a rivendicare posti di lavoro e sussidi finanziari sotto forma di prestiti ricavabili dai patrimoni sequestrati agli abitanti dei ghetti. La risposta nazista non fu univoca. 68
Nell’autunno 1940, a seconda delle situazioni locali, prevalsero i fautori della produttività in appoggio allo sforzo bellico della Germania, che puntavano al raggiungimento dell’autosufficienza economica dei ghetti dando per scontata la loro permanenza; oppure i fautori dell’attrito, che si proclamavano indifferenti se non favorevoli alla prospettiva di una estinzione “naturale” degli ebrei ghettizzati. Alcuni risultati furono conseguiti sul fronte dei posti di lavoro, particolarmente appetibili per gli imprenditori perché spesso retribuiti meno della metà dei salari normali. Tra l’ottobre e il dicembre 1940, nel ghetto di Lodz i lavoranti tessili triplicarono da 5 a 15 mila; tra l’estate del 1941 e quella del 1943 il numero totale di occupati raddoppiò da 40 a 80 mila. Ma al di là di queste differenze, il risultato complessivo dell'operazione fu in massima parte quello voluto dai fautori dell’attrito. Nella burocrazia nazista i ghetti continuarono ad essere ritenuti una stazione di passaggio e ad occupare un gradino bassissimo nella scala di priorità dell'amministrazione. Con i preparativi della guerra all’Unione Sovietica, nella primavera 1941, le razioni alimentari scesero al di sotto di quelle fornite alle carceri mentre la densità abitativa altissima diffondeva epidemie, soprattutto di tifo. Tra il febbraio e l’agosto 1941 nel ghetto di Varsavia il tasso di mortalità quintuplicò: durante i primi 3 anni di guerra morirono più di 80 mila persone su un totale di 400 mila, in quello di Lodz 45 mila su 200 mila.
Nell’estate 1941 era ormai chiaro che ogni possibilità di impiego produttivo dei ghetti si scontrava con la degenerazione accelerata delle condizioni di vita al loro interno. Da misura provvisoria in vista di un diverso «scopo finale», la ghettizzazione si era trasformata in strumento di concentrazione e decimazione “naturale” degli ebrei dell’Est. I ghetti polacchi, nati dal fallimento della politica di espulsione, si erano rivelati una trappola mortale, che aveva peggiorato in modo esiziale le condizioni di vita degli ebrei, ridotto di molto il loro contributo produttivo allo sforzo bellico e quindi la loro residua utilità agli occhi dei nazisti. Il «metodo Bolscevico» — nelle parole di Himmler — dello sterminio fisico cominciava ad apparire una soluzione possibile, addirittura più pratica e immediata di altre: forse l’unica rimasta a disposizione per assolvere l’imperativo di un Reich judenfrei, «libero da ebrei», in assenza di alternative migratorie bloccate dalla guerra.
Dietro questa svolta stava anche la più colossale operazione bellica della storia contemporanea: la guerra contro l’Unione Sovietica, già rinviata nel luglio 1940 e poi definitivamente fissata per il giugno 1941. Il Reich finalmente si volgeva contro il
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nemico che riuniva in sé i due obiettivi cruciali della battaglia nazionalsocialista: la sovversione comunista e le razze asiatiche inferiori. Alla fine del marzo 1941 Hitler lo ricordò a più di 200 alti ufficiali riuniti per l’occasione, in termini che ricordavano quelli usati nel 1939 per la Polonia. Il generale Franz Halder, presente all’incontro in qualità di capo di stato maggiore dell'esercito, si annotò i passi salienti del discorso di Hitler sul proprio diario.
Battaglia di ideologie contrapposte. Giudizio distruttivo sul bolscevismo, è come la criminalità asociale. Comunismo spaventoso pericolo per il futuro. Dobbiamo prendere le distanze dal cameratismo militare. Il comunista non possiede l'onore del soldato. Si muove per una guerra di sterminio. Se non comprendiamo questo e non colpiamo il nemico, in 30 anni il nemico comunista sarà ancora di fronte a noi. Non facciamo la guerra per conservare il nemico [...] Battaglia contro la Russia. Sterminio dei commissari bolscevici e della dirigenza comunista [...] La battaglia deve essere condotta contro il veleno della disgregazione. Non esiste nessun problema di corte marziale. I comandanti di truppa devono saperlo. Devono condurre la battaglia. La truppa deve difendersi con gli stessi mezzi con cui sarà attaccata. I commissari e gli agenti della Gpu [la polizia segreta di Stalin, ndr.] sono criminali e come tali devono essere trattati [...] La guerra sarà molto diversa dalla guerra a ovest98.
L’eliminazione della classe dirigente sovietica era la condizione necessaria per il conseguimento degli obiettivi che si prefiggeva l’operazione Barbarossa — il nome in codice dell'attacco all’Urss — e che nella loro formulazione più radicale avrebbero composto il Generalplan Ost, commissionato da Himmler proprio all’inizio dell’estate 1941: il conseguimento dell’autosufficienza economica attraverso la conquista di una grande area continentale ricca di materie prime, l’ampliamento dello spazio vitale ad est destinato ad assorbire le eccedenze di popolazione tedesca, l'assoggettamento dei popoli slavi secondo moduli coloniali. Gli ordini dell'alto comando della Wehrmacht, che trasmisero le direttive hitleriane alle truppe destinate all'offensiva, raccolsero in modo esplicito la sovrapposizione di nemico politico e nemico razziale. Le direttive esplicite furono di eliminare sul campo tutti i nemici potenzialmente più pericolosi: tra di esse figurava il famoso Kommissarbefehl («Ordine del commissario») firmato dal generale Warlimont per l’alto comando delle forze armate che imponeva l’uccisione immediata di tutti i commissari politici dell’Armata Rossa. Questa palese infrazione delle leggi di guerra — che prescrivevano garanzie per i prigionieri di guerra e proteggevano
98 H.A. Jacobsen, Generaloberst Halder. Kriegstagebuch. Tägliche Aufzeichnungen des Chefs des Generalstabes des Heeres 1939-1942, v.2, Stoccarda, Kohlhammer, 1963, pp.336-7, 30 marzo 1941.
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particolarmente gli ufficiali — fu motivata con la stessa logica razziale che presiedeva al discorso di Hitler. Il “lavoro sporco” che in Polonia era rimasto appannaggio delle SS, suscitando le rimostranze delle forze armate regolari, in Unione Sovietica si trasformava in direttiva esplicita per tutto l'esercito.
In realtà l’ordine relativo ai funzionari politici dell'esercito nemico era solo l'indicazione di un obiettivo preciso all’interno di un quadro già predisposto per una violazione sistematica delle leggi di guerra. La paura di un ambiente sconosciuto e di una resistenza partigiana senza regole era la molla usata da Hitler per convincere l'esercito a sospendere la legislazione marziale: già in maggio l'azione dei tribunali militari nei confronti di soldati rei di crimini commessi contro popolazioni civili nemiche venne resa «non obbligatoria» e la legge della rappresaglia ufficialmente introdotta.
Agli ordini di un ufficiale di grado uguale o superiore al comando di un battaglione, misure dispotiche collettive saranno prese senza indugio contro località da cui provengano attacchi dissimulati e proditori alle forze armate, se le circostanze non permettono una rapida identificazione degli aggressori individuali99.
Nel trasmettere quest’ordine ai suoi ufficiali, il generale Keitel ne raccomandò la distruzione immediata: segno della percezione chiara di una svolta illegale nella condotta della guerra e anche della resa del potere militare — con le sue leggi e tradizioni d’onore — al potere politico. Questa consapevolezza d’illegalità viene sempre dimenticata da quanti — per esempio anche in relazione al caso Priebke — continuano a ritenere che la rappresaglia sia una norma della condotta bellica. Al contrario si tratta di una rottura di quelle norme, consapevolmente attivata da Hitler e dall’esercito tedesco nel corso della guerra combattuta ad est. Le Fosse Ardeatine, Marzabotto e gli altri eccidi perpetrati sui fronti occidentali avvengono soltanto a partire da questa rottura.
Gli studi più recenti concordano nel delineare un quadro che, a partire dal 1941, mostra la penetrazione diffusa fino ai gradi meno elevati della Wehrmacht dell'indottrinamento nazista e la pronta disponibilità alla soppressione di prigionieri e ad
99 Ordine del quartier generale del Führer, 13 maggio 1941, documento C 50, Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, v. 36, p. 253.
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azioni contro civili inermi100. Com'è noto, gli effetti di questa complicità furono devastanti e il numero delle vittime di guerra — sia militari che civili — sul fronte orientale resta di gran lunga il più alto di tutto il conflitto. Solo il 4% dei militari angloamericani caduti in mano tedesca morì nel corso della prigionia, ma ben il 58%
(3.3 milioni su 5.7) dei prigionieri sovietici. Il pugno di ferro serviva non solo e non tanto a una rapida vittoria: era il segno di un dominio che doveva restare permanente. Ancor prima della conferenza del 30 marzo, gli ordini emanati dal Führer prevedevano nei territori russi conquistati la creazione di stati satelliti, la cui amministrazione politica era interamente delegata al capo delle SS. Lo spauracchio di un nemico barbaro serviva ad alimentare la guerra razziale già sperimentata in Polonia. Per condurre a termine questo incarico tutt’altro che semplice, gli uomini inviati al seguito delle truppe in territorio sovietico non erano molti: circa 3 mila — poco più di quelli impiegati in Polonia — divisi in 4 Einsatzgruppen motorizzati che si spartirono da nord a sud l’intero fronte di attacco. Ma già a metà luglio Himmler si preoccupò di affiancare loro alcuni reparti delle Waffen-SS che quadruplicarono il numero degli effettivi. Vi si aggiunsero poi almeno 11 battaglioni di polizia che, coadiuvati da milizie autoctone, portarono il numero di soldati impegnati nella “pacificazione” a 33 mila alla fine del 1941, 165 mila nel giugno 1942 e a ben 300 mila nel gennaio 1943.
Le prime settimane di guerra confermarono la potenza travolgente della macchina da guerra tedesca e l’Armata Rossa fu costretta a ritirarsi subendo ingenti perdite. Hitler poteva così spostare la sua attenzione dai problemi militari — che ormai riteneva in sostanza risolti — alla pacificazione dei territori conquistati. A metà mese, in una riunione con Göring, Keitel e Rosenberg (un teorico del partito e consulente di Hitler per le questioni orientali), il Führer osservò: «i russi hanno dato l'ordine di condurre una guerra partigiana dietro le nostre linee. Questa guerra partigiana ha anche i suoi vantaggi: ci dà la possibilità di sterminare [ausrotten] qualunque cosa sia contro di noi»101. Dall’incontro durato 5 ore scaturì il decreto firmato da Hitler il giorno successivo, che nominava Rosenberg ministro delle zone d’occupazione ma lasciava
100 M. Messerschmidt, Die Wehrmacht im NS-Staat. Zeit der Indoktrination, Amburgo, Decker, 1969; C. Streit, Keine Kameraden. Die Wehrmacht und die sowjetischen Kriegsgefangenen 1941-1945, Stoccarda, Deutsche Verlags-Anstalt, 1975; O. Bartov, The Eastern Front 1941-1945. German Troops and the Barbarisation of Warfare, Oxford, Londra, MacMillan, 1985.
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intatta l’ampia delega concessa ad Himmler e alle SS per la “bonifica” di tutta l’area. Lo stesso giorno Heydrich trasmetteva ai capi delle sue squadre in Russia l'ordine n.8:
Compito dei Kommando è l’esame politico di tutti i detenuti nei campi e la selezione per successivi trattamenti [...] Prima di tutto bisogna rintracciare tutti i funzionari importanti di stato e di partito, specialmente i rivoluzionari di professione, i funzionari del Komintern, tutti i dirigenti del partito e delle organizzazioni collaterali nel comitato centrale, nei comitati regionali e provinciali, tutti i commissari del popolo e i loro rappresentanti, tutti gli ex commissari politici dell'Armata Rossa, le personalità amministrative centrali e intermedie dello stato, le personalità influenti nella vita economica, gli intellettuali sovietici, gli ebrei, tutte le persone riconosciute come sovversive o fanatiche comuniste [...] Sulla base di quest’ordine e delle successive misure da prendere i Kommando devono richiedere alla direzione dei campi il rilascio dei prigionieri selezionati. I comandanti dei campi hanno ordine dall'alto comando dell'esercito di accogliere questo tipo di richieste. Le esecuzioni non devono compiersi nel campo o nelle sue immediate vicinanze. I campi situati nel Governatorato Generale sono molto vicini al confine, in modo da rendere possibile il trasporto dei prigionieri destinati al trattamento speciale [Sonderbehandlung] dall’ex territorio sovietico102.
Anche se limitato alla selezione di prigionieri già internati nei campi di concentramento (che in settembre superarono il milione), l’ordine indicava chiaramente tutti gli ebrei — e non più solo quelli legati a cariche politiche — come nemici da eliminare: il criterio razziale sostituiva il criterio politico. Il termine Sonderbehandlung, già usato espressamente da Heydrich come sinonimo di esecuzione capitale nel settembre 1939, si collegava per la prima volta ai nuovi lager creati nei territori occupati dal Reich e soprattutto in Polonia, che si erano aggiunti ai vecchi campi di concentramento nazisti come Dachau e Mauthausen. Tra di essi figurava il campo di Auschwitz, nella regione di Cracovia, ottenuto da una piccola caserma dell’esercito polacco, ispezionato e dichiarato adatto allo scopo nel febbraio 1941, che Himmler aveva visitato in marzo ordinandone un massiccio ampliamento, ben oltre le dimensioni fin allora raggiunte dagli altri lager del Terzo Reich.
Non poteva sfuggire a Berlino che l’offensiva ad est avrebbe messo in mano nazista una massa di ebrei stimabile tra i 2 e i 5 milioni: una realtà drammatica, che l’esperienza condotta in Polonia aveva ormai dimostrato irrisolvibile con le misure fin allora adottate
101 Verbale dell'incontro tra A.Hitler, H.Rosenberg, H.Göring, H.H.Lammers, W.Keitel, 16 luglio 1941, documento L 221, Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, v. 38, p.
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di deportazione e ghettizzazione. Heydrich premeva per una applicazione anche agli ebrei dei metodi spicci, che l'invasione adottava nei confronti dei partigiani effettivi o presunti, e alla fine di luglio ottenne un mandato esplicito e totale da Göring:
A integrazione del compito assegnatovi con il decreto del 24 gennaio 1939 [la direzione dell'Ufficio centrale per l'emigrazione ebraica] di intraprendere tramite emigrazione o evacuazione, una soluzione della questione ebraica il più possibile vantaggiosa nelle condizioni attuali, vi affido la preparazione di tutti gli adempimenti organizzativi, tecnici e materiali necessari a una soluzione completa [Gesamtlösung] della questione ebraica nella sfera di influenza tedesca in Europa. Se la giurisdizione di altri enti centrali venisse per questo ad essere interessata, essi devono essere coinvolti. Vi incarico altresì di sottoporre alla mia persona nel prossimo futuro un piano globale dei provvedimenti organizzativi, tecnici e materiali da prendersi nella messa in opera della attesa soluzione finale [Endlösung] della questione ebraica103.
L’incarico di Göring era la svolta decisiva? Dava alle SS l'ordine di sterminare gli ebrei in tutta Europa e non più soltanto ad est? Le testimonianze retrospettive fornite da Eichmann e da Höss concordano nel collocare questo momento nell’estate 1941. Gli storici tuttavia sono discordi nell’interpretazione dell’ordine dato da Göring alla fine del luglio 1941. Alcuni vi vedono il risultato di un’intenzione hitleriana maturata fin dagli anni Venti e la semplice sistematizzazione di decisioni già prese tra l’inverno e la primavera 1941 nel quadro della preparazione dell'operazione Barbarossa104. Altri vi scorgono soltanto una pianificazione su scala europea delle deportazioni e rinviano la formazione di una scelta definita in favore dello sterminio all’autunno successivo, come conseguenza dell'arresto dell'avanzata tedesca sul fronte russo105. Altri ancora negano l’esistenza di un ordine centrale e interpretano le origini dello sterminio come un processo di «radicalizzazione cumulativa» che avvenne in periferia per iniziative autonome locali, nel contesto di un fallimento dell'offensiva nazista e di un imbarbarimento globale della guerra ad est106. Infine vi sono gli studiosi che
102 Ordine d’azione n.8 di R.Heydrich agli ufficiali delle SS e della Sipo in Unione Sovietica, 17 luglio 1941, documento PS 502, Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, v.26, pp. 111-4. Il corsivo è nostro. 103 Ordine di H.Göring a R.Heydrich, 31 luglio 1941, documento PS 710, Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, v. 26, pp. 266-7.104 G. Reitlinger, L. Dawidowicz, R. Hilberg, G. Fleming, Hitler und die Endlösung, Wiesbaden, Limes Verlag, 1982. 105 A.J. Mayer, P. Burrin, U.D. Adam, Judenpolitik im Dritten Reich, Düsseldorf, Droste, 1972.
M. Broszat, Hitler und die Genesis der «Endlösung». Aus Anlass der Thesen von David Irving, «Vierteljahrshefte für zeitgeschichte», 25, 1977, pp.739-75; H. Mommsen, Die Realisierung des 74
restituiscono all'ordine di Göring un valore relativo di cesura storica all'interno dei “mesi decisivi” che vanno dall’estate all’autunno 1941 e comprendono la scelta dello sterminio entro la pianificazione nazista dell'attacco all'Urss107. Ciò che comunque sappiamo dai rapporti trasmessi dalle Einsatzgruppen a Berlino tra il giugno 1941 e il maggio 1943 è che fin dalle prime settimane di guerra le esecuzioni colpirono solo in parte l’intelligencija comunista già evacuata e si dedicarono in larga maggioranza agli ebrei maschi adulti. Sulla base di questi rapporti si valuta che già a fine luglio il totale di civili uccisi superasse la cifra di 60 mila. Ma a metà agosto, di fronte ai primi inaspettati segni di ripresa dell’Armata Rossa, le cifre trasmesse a Berlino subirono un’impennata e la persecuzione politica nazista si trasformò in pulizia etnica includendo tra le persone da colpire anche anziani, donne e bambini che fino a quel momento erano invece stati evacuati.
Il 7 ottobre il Kommando 4a dell’Einsatzgruppe C riferì di aver «eseguito» nella fossa di Babi Yar, alla periferia di Kiev, in soli due giorni (il 29 e 30 settembre) 33.771 ebrei — praticamente l’intera comunità ebraica rimasta in città e in prevalenza formata da vecchi, donne e bambini — come rappresaglia per gli attentati che erano costati la vita a diverse decine di soldati tedeschi. Nel rapporto di metà ottobre 1941 che l'Einsatzgruppe A, operante nel Baltico, inviò a Berlino il numero totale di esecuzioni effettuate fino a quella data era di 121.817: i comunisti uccisi erano 3.387, gli ebrei 118.430108. Nel gennaio 1942 il ruolino di marcia dell'unità era salito a 229.052. Con ogni evidenza, una escalation così vistosa del numero di vittime civili era sempre meno giustificabile con ragioni connesse alla guerra. Alla fine di ottobre il ministro per i territori orientali occupati Rosenberg chiese a Hinrich Lohse, il commissario del Reich per l’Ostland (i territori conquistati del Baltico e di Bielorussia), come mai avesse proibito le esecuzioni di ebrei nel territorio di sua competenza.
Utopischen: «Die Endlösung der Judenfrage» im Dritten Reich, «Geschichte und Gesellschaft», 9, 1983, pp.381-420; C. Streit, Ostkrieg, Antibolschevismus und «Endlösung», ivi, 17, 1991, pp.242-55. 107 C.R. Browning, Fateful Months. Essays on the Emergence of the Final Solution, New York, Holmes & Meier, 1985. 108 Il riepilogo delle esecuzioni eseguite al 15 ottobre 1941 è il documento L 180, Trial of the Major WarCriminals before the International Military Tribunal, v. 37, pp. 702.
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Ho proibito le selvagge esecuzioni di ebrei perché i metodi adottati non erano in alcun modo giustificabili. Vorrei sapere se la vostra domanda del 31 ottobre deve considerarsi una direttiva per la liquidazione di tutti gli ebrei dell'est; se ciò avverrà senza alcun riguardo all'età, al sesso, agli interessi economici. La pulizia delle regioni orientali dagli ebrei è senz'altro un compito ineludibile; ma la sua soluzione deve essere armonizzata con le necessità della produzione bellica. Finora non sono stato messo in grado di reperire tale direttiva109.
Naturalmente era difficile per Lohse — come per noi — reperire un ordine scritto che estendesse l'azione di bonifica politica delle zone occupate a tutti gli ebrei in quanto tali, compresi i vecchi e i bambini. Ma era altrettanto difficile per Lohse — e anche per noi — attribuire ad una spontaneità incontrollata gli episodi sempre più frequenti di pulizia etnica generalizzata. A metà dicembre Lohse ricevette comunque una risposta chiara:
Attraverso discussioni orali è stata fatta chiarezza sulla questione ebraica: in linea di principio gli interessi economici devono passare in subordine rispetto alla sistemazione di tale questione110.
L'andamento della guerra ad est suscitava a Berlino spinte contrastanti. Da un lato, le speranze in un crollo repentino dell'Unione Sovietica erano ormai cadute e tornava alla ribalta il problema della produzione e del lavoro finalizzati a una guerra che sicuramente sarebbe stata più lunga del previsto: fin dall'ottobre 1941 Hitler si era deciso a impiegare prigionieri russi nella costruzione di strade. Dall’altro, l’attività delle Einsatzgruppen dimostrava la praticabilità di una strada diversa — più feroce e più pratica — da quella delle deportazioni e dei ghetti. Le linee della politica nazista in tema di questione ebraica si rimettevano in moto. Ribaltando l'orientamento contrario emerso subito dopo la Notte dei Cristalli, nel settembre 1941 la misura di riconoscimento degli ebrei attraverso una stella gialla adottata nel Governatorato fu introdotta anche in Germania, insieme a provvedimenti restrittivi della libertà di movimento. Le linee telefoniche appartenenti agli ebrei furono tagliate; in ottobre i lavoratori ebrei furono esclusi dalla legislazione assistenziale e pensionistica. Contemporaneamente venne decretata ufficialmente la fine di ogni proposito di soluzione della questione ebraica per
109 Lettera di H. Lohse al ministro per i territori orientali occupati, A. Rosenberg, 15 novembre 1941, documento PS 3663, Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, v. 32,
p. 436.110 Lettera del ministero per i territori orientali occupati a H. Lohse, 18 dicembre 1941, documento PS3666, Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, v. 32, pp. 437. 76
via migratoria: il 23 ottobre 1941 il capo della Gestapo, Heinrich Müller, trasmise l’ordine di Himmler che bloccava ogni ulteriore fuga legale di ebrei dai territori controllati dal Reich, ferme restando le azioni di deportazione condotte dalle autorità tedesche. Come testimoniava la delega in bianco firmata in luglio da Göring a Heydrich per l’intera «sfera di influenza tedesca in Europa», il destino degli ebrei dell'Europa occidentale veniva accomunandosi a quello degli ebrei orientali, nel quadro di una soluzione finale e totale del problema.
A metà settembre Himmler comunicò al responsabile di partito nella provincia polacca del Warthegau che la Germania e il Protettorato di Boemia e Moravia dovevano diventare judenfrei al più presto, attraverso nuove massicce deportazioni verso i ghetti polacchi e «ancora più a est». Il 15 ottobre partì dalla stazione di Vienna il primo treno carico di ebrei destinato al ghetto di Lodz; nei giorni successivi ne partirono altri tre da Berlino, Praga e dal Lussemburgo. Era tuttavia chiaro che i ghetti orientali — fin dall'inizio concepiti come misura temporanea in vista di altri scopi finali — potevano rappresentare solo una tappa di transito: la loro situazione economica e sanitaria, ormai precipitata, non consentiva alcun assorbimento ulteriore di popolazione. Si faceva strada, insomma, l’idea di scelte più radicali ed efficaci. Il 30 novembre 1941, Himmler telefonò dal quartier generale di Hitler a Heydrich, che si trovava a Praga e annotò sulla propria agenda il succo della comunicazione:
Arresto dr.Jekelius presunto figlio di Molotov [il ministro degli esteri sovietico]. Trasporto di ebrei da Berlino. Nessuna liquidazione111.
Agenda di H. Himmler, 30 novembre 1941, documento originale presso gli Archivi nazionali di Washington, sezione Microfilm, T 84, Roll 26, riprodotto in L. Dawidowicz, The Holocaust and the Historians, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1981, p.37.
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7. Le strutture per la morte di massa La prassi di eliminare, quantomeno parzialmente, gli ebrei evacuati ad est si era
ormai talmente affermata che il capo delle SS doveva intervenire personalmente per
garantire l'incolumità di un possibile ostaggio. Da testimonianze fornite nel dopoguerra
sappiamo che già a metà agosto lo stesso Himmler aveva dato facoltà di esperire metodi
di esecuzione capitale diversi dalle fucilazioni di massa, causa di abbrutimento tra gli
effettivi delle Einsatzgruppen. Fu a questo punto che il personale formatosi nell’ambito
del progetto T4 e rimasto disoccupato dopo la sua sospensione venne inviato sul fronte
orientale. L’esperienza svolta nell’ambito del progetto eutanasia indirizzò subito le
ricerche verso l’impiego di gas venefici, seguendo diverse strade parallele.
La prima fu quella dei gaswagen («veicoli a gas»): speciali camion a tenuta stagna
che riutilizzavano i gas di scarico del motore tenuto acceso dopo che era stato
completato un «carico» umano variabile, a seconda dei tipi di furgone, da 25 a 60
persone. Nel giugno 1942 venne rimesso a Berlino un rapporto generale sull’efficacia di
questa nuova tecnica.
Dal dicembre 1941 sono stati trattati [verarbeitet] per esempio 97 mila, usando 3 camion, senza che nei veicoli si sia manifestato alcun difetto [...] Sembra che sia necessaria una riduzione dello spazio di carico del camion. Ciò si può ottenere accorciandolo di circa un metro. Il problema non può essere risolto semplicemente riducendo il numero di soggetti trattati, come si è fatto finora. Perché in tal caso diventa più lungo il tempo di esecuzione, necessario perché l'ossido di carbonio saturi gli spazi vuoti. Viceversa, se il piano di carico fosse più piccolo, ma interamente occupato, l'operazione richiederebbe molto meno tempo, perché non ci sarebbero spazi vuoti. La ditta costruttrice ha sostenuto nel corso di discussioni che una riduzione di volume del camion provocherebbe una distribuzione ineguale del carico. Ci sarebbe il rischio di un sovraccarico dell'asse. In effetti si verifica una compensazione naturale nella distribuzione del peso. In fase operativa il carico, nello sforzo di raggiungere la porta posteriore, si ammassa per la maggior parte nel retro [...] L'esperienza inoltre dimostra che quando la porta posteriore si chiude e l'interno rimane al buio, il carico si getta contro la porta. Il motivo è che quando si trova al buio il carico si protende verso la poca luce che rimane. Il che ostacola l'operazione di chiusura della porta. Si è anche notato che il rumore provocato dalla chiusura della porta si combina con la paura suscitata dall'oscurità. E' perciò utile tenere le luci interne accese prima dell'operazione e durante i primi minuti della sua attuazione. Le luci sono anche necessarie per il lavoro notturno e per la pulizia del vano di carico. Per facilitare lo scarico rapido dei furgoni, deve essere collocata sul pavimento una griglia asportabile, con pattini scorrevoli su una rotaia a forma di
U112.
112 Lettera della sezione IID3 della Polizia di sicurezza a W. Rauff, direttore della divisione IID, 5 giugno 1942, documento originale presso gli Archivi nazionali di Washington, R 58/871, riprodotto in copia in E. Kogon -H. Langbein - A. Rückerl, Nazi Mass Murder, cit., pp. 231-5.
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Tra i documenti di Norimberga è rimasta parte della corrispondenza intercorsa tra l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich e i comandi delle Einsatzgruppen che richiedevano l'invio di altri gaswagen per l’effettuazione dei trattamenti speciali riservati agli ebrei. Era lo stesso personale ispettivo inviato da Berlino a rilevare come non solo tra le autorità ma anche tra i civili quei camion particolari fossero ormai noti come Todeswagen, «camion della morte». Nel castello disabitato di Chelmno, ad ovest di Varsavia, iniziò nel dicembre 1941 un impiego sistematico di gaswagen ai danni degli ebrei della vicina Lodz: a metà mese le autorità naziste informarono il ghetto della città — destinazione privilegiata delle deportazioni di ebrei avviate nell’ottobre precedente — che era imminente l’evacuazione della popolazione rimasta.
La seconda strada fu aperta, di propria iniziativa, dal comandante del lager di Auschwitz, Rudolf Höss. Secondo la sua testimonianza, agli inizi del settembre 1941 fu condotta a termine l'esecuzione capitale di circa 600 prigionieri russi e 250 detenuti incurabili, saturando i locali del forno crematorio che serviva all'incenerazione dei cadaveri con un prodotto (Zyklon B, «Ciclone B»: acido cianidrico fissato su pasticche di silice, volatile alla temperatura di 27 gradi) usato fin dal luglio 1940 per la disinfestazione. L’esperimento condotto ad Auschwitz rimase per il momento senza seguito ma, insieme alla prassi sistematica inaugurata a Chelmno, indicava la possibilità di un mutamento di natura e funzione dei campi di concentramento, in qualche modo parallelo a quello vissuto dai ghetti urbani dell’est: da luoghi di detenzione, punizione e correzione attraverso il lavoro a luoghi di eliminazione fisica.
Dopo la visita di Himmler del marzo 1941, Auschwitz era stato diviso in 3 campi diversi secondo una classificazione, per finalità, decisa nel gennaio precedente: Auschwitz I, ampliato fino a contenere 30 mila detenuti, era considerato — come quello di Dachau — un campo di concentramento di primo livello, con scopi di rieducazione: i primi ad entrarvi nel maggio 1940, erano stati 700 cittadini polacchi incarcerati dalla Gestapo. Il nuovo insediamento di Auschwitz II, che si iniziò a costruire nell'ottobre 1941 a Birkenau, doveva ospitarne più di 100 mila ed era un lager di secondo livello (come Buchenwald e Flossenburg) destinato a casi più “gravi”. Altri 10 mila prigionieri erano impiegati nello stabilimento che l'impresa chimica I.G.Farben aveva attivato in un sobborgo di Auschwitz per la produzione di carburante e gomma sintetica. Al terzo livello, quello più duro destinato agli “irrecuperabili”, appartenevano invece altri lager
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come quello di Mauthausen, che con il decreto «Notte e Nebbia» del dicembre 1941 si erano aperti a tutte le persone «pericolose per la sicurezza dei tedeschi» nei paesi occupati dal Reich.
Fin dalla fase di progettazione, la guerra contro l’Unione Sovietica aveva quindi sollecitato energie nuove nel campo della lotta razziale: le più diverse iniziative locali — dalle fucilazioni delle Einsatzgruppen ai gaswagen, alle sperimentazioni di Höss — si erano sviluppate caoticamente nel quadro della delega complessiva ottenuta da Heydrich per una «soluzione totale» del problema ebraico. C’era bisogno di mettere ordine e il 29 novembre 1941 Heydrich convocò una riunione allargata a tutti i possibili interessati, allegando copia dell'incarico ricevuto a fine luglio da Göring. Dopo l'attacco giapponese a Pearl Harbour del 7 dicembre, la riunione — inizialmente fissata per il 9 dicembre — venne rinviata al 20 gennaio 1942. L’incontro si svolse negli uffici dell’Interpol, in una villa sul lago di Grosser Wannsee alla periferia di Berlino, alla presenza di 14 persone. Erano rappresentati tutti gli alti gradi delle SS e della Sipo (lo stesso Heydrich, Müller, Eichmann che stese il verbale), il Governatorato Generale (Frank aveva fatto riferimento alla conferenza nel succitato discorso del dicembre), la Cancelleria del Reich e del partito nazista, i ministeri degli interni, della giustizia, degli esteri, dei territori orientali occupati, l'Ufficio centrale per la razza e quello per il piano quadriennale.
Heydrich svolse la relazione introduttiva, tracciando un bilancio di attività dell’Ufficio centrale per l'emigrazione ebraica da lui diretto a partire dal gennaio 1939: fino al 31 ottobre 1941 erano usciti dal Reich circa 537 mila ebrei.
In alternativa all'emigrazione si è presentata ora la possibile soluzione, previa relativa approvazione da parte del Führer, dell'evacuazione degli ebrei verso est. Queste azioni sono tuttavia da considerarsi soltanto come un ripiego, ma possono già servire a raccogliere quelle esperienze pratiche che sono di importante significato in vista della prossima soluzione finale della questione ebraica. Nel quadro di questa soluzione finale della questione ebraica europea sono coinvolti circa 11 milioni di ebrei [...] Sotto guida opportuna nel quadro della soluzione finale gli ebrei devono d'ora in poi andare nell'est per attività lavorative a loro adatte. In grandi squadre di lavoro divise per sesso, gli ebrei abili al lavoro saranno condotti in questi territori a costruire strade, per cui senza dubbio una gran parte cadrà [ausfallen] per riduzione naturale. Alla fine gli eventuali resti rimanenti, giacché in questo caso si tratta della parte più resistente, devono essere trattati [behandelt] di conseguenza, perché rappresentano il prodotto di una selezione naturale e in caso di liberazione devono essere considerati il seme di una nuova rinascita ebraica (come la storia insegna). Nel quadro della realizzazione pratica della soluzione finale l'Europa sarà passata al setaccio da ovest verso est [...] Gli
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ebrei evacuati verranno dapprima trasferiti treno per treno nei cosiddetti ghetti di transito, per essere poi trasferiti ancora più a est ]...] Per quanto riguarda il problema degli effetti dell'evacuazione ebraica sulla vita economica, il segretario di stato Neumann ha spiegato che gli ebrei impiegati in industrie di importanza bellica non potranno essere evacuati fino a che non si avranno a disposizione dei rimpiazzi. Il generale delle SS Heydrich ha fatto presente che secondo le direttive da lui approvate per la realizzazione delle azioni di evacuazione in atto non sarebbero lo stesso stati evacuati. Il sottosegretario di stato dr. Bühler ha osservato che il Governatorato Generale avrebbe apprezzato se si fosse iniziato la soluzione finale di tale questione nel Governatorato, dove in primo luogo il problema del trasporto non ha un ruolo fondamentale e inoltre non ci sono ragioni di necessità lavorativa che ostacolerebbero questa azione113 .
La conferenza di Wannsee durò poco più di due ore: non aprì una vera discussione
sui modi della soluzione finale e in pratica servì a stabilire la priorità delle deportazioni
ebraiche all'interno dell'amministrazione nazista. I toni usati da Heydrich
riecheggiavano la grandiosità dei progetti che nelle stesse settimane andavano a
comporre il Generalplan Ost: tra gli 11 milioni di ebrei di cui era prevista l'evacuazione
figuravano anche quelli inglesi, spagnoli, portoghesi. La loro sorte non era
esplicitamente fissata ma affiorava tra le righe di un verbale volutamente asettico:
sarebbero stati trasportati in zone dove da tempo gli ebrei morivano a migliaia per cause
«naturali» nei ghetti e per mano armata da parte delle Einsatzgruppen e delle milizie
locali ad esse collegate. I sopravvissuti alla selezione naturale prodotta dalle condizioni
proibitive dei viaggi e dei lavori forzati sarebbero stati “trattati” di conseguenza al fatto
di rappresentare il nucleo più resistente e quindi più pericoloso per la rinascita di un
popolo che le persecuzioni del Reich avevano ormai reso un nemico mortale.
Tra l’ottobre e il novembre a Belzec, sulla linea ferroviaria tra Lublino e Lvov,
cominciarono i lavori per la costruzione di un nuovo Lager, che sotto Natale venne
affidato al commissario di polizia Christian Wirth. Il maresciallo delle SS Josef
Oberhauser era il suo vice e nel 1962, al processo che si tenne a Francoforte, rilasciò
questa testimonianza.
Il binario di servizio della stazione di Belzec portava direttamente nel settore 2 dove si trovavano anche le baracche per spogliarsi, gli impianti per la gassazione e il campo delle fosse. Al tempo in cui ero a Belzec l'impianto per la gassazione era ancora sistemato in una baracca, rivestita all'interno di lamiera e della capacità di circa 100 persone [...] Le gassazioni di ebrei nel Lager di Belzec fino al primo agosto 1942 possono essere distinte in due categorie: nella prima serie sperimentale
113 Copia n.16 del verbale della Conferenza di Wannsee, 20 gennaio 1942, documento NG 2586, in L. Picciotto Fargion, Per ignota destinazione. Gli ebrei sotto il nazismo, Milano, Mondadori, 1994, pp.213
20. Abbiamo apportato alcune varianti di traduzione dal tedesco. 82
si trattava di 2-3 convogli con 4-6 vagoni, ognuno di 20-40 persone. In media, con ogni convoglio venivano trasferiti e uccisi 150 ebrei. Queste gassazioni non avevano il carattere di un'azione sistematica di eliminazione: si voleva soprattutto sperimentare e verificare la capienza del Lager e provare come poteva essere eseguita dal punto di vista tecnico una gassazione. Dopo queste prime gassazioni Wirth e tutto il personale tedesco sparirono da Belzec [...] Nelle 6 settimane successive nel Lager di Belzec regnò la tranquillità. Poi, all'improvviso, ai primi di maggio del 1942 capitò a Lublino il maggior generale delle SS Brack della Cancelleria del Führer. Con Globocnik discusse di come portare a compimento l'ulteriore annientamento degli ebrei. Globocnik disse che aveva troppo poco personale per eseguire questo progetto. Brack dichiarò che il programma eutanasia stava per finire e gli veniva continuamente assegnato personale del T4, cosicché le decisioni prese nella conferenza di Wannsee potevano venir messe in atto. Poiché alle Einsatzgruppen che liberavano dagli ebrei le singole zone non sembrava possibile riuscire a uccidere mediante fucilazione anche le persone contenute nei grandi ghetti di Varsavia e Leopoli, fu deciso di creare ancora due campi di sterminio che dovevano essere pronti entro il primo agosto 1942, e cioè Treblinka e Sobibor. In quella data doveva prendere il via la grande azione di annientamento. Circa 8 giorni dopo la visita di Brack a Globocnik, Wirth ritornò a Belzec con i suoi uomini. Fino al primo agosto 1942 ebbe luogo una seconda serie sperimentale. In questo periodo arrivarono a Belzec in tutto 5 o 6 convogli (per quel che ne so) con 5-7 vagoni di 30-40 persone ognuno. Gli ebrei di due di questi convogli vennero uccisi col gas nella camera piccola, poi Wirth fece distruggere la baracca delle gassazioni ed erigere un massiccio edificio di capienza molto maggiore. In questo vennero uccisi con il gas gli ebrei dei rimanenti convogli. Durante la prima serie sperimentale e per i primi convogli della seconda serie sempre sperimentale venne usato gas in bombole, ma gli ebrei degli ultimi convogli della seconda serie vennero già uccisi con i gas di scarico del motore di un carro armato o di un camion114.
L’esperienza di Belzec servì ad aprire altri due campi di sterminio a Sobibor, a nord
ovest di Lublino, e a Treblinka, a nord di Varsavia, che furono ultimati rispettivamente
nell’aprile e nel luglio 1942. Vi furono utilizzati gli stessi metodi — la saturazione di
locali con gas di scarico di motori a scoppio — su scala ancora più ampia: le camere a
gas divennero 3, ognuna con la capienza di circa 150 persone. Alla fine del 1941 le
strutture dei campi di sterminio furono ulteriormente ampliate: le camere a gas di
Belzec e Sobibor furono raddoppiate, a Treblinka ne vennero aggiunte altre 10.
Auschwitz che, a differenza degli altri, era rimasto un campo di concentramento e
lavoro, venne probabilmente incluso nel progetto sia per la collocazione strategica sulle
linee ferroviarie Berlino-Vienna-Varsavia sia per le dimensioni inusitate
dell'insediamento, che lo rendevano particolarmente adatto ad accogliere deportazioni
114 Testimonianza di J. Oberhauser, 14 dicembre 1962, documento originale presso l'Ufficio centrale delle amministrazioni giudiziarie di stato per l'accertamento dei crimini nazisti di Ludwigsburg, 208 AR-Z 252/59, v. 9, p. 1681 sgg., in E. Klee - W. Dressen - V. Riess (a cura di), "Bei tempi". Lo sterminio degli ebrei raccontato da chi l'ha eseguito e da chi stava a guardare, Firenze, Giuntina, 1990, pp. 178-9.
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da ogni parte d'Europa. Diversamente dagli altri centri di sterminio, che furono smantellati in tempo per cancellare ogni traccia — Belzec nel marzo 1943, Treblinka in agosto, Sobibor in ottobre — Auschwitz venne evacuato soltanto nell'imminenza della conquista da parte dell'esercito sovietico, nel gennaio 1945. Ciò ha permesso una maggiore conservazione non solo di fonti volontarie, quali sono le testimonianze di vittime e carnefici, ma anche di fonti involontarie provenienti dalla routine amministrativa del lager.
A metà del luglio 1942, in concomitanza di una nuova visita di Himmler, la direzione del campo di concentramento di Auschwitz II a Birkenau fece richiesta a Berlino dei fondi necessari per la costruzione di 4 baracche «per il trattamento speciale [Sonderbehandlung] dei detenuti»115. La richiesta si accompagnò al trasporto nel campo di ingenti quantitativi del gas Zyclon B adoperato per la disinfestazione e al completamento di un apparato per lo smaltimento dei cadaveri fuori del comune, con una capacità totale preventivata di circa 800 cadaveri al giorno, assicurata da diversi forni crematori. Il 4 luglio 1942 il primo convoglio di ebrei slovacchi venne “selezionato” sulla rampa della stazione ferroviaria del lager tra abili (uomini e donne senza figli) e inabili al lavoro (bambini e anziani)116.
L’approssimarsi dell’inverno e l’abbassamento della temperatura esterna resero più complicata l'areazione dei locali alla fine di ogni Sonderbehandlung e consigliarono lo spostamento delle attività col gas nei locali direttamente antistanti ai forni crematori, dotati di impianti per il tiraggio forzato dell'aria. Nel gennaio 1943 fu definito il piano complessivo dell'impianto di sterminio, composto di uno spogliatoio riscaldato, due camere a gas mascherate da sale da bagno con una capienza di 500 persone ciascuna, un obitorio di passaggio e la sala del forno crematorio117. Nel febbraio successivo, la direzione del lager chiese alla ditta fornitrice dei forni crematori, la Topf & Söhne di Erfurt, l’invio di 10 rivelatori di gas per verificare l'avvenuta areazione dei locali. Nella sua lettera di risposta, solo recentemente reperita negli archivi di Mosca, l'ingegner Prüfer esplicitò la funzione degli apparecchi richiesti come Anzeigegeräte für
115
Il rapporto per preventivo del campo di concentramento Auschwitz, 15 luglio 1942, documento originale in Archivi centrali di Mosca, 502-1-220, in J.C. Pressac, Le macchine dello sterminio, cit., p.55
116
D. Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 1989, pp. 241-3. 117 Il piano di utilizzo del crematorio IV, 11 gennaio 1943, documento originale nell'Archivio del museo di Oswiecim, BW 30b-30c/23, in J.C. Pressac, Le macchine dello sterminio, cit., p.78. 84
Blausäure-Reste, «segnalatori di residui di acido prussico cianidrico»118. Secondo Pressac, lo scopritore del documento, si tratta della prova definitiva dell'esistenza delle camere a gas, non essendo altrimenti giustificabile la presenza di acido cianidrico all'interno di un impianto di cremazione.
Il «setaccio» che — come aveva detto Heydrich alla conferenza di Wannsee — doveva passare su tutta l'Europa da ovest verso est, trovò nel campo di Auschwitz il proprio punto di arrivo più importante. Nel lager diretto da Höss affluirono convogli soprattutto dalla Polonia, dalla Germania, dall'Olanda, dal Belgio, dalla Francia, dalla Grecia, dall'Ungheria e dalla Slovacchia. A partire dall'estate 1942 le deportazioni colpirono principalmente ebrei di recente immigrazione, provenienti dall'Europa orientale, ma in seguito si estesero anche alle comunità ebraiche formate da cittadini di quegli stessi paesi. Secondo le stime di Hilberg, gli ebrei vittime del Terzo Reich nel solo 1942 — circa 2.7 milioni — furono superiori alla somma di tutti gli altri anni compresi tra l'avvento al potere di Hitler e la fine della guerra. Tra il 1933 e il 1940 gli ebrei uccisi dal nazismo (soprattutto in Polonia) furono meno di 100 mila; 1.100 mila morirono nel 1941 ad opera delle Einsatzgruppen e della mortalità nei ghetti; nel 1943
— una volta svuotato il serbatoio polacco — il numero dei morti scese a 500 mila, risalì a 600 mila nel 1944 a causa delle deportazioni dall'Ungheria, per finire con le 100 mila vittime delle “marce della morte” che nei primi mesi del 1945 evacuarono verso ovest i detenuti dei lager nazisti. Una stima approssimativa valuta tra i 2 e i 3 milioni il numero totale di prigionieri non ebrei internati nei lager nazisti e tra 500 e 750 mila i loro decessi in cattività119. Nel maggio 1943 il generale delle SS e capo della polizia nel distretto di Varsavia, Jürgen Stroop, riferì ad Himmler che tra il luglio e l'ottobre 1942 più di 310 mila ebrei (sui 400 mila originariamente rinchiusi nel ghetto della città) erano stati sottoposti a evacuazione. In ogni caso, dopo i primi accenni di resistenza armata, Himmler ordinò nel febbraio 1943 la «dismissione» del ghetto per motivi di sicurezza. Stroop, che portò a termine la missione con un serie di spedizioni tra l'aprile e il maggio del 1943, riferì che ne erano rimasti coinvolti 56.065 ebrei, tra quelli catturati e quelli di cui si poteva
118 La lettera di K.Prüfer alla direzione di Auschwitz II, 2 marzo 1943, documento originale in Archivi centrali di Mosca, 502-1-313, in J.C. Pressac, Le macchine dello sterminio, cit., p. 82.
O. Wormser Migot, Le système concentrationnaire nazi (1933-1945), Parigi, Puf, 1968, p.559; R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, cit., p. 1309 sgg. 85
«provare lo sterminio» (nachweislich vernichteten)120. La liquidazione dei ghetti - quello di Lodz seguì definitivamente il destino di Varsavia nell'agosto 1944 - procedeva in parallelo al funzionamento dei campi di sterminio e segnò un’altra tappa fondamentale del disegno nazista di pulizia del problema ebraico.
120 Cfr. il rapporto di J. Stroop a H. Himmler, 16 maggio 1943, documento PS 1061 Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, v. 26, p. 693.
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ibliografia
I riferimenti bibliografici, che abbiamo preferito proporre in forma prevalentemente discorsiva, non pretendono di esaurire la materia ma solo di indicare, tra i tanti possibili, un percorso di lettura limitato ai volumi disponibili in italiano. Si tratta di riferimenti dedicati alle sintesi storiche complessive, che abbracciano cioè l'insieme degli eventi collegati allo sterminio. Segue un breve elenco di testi apparsi negli ultimi anni.
La Shoah
La bibliografia internazionale sullo sterminio degli ebrei ad opera del Terzo Reich comprende diverse migliaia di volumi e si arricchisce ogni anno di decine di studi. All'estero esistono corsi universitari e periodici ("Holocaust and Genocide Studies", "Yad Vashem Studies") specificamente dedicati all'argomento. Una bibliografia parziale e ormai arretrata è quella di M.R. Marrus121.
Tra le prime opere pubblicate in Italia sull'argomento è L. Poliakov122 che fornisce una ricostruzione accurata degli avvenimenti compresi tra l'avvento al potere di Hitler e la fine della guerra mondiale, dando largo spazio ai documenti del processo di Norimberga. Ormai introvabile è invece l'altro libro che contribuì alla diffusione su scala mondiale della documentazione di Norimberga123, ne è però uscita da poco la sintesi che all'epoca dell'edizione originale (Londra 1953) ne fece L. Meneghello124. Dedicato al tema più generale dei crimini nazisti è un altro best seller internazionale degli anni cinquanta, opera di un avvocato inglese, consulente dell'accusa ai processi contro il Terzo Reich125. Una raccolta commentata di documenti sulla vita nei ghetti ebraici istituiti dal regime nazista nelle zone occupate dell'est europeo e sulla loro successiva liquidazione per mano tedesca è curata da A. Nirenstajn126, reperibile in
121 M.R. Marrus (a cura di), The Nazi Holocaust. Historical Articles on the Destruction of the European Jews, 9 vv., Westport, Meckler, 1989. 122 L. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Torino, Einaudi, 1954 (ripubblicato in edizione economica). 123 G. Reitlinger, La Soluzione Finale. Il tentativo di sterminio degli Ebrei d'Europa 1939-1945, Milano, Il Saggiatore, 1962. 124 L. Meneghello, Promemoria. Lo sterminio degli ebrei d'Europa 1939-1945, Bologna, Il Mulino,1994. 125 Lord Russell, Il flagello della svastica, Milano, Feltrinelli, 1955. 126 A. Nirenstajn, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek, Torino, Einaudi, 1958.
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ristampa. Sempre della stessa autrice è opportuno segnalare una sintesi complessiva127, espressamente dedicata a un pubblico giovanile.
Tra le opere generali apparse nell’ultimo decennio la più organica è probabilmente quella di L. Picciotto Fargion128 che si diffonde sulle radici storiche dell'antisemitismo nazista (fornisce un quadro storico delle comunità ebraiche nell'Europa precedente al nazismo) e presta una attenzione particolare alle persecuzioni antiebraiche del regime fascista e alle deportazioni dall'Italia. Una sintesi eccellente del dibattito degli storici sui punti più controversi dell'intera vicenda (unicità e comparabilità dello sterminio nazista, il collaborazionismo dei governi europei, il consenso e la passività dell'opinione pubblica, la resistenza dei ghetti ebraici, i silenzi del Papa e i ritardi degli Alleati) è quella di M.R. Marrus129. E' apparsa in traduzione presso Einaudi l'opera considerata a tutt'oggi come la più completa sull'argomento130, che raccoglie nelle opposte categorie sintetizzate dal titolo le rapide biografie di tanti uomini, donne, bambini coinvolti a vario titolo nello sterminio. Agile ma meticolosa ricerca che ricostruisce il processo di formazione della scelta di sterminio avvenuto in seno alla dirigenza nazista tra il 1933 e il 1942 è quella di P. Burrin131. Un quadro più ampio è fornito dall'opera di A.J. Mayer132, ispirata a una interpretazione particolare, che riconduce l'antisemitismo nazista all'anticomunismo e alla guerra di sterminio voluta da Hitler contro l'Unione Sovietica. Per una sintesi delle critiche suscitate da questo volume si veda E. Collotti133. Interessante è la biografia completa di R.D. Breitman134, molto attenta alla documentazione piuttosto che alla sintesi interpretativa, dell'uomo che ha più influito sull'organizzazione pratica dello sterminio. Un libretto agile che ripercorre le linee di questa unità didattica è di Giovanni Gozzini135.
127 Id., E' successo solo 50 anni fa. Lo sterminio di sei milioni di ebrei, Firenze, La Nuova Italia, 1993. 128 L. Picciotto Fargion, Per ignota destinazione. Gli ebrei sotto il nazismo, Milano, Mondadori, 1994. 129 M.R. Marrus, L'Olocausto nella storia, Bologna, Il Mulino, 1994. 130 R. Hilberg, The Destruction of the European Jews, 3 vv., New York, Holmes & Meier 1985. Maanche Id., Carnefici vittime spettatori. La persecuzione degli ebrei 1933-1945, Milano, Mondadori, 1994. 131 P. Burrin, Hitler e gli ebrei. Genesi di un genocidio, Genova, Marietti, 1994. 132 A.J. Mayer, Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea, Milano, Mondadori, 1990. 133 E.C ollotti, Arno Mayer e le origini della "soluzione finale", in "Passato e presente", n.27, settembre-dicembre 1991. 134 R.D. Breitman, Himmler. Il burocrate dello sterminio, Milano, Mondadori, 1991. 135 G. Gozzini, La strada per Auschwitz. Documenti e interpretazioni sullo sterminio nazista, Milano, Bruno Mondadori, 1996.
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Documenti e memorialistica dei campi di concentramento e di sterminio
Nessuna delle grandi raccolte documentarie sui crimini nazisti è mai stata tradotta in italiano. Dei 42 volumi che compongono gli atti del processo di Norimberga, ben 18 (i vv. 25-42) sono dedicati esclusivamente a documenti: ne esiste un'edizione in tedesco, francese e inglese136 di cui nel 1981 è stata realizzata una versione in microfiches, di più facile conservazione e accessibilità. A questa base si sono in seguito aggiunte le risultanze dei 12 processi immediatamente successivi condotti contro responsabilità specifiche (i medici del progetto eutanasia, i comandanti delle Einsatzgruppen, ecc.)137. Ulteriori documenti sono allegati agli atti dei processi intentati dall'Ufficio Centrale di Ludwigsburg per l'accertamento dei crimini nazisti138. E' invece tradotta in italiano la testimonianza del generale americano T. Taylor, pubblico ministero al processo di Norimberga139. La prima ricerca, dedicata alle tecniche di impianto dei crematori e delle camere a gas nei lager, a fare uso delle fonti conservate negli archivi sovietici è una monografia specifica di J.C. Pressac140.
Disponibili in italiano sono le opere di memorialistica più importanti. Dopo l'edizione critica olandese del 1986 è apparsa una nuova edizione del diario di A.Frank141, con una appendice di F. Sessi che ne spiega le novità sostanziali rispetto alle edizioni precedenti. E' giunto alla terza edizione il diario della propria deportazione ad Auschwitz scritto da P. Levi142, cui sono stati aggiunti La tregua, dedicato al rientro in patria, e un'appendice scritta da Levi nel 1976 per rispondere alle domande che più frequentemente gli venivano rivolte a proposito del libro. Altre testimonianze molto note sono quelle di J. Amery e E. Wiesel143. Sull'esempio di Primo Levi è cresciuta anche nel nostro paese, non senza difficoltà, una letteratura memorialistica dell'esperienza vissuta nei lager nazisti: una bibliografia completa di questi lavori,
136 Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, 42 vv., Norimberga 1947-1949. 137 Nuremberg Military Tribunals, Trials of War Criminals, 15 vv., Washington 1947-1949. 138 Raccolti in A.L. Rüter Ehlermann - C.F. Rüter (a cura di), Justiz und NS-Verbrechen: Sammlungdeutscher Starfurteile wegen nationalsozialistischer Totüngsverbrechen, 22 vv., Amsterdam, UniversityPress, 1968-1981. 139 T. Taylor, Anatomia dei processi di Norimberga, Milano, Rizzoli, 1993. 140 J.C. Pressac, Le macchine dello sterminio. cit. 141 A. Frank, Diario, cit. 142 P. Levi, Se questo è un uomo, cit. 143 J. Amery, Intellettuale ad Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1987 e E. Wiesel, La notte, Firenze,La Giuntina, 1988.
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corredata da una ampia introduzione metodologica, è quella di A. Bravo - D. Jalla144. Accanto alla memorialistica sui lager ci sono anche le memorie conservate nei ghetti dell'est all'epoca dell'occupazione nazista: tra di esse una delle più note è quella di E. Ringelblum 145 a cui si sono aggiunti i testi di M. Berg e di J. Bauman146. A metà strada tra il ricordo autobiografico e la riflessione storica condotta a distanza di tempo dagli avvenimenti si collocano i libri di altri ex deportati147. I problemi del rapporto tra memoria e storia, della "zona grigia" occupata dai collaborazionisti dentro e fuori dai lager, della logica che l'universo concentrazionario esprime nei regimi autoritari, sono stati affrontati da P. Levi148.
Significative sono anche le memorie di parte nazista149. Dal processo intentato contro Eichmann nel 1961 H. Arendt150 prende spunto per svolgere considerazioni generali sull'obbedienza e la responsabilità individuale nelle società totalitarie. E. Klee - W. Dressen - V. Riess151 attraverso testimonianze di subalterni delle forze armate naziste, tentano di chiarire come fosse possibile trasformare individui "normali" in assassini di professione.
T. Todorov152 è uno studioso che, sulla base delle memorie di deportati nei lager nazisti e nei gulag sovietici, elabora la tesi di una "crescita del male" nella civiltà industriale moderna e, al tempo stesso, di un fallimento sostanziale del progetto totalitario: nemmeno nel luogo del loro massimo potere le dittature sono riuscite a cancellare del tutto le differenze tra gli individui né ad annullare nei migliori di loro la sopravvivenza di un senso morale. Opposta è invece l'interpretazione di un sociologo come W. Sofsky, L'ordine del terrore. Il campo di concentramento, Roma-Bari, Laterza 144 A. Bravo -D. Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazionedall'Italia 1944-1993, cit.; gli stessi autori avevano in precedenza raccolto e organizzato una parte diquesto materiale documentario in A. Bravo - D. Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, Angeli, 1986. 145 E. Ringelblum, Sepolti a Varsavia. Appunti dal Ghetto, Milano, Il Saggiatore, 1962. 146 M. Berg, Il ghetto di Varsavia. Diario (1939-1944), Torino, Einaudi, 1991 e J. Bauman, Inverno nelmattino. Una ragazza nel ghetto di Varsavia, Bologna, Il Mulino, 1994. 147 H. Langbein, Uomini ad Auschwitz, Milano, Mursia, 1984, e B. Bettelheim, Il cuore vigile. Autonomiaindividuale e società di massa, Milano, Adelphi, 1988. 148 P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., che riprende nel titolo un capitolo di Se questo è un uomo.149 Sono stati ristampati Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss, Torino, Einaudi, 1960, e G. Sereny, In quelle tenebre, cit., che contiene una lunga intervista al capo del lager diTreblinka, Stangl. 150 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, cit. 151 E. Klee - W. Dressen - V. Riess (a cura di), "Bei tempi". Lo sterminio degli ebrei raccontato da chil'ha eseguito e da chi stava a guardare, Firenze, Giuntina, 1990; C.R. Browning, Uomini comuni. Poliziatedesca e "soluzione finale" in Polonia, Torino, Einaudi, 1995. 152 T. Todorov, Di fronte all'estremo, cit.
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1995, che analizza il lager come esperimento di una società fondata sul potere assoluto in grado di decretare liberamente la vita e la morte delle persone, disgregandone ogni capacità di resistenza e autonomia.
Nazismo e totalitarismo
E' impresa ardua delineare un percorso di lettura tra le decine di titoli accessibili al lettore italiano che compongono la letteratura storiografica sul nazismo. Condotti in "tempo reale" sono gli studi di esuli tedeschi come E. Fraenkel, Il doppio stato. Contributo alla teoria della dittatura, Torino, Einaudi, 1983 (ed.or. New York 1941), specificamente dedicato alle trasformazioni costituzionali formali e sostanziali attuate dal regime; F. Neumann, Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Milano, Feltrinelli, 1977 (ed.or. New York 1942), la prima sintesi di carattere complessivo che interpreta il nazismo come "policrazia" concertata tra i diversi poteri del partito, dell'esercito, della burocrazia di stato e dei maggiori cartelli industriali; E. Fromm, Fuga dalla libertà, Milano, Comunità, 1963 [ed.or. New York 1941], che su un piano diverso, di psicologia sociale, vede il fascismo come il tentativo di tornare alle vecchie appartenenze di clan e di ceto della società preindustriale contro l'ansia prodotta dall'individualismo e dalla competizione della moderna società di massa.
Negli anni della guerra fredda si è fatta strada la categoria del totalitarismo, il cui principale testo di riferimento è H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, Comunità, 1967. Essa tende ad assimilare nazismo e stalinismo sulla base di analogie nei metodi di governo fondati sul terrore, il cui punto estremo - ma nello stesso tempo strutturale - è raggiunto con la creazione del lager e dei gulag. Preminenza del potere politico su tutti gli altri e immagine monolitica di una società forgiata dallo stato sono i punti salienti di questa interpretazione, alla quale si può ricondurre, almeno per alcuni aspetti, K.D. Bracher, La dittatura tedesca. Origini, strutture, conseguenze del nazionalsocialismo, Bologna, Il Mulino, 1973. K. Hildebrand, Il Terzo Reich, Roma-Bari, Laterza, 1983 (corredato di una ampia e articolata bibliografia) collega la visione totalitaria del nazismo con una interpretazione intenzionalista dello sterminio, che indica la guerra e i lager come effetti di un programma ideato e coerentemente portato a compimento dagli alti dirigenti del regime. Andava in questo senso anche la prima sintesi giornalistica di successo pubblicata in Italia sull'argomento, che ebbe il merito di far conoscere molti documenti del processo di Norimberga: W.L. Shirer, Storia del
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Terzo Reich, Torino, Einaudi, 1962, nonché le opere biografiche di J.C. Fest, Hitler, Milano, Rizzoli, 1974, e E. Jäckel, La concezione del mondo di Hitler. Progetto di un dominio assoluto, Milano, Longanesi, 1972. Esaspera la visione tradizionale del totalitarismo, dal punto di vista particolare di una "guerra civile europea" combattuta dal nazismo in difesa della civiltà europea minacciata dal bolscevismo asiatico, E. Nolte, Nazionalsocialismo e bolscevismo. La guerra civile europea 1917-1945, Firenze, Sansoni, 1988.
La critica maggiore mossa a questa corrente di studi è quella di aver trascurato il rapporto tra politica ed economia. Ad un maggiore equilibrio in tal senso si attiene E. Collotti, La Germania nazista. Dalla repubblica di Weimar al crollo del Reich hitleriano, Torino, Einaudi, 1962, più volte ristampato; mentre una interpretazione più tradizionalmente marxista è quella di R. Kühnl, Due forme di dominio borghese: liberalismo e fascismo, Milano, Feltrinelli, 1973. La sottolineatura del nesso tra politica ed economia riapre il problema del rapporto tra la storia tedesca e l'avvento del nazismo. Tradotto in italiano è il testo di F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Torino, Einaudi, 1965, che dette il via all'acceso dibattito sull'esistenza o meno di una costante aggressiva e militarista nella storia della Germania. Un contraltare in senso riabilitante alla tesi di Fischer - ripresa tra gli altri anche da H.U. Wehler, L'impero guglielmino 1871-1918, Bari, De Donato, 1981 - può essere considerato G. Ritter, I militari e la politica nella Germania moderna, 3 vv., Torino, Einaudi, 1967-1973. Echi di questa controversia si ritrovano nella discussione sull'eredità del nazismo nella costruzione della Germania moderna, i cui interventi sono in parte tradotti da G.E. Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e l'identità tedesca, Torino, Einaudi, 1987. Un precedente importante per la comprensione di questo dibattito è la ricerca di due psicologi sull'incapacità dei tedeschi di "elaborare" la memoria delle loro responsabilità: A..M. Mitscherlich, Germania senza lutto, Firenze, Sansoni, 1967.
Un punto di vista particolare, centrato sul rapporto tra la tradizione tedesca e le tecniche di comunicazione e le simbologie tipiche di una politica di massa sviluppate dal nazismo, è quello degli studi di G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Milano, Il Saggiatore, 1968 e La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1812-1931), Bologna, Il Mulino, 1975. Sempre sul terreno della storia delle idee e delle culture rimane l'analisi comparata del nazismo con
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i movimenti fascisti italiani e francesi svolta da E. Nolte, I tre volti del fascismo, Milano, Mondadori, 1971. A cavallo tra la storia sociale e la storia politica si colloca il problema del consenso di massa alla dittatura, che si è arricchito di nuovi elementi con studi locali come quelli di W.S. Allen, Come si diventa nazisti. Storia di una piccola città 1930-1935, Torino, Einaudi, 1968 e G.J. Horwitz, All'ombra della morte. La vita quotidiana attorno al campo di Mauthausen, Venezia, Marsilio, 1994. Aperto rimane il dibattito sulla centralità dello sterminio nella politica nazista: assume le politiche razziali come fulcro esplicativo della dittatura nel suo insieme M. Burleigh-W. Wippermann, Lo Stato razziale. Germania 1933-1945, Milano, Rizzoli, 1992. Ma esistono riflessioni di taglio più filosofico che pongono lo sterminio nazista al centro della condizione dell'uomo contemporaneo: come manifestazione estrema di una razionalità burocratica che separa mezzi da fini, logica aziendale da morale individuale per Z. Bauman, Modernità e Olocausto, Bologna, Il Mulino, 1992. Come spartiacque epocale che rende necessario un ripensamento del rapporto tra coscienza e divinità, tra storia e giustizia per H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Genova, il melangolo, 1989.
Antisemitismo e pregiudizio
Sulle radici storiche dell'antisemitismo lo studio probabilmente più completo e più ampio nello spazio e nel tempo è quello di L. Poliakov, Storia dell'antisemitismo, 4 vv., Firenze, La Nuova Italia, 1974-1990, che abbraccia il fenomeno dalle sue origini. Il tema particolare dei rapporti tra cristiani ed ebrei, che costituisce il retroterra storico del fenomeno dell'antisemitismo in Europa è invece ricostruito da C. Mannucci, L'odio antico. L'antisemitismo cristiano e le sue radici, Milano, Mondadori, 1993. Una analisi delle caratteristiche sociali e culturali degli insediamenti e delle comunità ebraiche in Europa durante l'età moderna è quella di A. Foa, Ebrei in Europa. Dalla peste nera all'emancipazione, Roma-Bari, Laterza, 1992. Si limita al contesto europeo e agli ultimi tre secoli G.L. Mosse, Il razzismo in Europa dalle origini all'Olocausto, Roma-Bari, Laterza, 1980, che colloca l'antisemitismo nazista nel quadro dei suoi antecedenti e paralleli presenti soprattutto nella cultura tedesca e francese a cavallo tra Otto e Novecento. Più specificamente dedicato al fenomeno hitleriano è invece P. Sorlin, L'antisemitismo nazista, Milano, Mursia, 1970. Un'opera scritta da uno dei maggiori studiosi del mondo islamico, è quella di B. Lewis, Semiti e antisemiti. Indagine su un
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conflitto e un pregiudizio, Bologna, Il Mulino, 1990, che affronta in particolare il problema dei nessi tra antisemitismo e antisionismo nel secolo XX.
Un aspetto particolare della diffusione e della persistenza del pregiudizio antisemita è quello rappresentato dalla storia dei falsi "Protocolli dei Savi di Sion". Ne ricostruiscono gli aspetti salienti N. Cohn, Licenza per un genocidio. I "Protocolli degli Anziani di Sion". Storia di un falso, Torino, Einaudi, 1969 e S. Romano, I falsi protocolli. Il complotto ebraico dalla Russia di Nicola II ad oggi, Milano, Corbaccio, 1992.
Il posto che l'antisemitismo occupa nella coscienza dell'uomo contemporaneo, in ordine alle manifestazioni sempre risorgenti di razzismo e pregiudizio, è stato indagato da diversi punti di vista. Un'opera in qualche modo "classica" nell'ambito degli studi di psicologia collettiva e di sociologia è T.W. Adorno - E. Frenkel Brunswik - D.J. Levinson - R.N. Sanford, La personalità autoritaria, 2 vv., Milano, Comunità, 1973, che riassume i risultati di un'inchiesta condotta alla fine degli anni quaranta in California e colloca l'antisemitismo tra gli indicatori di una tipologia di comportamento autoritario, insieme al conformismo e alla xenofobia. Al di là della sua rispondenza con la realtà il meccanismo che divide il mondo tra "noi" e "loro" soddisfa la necessità elementare di rassicurare identità personali fragili attraverso il rafforzamento dei legami di gruppo e l'individuazione di un nemico. Questo punto di vista è stato sviluppato da
P.A. Taguieff, La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e l'antirazzismo, Bologna, Il Mulino, 1994, che vede nella costruzione sociale del concetto di razza la manifestazione dell'istinto primordiale di conservazione della specie e di paura della contaminazione con il diverso. La risposta antirazzista non può quindi contentarsi di rimanere ancorata all'astratto postulato illuministico dell'uguaglianza e unità del genere umano, ma deve combattere la difficile battaglia quotidiana per l'educazione al rispetto e al gusto delle differenze, viste non più come minaccia bensì come ricchezza e produzione di significato. Alla vicenda degli ebrei in Italia sono state dedicate diverse ricerche. Ristampata in edizione tascabile è R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1993, che interpreta la legislazione antisemita del regime fascista come una scelta autonoma di Mussolini volta a rafforzare l'alleanza con la Germania. Ma proprio quella scelta determinò una crisi di consenso decisiva per la dittatura, data la sostanziale inesistenza di una tradizione di intolleranza antiebraica nel senso comune e nella cultura
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italiana. Accentua invece i collegamenti con i tratti razzisti della guerra d'Etiopia M. Meir, Mussolini e la questione ebraica. Le relazioni italo-tedesche e la politica razziale, Milano, Comunità, 1982, che dipinge l'antisemitismo fascista come un tentativo di elaborazione originale ancorato alla civiltà mediterranea anziché al mito ariano e meno violento nelle soluzioni pratiche rispetto al modello nazista. Centrato sul coinvolgimento della repubblica di Salò nella macchina dello sterminio è S. Zuccotti, L'Olocausto in Italia, Milano, Mondadori, 1988, che pure attribuisce all'Italia cattolica (insieme alla Danimarca protestante) il merito di aver salvato la percentuale più alta di ebrei. La gestazione concreta delle leggi razziali fasciste del 1938 è ricostruita nella monografia specifica, corredata da documenti, di M. Sarfatti, Mussolini e gli ebrei. Cronaca dell'elaborazione delle leggi del 1938, Torino, Zamorani, 1994. Le schede biografiche dei quasi novemila ebrei deportati dall'Italia e dalle isole del Dodecaneso nei lager nazisti (dei quali solo un migliaio sopravvisse fino alla liberazione), in larga misura arrestati dalle autorità italiane di Salò, si trovano in L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall'Italia 1943-1945, Milano, Mursia, 1991.
Breve elenco delle pubblicazioni recenti non citate
• AA.VV., Lager, totalitarismo, modernità. Identità e storia dell’universo concentrazionario, Milano, Bruno Mondadori, 2002. • Bidussa, D., La mentalità totalitaria. Storia e antropologia, Milano, Feltrinelli, 2001. • Chiapponi, D., La lingua nei lager nazisti, Roma, Carocci, 2004. • Collotti, E., Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2003. • Corni, G., G. Hirschfeld, (a cura di), L'umanità offesa: stermini e memoria nell'Europa del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2003. • Di Palma, S.V., Bambini e adolescenti nella Shoah. Storia e memoria della persecuzione in Italia, Torino, Unicopli, 2004. • Dogliani, P., Fra guerre e pace. Memorie e rappresentazioni dei conflitti e dell’Olocausto nell’Occidente contemporaneo, 2001. • Ferrone, V., La Chiesa cattolica e il totalitarismo, Firenze, Olschki, 2004. • Gentile, E., Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Roma-Bari, Laterza, 2001. • Menozzi, D., Moro, R. (a cura di), Cattolicesimo e totalitarismo. Chiese e culture religiose tra le due guerre mondiali (Italia, Spagna, Francia), Brescia, Morcelliana, 2004. 96
• Neglie, P., Un secolo di anti-Europa: classe, nazione e razza: la sfida dei totalitarismi, Soveria Mannelli, Rubbettino 2003. • Sale, G., Hitler, la Santa Sede e gli Ebrei. Con documenti dell'Archivio segreto vaticano, Milano, Jaca Book, 2004. • Springer, E., L'eco del silenzio. La Shoah raccontata ai giovani, Venezia, Marsilio, 2003 • Strada, V. (a cura di), Totalitarismo e totalitarismi, Venezia, Marsilio, 2003. • Traverso, E., Il totalitarismo. Storia di un dibattito, Milano, Bruno Mondadori, 2002. • Traverso, E., Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2004. 97
Indice*
Obiettivi di apprendimento 1
1. Posizione del problema: Auschwitz e la coscienza civile contemporanea 2
2. Il Totalitarismo 13
3. I documenti e la memorialistica 27
4. Il tempo della pace 40
5. L’universo concentrazionario 51
6. Il tempo della guerra 64
7. Le strutture per la morte di massa 79 Bibliografia 88
* I contenuti dei materiali didattici sono stati aggiornati al 2005 dal gruppo redazionale del BAICR-Formazione, in particolare dal prof. Giancarlo Monina e dal dott. Mauro Di Giacomo.
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