quarta di copertina da "I Simpson e la filosofia"

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venerdì 10 agosto 2007

LA PRIMA GUERRA MONDIALE esposizione

La Prima Guerra Mondiale


1. Una guerra molto diversa dalle attese

Sarajevo, 28 Giugno 1914
Sarajevo è una importante città della Bosnia, una regione che nel 1914 era controllata dall’Impero austriaco ed era percorsa da fremiti nazionalisti legati alla volontà di sfuggire al dominio imperiale. I Balcani erano da anni, ed anzi da decenni, in grande fermento perché erano divisi sotto ogni profilo e subivano la pressione politica di due “grandi”, da un lato l’Austria, dall’altro la Russia. Erano abitati da diverse popolazioni, che professavano almeno tre religioni (c’erano cattolici, ortodossi, musulmani) e avevano una lunga storia alle spalle di divisioni e inimicizie. La crisi dell’Impero Ottomano, mai risolta, e le difficoltà che le grandi potenze incontravano nel conciliare i loro interessi, avevano fatto sì che si fosse creata una situazione di stallo.
Nel corso di una visita nella regione, l’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria, venne assassinato in un attentato nel quale perse la vita anche la moglie. A sparare era stato un giovane serbo-bosniaco, Gavrilo Princip, studente e membro di una società segreta nazionalista serba, che agì con l’aiuto di altri. La catena di eventi che nel giro di pochi giorni avrebbe portato allo scatenarsi della guerra mondiale prese così iniziò. Gli storici riconoscono in quest’atto terroristico solo una causa scatenante della guerra, ma ravvisano ragioni ben più complesse e profonde, perché in realtà già da decenni tutto sembrava concorrere a preparare una guerra che tuttavia fino a quel momento era stata evitata.
Era il 28 Giugno 1914.

Il carattere della guerra
La diplomazia aveva per lunghi anni operato nel tentativo di risolvere le controversie nel quadro della pace, favorita anche dal fatto che dopo il 1870 gli interessi delle grandi potenze si stavano concentrando al di fuori dell’Europa, nelle colonie. L’attesa della guerra era palpabile, e la preparazione militare era preoccupazione quotidiana delle cancellerie nella convinzione che essa si sarebbe comunque dovuta combattere. Non si trattava per lo più di un’attesa rassegnata o preoccupata: prevalevano i toni nazionalisti, che esaltavano l’uso delle armi, e al momento dello scoppio effettivo del conflitto si ebbero manifestazioni di entusiasmo nelle piazze europee, e moltissimi partirono volontari. Ma tutti, dai semplici cittadini agli Stati Maggiori e ai governi, avevano in mente le guerre ottocentesche, risolte in poche battaglie campali, con rapidissimi movimenti di truppe, rese possibili dalle nuove tecnologie (innanzitutto le ferrovie). Nessuno si aspettava quel che di fatto accadde: per quattro lunghi anni si combatté una guerra di posizione, cioè un tipo di guerra del tutto diversa in cui gli eroismi individuali, la capacità strategica, il valore militare, contavano molto meno della capacità degli Stati di rifornire il fronte di armi, di cibo, di moltissimi beni e servizi resi indispensabili dal continuo logoramento cui erano sottoposti gli eserciti: non una guerra composta da una sequenza di battaglie e movimenti strategici, ma una guerra di trincea, in cui si sparava e si moriva ogni giorno.
La logica interna di questa guerra colse quindi di sorpresa coloro che l’avevano consapevolmente scatenata, voluta, preparata: una logica inesorabile che avrebbe di fatto cancellato la supremazia europea nel mondo e aperto la strada ad una crisi gravissima, in una fase storica che si sarebbe conclusa soltanto col il 1945, al termine di una nuova guerra mondiale.



2. Le cause politiche

Il confronto per la supremazia europea: Francia / Germania
Per studiare lo scenario delle cause politiche che contribuirono allo scatenarsi della guerra mondiale è indispensabile guardare lontano, ad alcune tensioni di fondo risalenti alla seconda metà dell’Ottocento. Nel 1870 la Francia e la Germania si erano scontrate in modo estremamente duro e la Francia ne era uscita sconfitta e soprattutto umiliata. Un fortissimo spirito di rivincita aveva dominato per decenni la vita politica francese esacerbando il nazionalismo tipico della fine dell’Ottocento europeo e dandogli una marcata colorazione antitedesca. Nel 1871 l’Alsazia e la Lorena erano passare alla Germania e una delle ragioni della volontà francese di guerra era la ferma determinazione a rientrarne in possesso.
Finché era rimasto al potere, lo sforzo di Bismark con la sua politica delle alleanze era stato quello di isolare la Francia impedendo che essa potesse trovare alleati in Europa in funzione antitedesca, e potesse così essere tentata di riprendere le ostilità. Questa politica era stata abbandonata a partire dal 1890, quando il kaiser Guglielmo II aveva direttamente preso nelle proprie mani le redini della politica estera del paese, e questo aveva consentito alla Francia di tessere una trama di alleanze: al momento dello scoppio della guerra nel 1914 essa era alleata con la Russia e con l’Inghilterra, ed erano in netto miglioramento i rapporti con l’Italia.

Il confronto per la supremazia nel mondo: Inghilterra / Germania
La ragione per cui Guglielmo II aveva abbandonato le linee maestre della diplomazia bismarkiana era di carattere globale: la Germania, che stava divenendo sempre più nazionalista, doveva essere messa nelle condizioni di condurre quella che si chiamò Weltpolitik, una politica mondiale. Questo implicava due cose: la presenza tedesca nelle aree coloniali ormai saldamente nelle mani degli altri paesi europei (la Germ,ania era soprattutto interessata all’Africa) e lo sviluppo di una flotta militare e mercantile in grado di realizzare queste ambizioni.
Entrambe queste scelte portavano la Germania in rotta di collisione con l’Inghilterra. Il primo decennio del secolo aveva visto una vera e propria escalation militare sui mari, con una gara verso le costruzioni navali, in particolari nel settore delle grandi corazzate: uno sforzo economico enorme sia per la Germania che per l’Inghilterra non più giustificato da esigenze di controllo coloniale (il divario tecnologico tra i paesi europei e i territori coloniali era enorme) ma soltanto dalla prospettiva di un confronto globale tra Inghilterra e Germania.
Di fatto, nonostante gli sforzi tedeschi e i risultati raggiunti, la prima guerra mondiale non vedrà un confronto globale di questo tipo perché la superiorità inglese rimase molto netta sui mari: non si trattava soltanto di navi e di tecnologie, ma anche di esperienza sui mari e di professionalità, un settore in cui la marina tedesca era troppo giovane per poter competere con l’Inghilterra la cui marina militare da secoli era presente in tutti gli oceani. Non si avranno quindi grandi e decisive battaglie navali.
La Weltpolitik di Guglielmo II preoccupava poi la Russia, perché implicava una volontà di egemonia tedesca verso l’Europa centrale e orientale, aree in cui (così anche il Baltico) la Russia era presente dal Settecento e su cui mirava a consolidare la propria supremazia.

L’ Austria, la Russia e le tensioni balcaniche:
L’area in cui la guerra di fatto scoppiò – i Balcani – era da un secolo ragione di conflitto tra la Russia e le potenze occidentali. I Russi, infatti, disponevano dai tempi di Pietro il Grande di importanti basi navali sul Mar Nero, di cui ormai controllavano tutta la costa nord, ma non avevano accesso diretto al Mediterraneo. Puntavano da secoli al controllo dei Balcani e avevano combattuto molte guerre nell’Ottocento, in particolare contro l’Impero Ottomano, per realizzare questo obiettivo. Si erano però sempre trovati contro i paesi occidentali (l’Inghilterra e la Francia, che competevano per il controllo del Mediterraneo) che per ragioni diverse erano però del tutto concordi nella volontà di chiuderlo alle navi da guerra russe.
Tra il 1866 e il 1867 l’Impero Austriaco aveva subito due radicali cambiamenti: era stato sconfitto dalla Prussia (nella guerra austro-prussiana del 1866) e per conseguenza la sua influenza sui paesi tedeschi era stata nettamente ridimensionata, e si era dato una struttura istituzionale nuova divenendo Impero Austro-Ungarico. Aveva inoltre perso quasi del tutto il controllo dei territori italiani, a seguito dei processi risorgimentali. L’insieme di questi eventi, subiti contro la propria volontà a seguito di sconfitte militari e irreversibili date le condizioni dell’epoca, avevano portato l’Impero a volgersi ad Oriente, puntando quindi all’espansione nei Balcani, essendole ormai preclusi i tradizionali territori d’influenza in Germania e in Italia. L’Austria era quindi entrata in rotta di collisione con la Russia e la storia degli ultimi decenni aveva visto una dura contrapposizione tra i due paesi, che miravano all’espansione negli stessi territori.

Un addensarsi di linee di tensione e di frattura
A fianco delle ragioni di ostilità tra le grandi potenze vi erano poi una lunga serie di tensioni secondarie, ciascuna delle quali non era di importanza tale da determinare conflitti di ampio respiro; nel loro complesso, però, si stava profilando un addensamento di linee di tensione su determinate aree che finirono per rendere la guerra molto più vasta, con il coinvolgimento di molti altri paesi (oltre trenta, fra i due schieramenti).
La questione balcanica non riguardava soltanto il conflitto potenziale tra Austria e Russia, ma anche molti conflitti locali. La regione era abitata da popolazioni di religioni diverse (c’erano Ortodossi, Cattolici, Musulmani) appartenenti a molte etnie (slavi di diverse tradizioni e identità culturali, turchi) e ciascun gruppo era molto geloso della propria identità. Le tensioni, spesso su territori ristrettissimi a causa del sovrapporsi delle popolazioni, erano già sfociate in scontri di importanza crescente, e a ridosso dello scoppio della guerra mondiale abbiamo già visto l’esplodere di due crisi balcaniche.
Per quanto riguarda il Medio Oriente, in parte ancora sotto il controllo Ottomano ma ormai terra di conquista delle potenze occidentali, le tensioni locali riguardavano i rapporti tra gli Arabi (che era da secoli una popolazione dominata) e i Turchi (che da secoli li dominavano, ma erano in seria decadenza politica e militare). E così l’intero mondo turco era scosso dalle conseguenze di gravi crisi interne, ivi comprese le tensioni etniche che avevano già determinato gravissime scelte (ad esempio, la questione degli Armeni: vedi cartina 9).
L’elenco potrebbe continuare a lungo: non v’era regione tra il Caucaso, il Mar Rosso e il Mediterraneo che non fosse attraversata da linee di tensione pronte a determinare fratture gravissime. La guerra mondiale offrì uno scenario globale per l’esplosione di tante guerre locali.

3. Le cause economiche, sociali e culturali

Il capitalismo monopolistico
A fianco delle cause politiche per l’esplodere della guerra mondiale gli storici indicano ragioni economiche, ed anzi alcuni sono portati a pensare che alla radice vi siano stati proprio interessi di questo tipo. Questa convinzione era fortemente diffusa (lo vedremo più avanti) anche negli anni della guerra in molti ambienti, soprattutto di sinistra.
La tesi è questa. Lo sviluppo del capitalismo nel contesto della seconda rivoluzione industriale aveva portato ad enormi concentrazioni aziendali (i trust e i cartelli) e aveva consentito al sistema capitalistico di esercitare pressioni fortissime sui governi perché realizzassero forme di politica economica favorevoli agli interessi della grande industria. Si era creato un complesso finanziario e industriale (derivante dal legame tra l’industria, le borse e le banche) in grado di condizionare le scelte politiche dei governi al fine di salvaguardare all’estero i propri interessi. Questo aveva portato a inevitabili conflitti tra le potenze europee: per le colonie, per il livello dei dazi (guerre doganali), per il controllo dei mercati delle materie prime, distribuite nel pianeta in maniera fortemente diseguale; e così via. Il capitalismo stava diventando monopolistico, o almeno c’erano forti tendenze in questa direzione. La guerra mondiale è stata quindi vista come l’esito militare di un conflitto economico, che aveva portato i sistemi economici dell’occidente europeo in gravissimo contrasto con quelli tedeschi.
Il tutto, naturalmente, propiziato dai fortissimi interessi del complesso militare-industriale, interessato alle commesse militari.

Le questioni sociali
Per ragioni opposte, vi erano poi tendenze favorevoli alla guerra da parte tanto degli industriali quanto dei movimenti operai. Le questioni sociali non contribuirono direttamente allo scoppio della guerra, ma contribuirono a creare un clima favorevole ad essa.
Il movimento operaio, attraverso le sue organizzazioni sindacali e politiche, era in rapidissima crescita nel contesto della Seconda Internazionale. Le masse operaie e contadine entravano sempre di più nel gioco politico e parlamentare a causa dell’estendersi del diritto di voto, fino al suffragio universale e le tradizionali classi dirigenti, che pure avevano accettato l’idea di ammettere al voto le classi lavoratrici, non avevano in genere una chiara idea di come gestire l’ingresso di questo nuovo soggetto politico delle cui esigenze era indispensabile tenere conto, essendo rappresentato in parlamento. Le istituzioni borghesi rappresentative erano state concepite per gruppi sociali ristretti i cui interessi erano raramente contrastanti, caratterizzati da una comune visione della realtà politica al di là delle differenze di partito. Adesso si era invece in presenza di interessi fortemente antagonisti.
In molti si temeva (da parte delle classi elevate) o si sperava (da parte delle classi lavoratrici) in rivoluzioni sociali che avrebbero finito col trasformare integralmente la vita della società e la stessa distribuzione della proprietà, e questo come risultato di processi politici che avrebbero finito col trasformare radicalmente le istituzioni parlamentari.
La guerra avrebbe potuto essere un utile modo per inquadrare la classe operaia militarizzandola per esigenze belliche, bloccandone così lo sviluppo politico autonomo. Ma avrebbe potuto essere l’occasione (e di fatto lo fu in Russia, come vedremo) per l’esplodere di forze rivoluzionarie. Così vi furono industriali favorevoli alla guerra a causa di paure sociali; e vi furono socialisti favorevoli alla guerra perché vi videro una opportunità rivoluzionaria.

Il nazionalismo come cultura della guerra
Quel che diede alla guerra il suo specifico carattere fu però certamente il nazionalismo. Si tratta di un fenomeno che aveva caratterizzato tutta la storia dell’Ottocento, a partire dal periodo napoleonico, ma nel corso del tempo era mutato profondamente di segno. Fino al 1848, e in Italia fino alla conclusione del Risorgimento con l’unificazione nazionale, aveva prodotto forti spinte alla unificazione nazionale (in Germania, in Italia, nell’ambito dell’Impero Austriaco) e posto le premesse per l’identità culturale dei popoli, ma in un contesto di “nazioni sorelle”, come aveva detto Mazzini. L’idea di patria si era diffusa moltissimo, ma prevedeva il riconoscimento delle altre patrie, e non erano mancati i patrioti che avevano combattuto all’estero per l’affermarsi di altre patrie in guerre di liberazione nazionale.
Nella seconda metà del secolo, invece, sempre più il nazionalismo era stato inteso in un senso molto diverso: come diritto per la propria patria alla supremazia sulle altre, o comunque come rivendicazione della propria superiorità culturale. A volte si era venato di coloriture razziste, più spesso aveva assunto i toni esaltati della guerra e della sensazione della propria superiorità. Questo tipo di nazionalismo aveva avvelenato i rapporti tra Francia e Germania già nel corso degli anni Sessanta e, dopo la guerra franco-prussiana del 1870, era stato fortemente alimentato dallo spirito di rivincita che la Francia aveva coltivato a lungo.
Il nazionalismo, nella forma esasperata che aveva finito con l’assumere, da amor di patria si era trasformato in una vera e propria cultura della guerra, vista come il terreno di scontro da cui sarebbe potuta emergere la forza superiore della propria terra e del proprio sangue. In discussione non era più la propria identità, l’unità e l’indipendenza del proprio paese riconosciuto come tale dagli altri, ma la supremazia in Europa: il diritto a orientarne le scelte, a dare ad essa la propria impronta “superiore”.

L’attesa di una guerra “liberatrice” di nuove energie
Convergevano in questi sentimenti e idee molte tendenze dell’epoca: dal razzismo in netta crescita alla concezione darwiniana applicata (in modo molto lontano dal metodo e dalle finalità scientifiche di Darwin) alle vicende delle società e della storia. La guerra era vista positivamente, come una necessaria ma momentanea fase di un processo sociale che avrebbe depurato dalle proprie scorie le società europee e le avrebbe rese più forti, liberando le migliori energie. Del potenziale distruttivo della guerra moderna si sottovalutava tutto (c’era un precedente su cui gli storici insisteranno, ed era la guerra civile americana col suo milione di morti, ma era stata combattuta lontano e non ebbe molto da insegnare agli intellettuali europei che esaltavano la guerra come “igiene dei popoli”).
Non si trattava di idee astratte: le si proponeva nel concreto delle discussioni politiche e una reale, palpabile attesa “positiva” della guerra fu tra le cause della sua esplosione. Al momento dello scoppio ci furono davvero manifestazioni di esultanza nelle piazze d’Europa (nulla segnala la differenza tra la prima e la seconda guerra mondiale come l’assordante silenzio che ovunque, anche in Germania, accolse la notizia della dichiarazione di guerra nel 1939) e un numero enorme di cittadini partì volontariamente per il fronte (e tra essi molti studenti e intellettuali). Pochissimi i pacifisti, per lo più finiti in galera. La cultura europea fu per la guerra, con poche eccezioni: si schierò contro una parte del mondo cattolico, sensibile alle parole dei papi (il 1914 fu l’anno in cui morì Pio X e salì sul soglio pontificio Benedetto XV, che si impegnò a favore della pace: vedi p. 0); una parte del mondo socialista, rimasta fedele agli ideali internazionalisti (ma si trattò di una minoranza); e così via



4. I fronti

Belgio, Agosto 1914
Tutto precipitò in pochi giorni. Dopo l’assassinio dell’arcidica Ferdinando e della moglie, avvenuto il 28 giugno, l’Impero Austro-Ungarico decise di rischiare sino in fondo la guerra europea e inviò un ultimatum alla Serbia, seguito da un attacco militare (si segua la sequenza rapidissima degli eventi, che sottendono decisioni chiave prese in pochissimo tempo: tra l’ultimatum e l’attacco si andò dal 23 al 28 luglio). La Russia si ergeva da secoli a protettrice degli ortodossi dei Balcani e quindi della Serbia, ed entrò in guerra a sua difesa il 30 Luglio. La Germania, alleata dell’Austria-Ungheria entrò in guerra il 1 Agosto e la Francia, alleata della Russia, il 3 Agosto. Il 4 entrò in guerra l’Inghilterra a fianco della Francia e della Russia. L’Italia, benché membro della Triplice, decise di non entrare in guerra e poté farlo perché era stato l’Impero Austro-Ungariuco ad attaccare e la Triplice era una alleanza difensiva. Tutto si consumò con estrema rapidità, e tutti i governi erano convinti che la partita sarebbe stata chiusa in brevissimo tempo. I parlamenti nazionali votarono compatti i crediti di guerra; in Francia e in Germania anche i socialisti votarono a favore, vanificando così la logica dell’internazionalismo operaio: prevalse ovunque lo spirito nazionalista.
Furono i Tedeschi ad attaccare immediatamente, prima ancora che l’Inghilterra entrasse in guerra. Avevano un problema: dovevano combattere su due fronti, contro la Russia e contro la Francia. Decisero di puntare alla rapida sconfitta della Francia come nel 1870, per poi rivolgersi in forze contro la Russia a fianco degli alleati austro-ungheresi. Avevano una sola possibilità: prendere Parigi (e quindi il cuore finanziario e industriale della Francia) impedendo così una controffensiva, ma per farlo dovevano passare attraverso il Belgio, perché il grosso dell’esercito francese era schierato più a sud, sulla linea di confine tra Francia e Germania.
Il Belgio dal 1830 (cioè dal momento della sua nascita a seguito di una rivoluzione liberale) era protetto da trattati internazionali che ne proclamavano la neutralità e l’inviolabilità in caso di guerra. Il governo tedesco dichiarò che i trattati sono pezzi di carta e l’esercito attaccò la Francia puntando su Parigi attraversando il Belgio.

Marna, Settembre 1914
L’attacco alla Francia attraverso il Belgio non era una decisione dell’ultimo momento. Era stato pianificato da tempo (Piano Schlieffen, dal nome del generale che lo mise a punto) e rispondeva ad una esigenza vitale per la Germania: evitare di dover combattere contemporaneamente a ovest contro la Francia e a est contro la Russia. Il piano prevedeva una guerra lampo contro la Francia, di cui ci si attendeva il rapido crollo in modo non dissimile al 1870, e quindi in tempi successivi l’attacco alla Russia, di cui si prevedeva una certa lentezza nella mobilitazione.
Il piano fallì. Il Belgio resistette per alcuni giorni, dando il tempo ai Francesi ed agli Inglesi di predisporre le linee di difesa a est di Parigi. A settembre l’avanzata nemica venne fermata sul fiume Marna, ad appena 40 chilometri da Parigi e l’esercito tedesco fu costretto a ripiegare (Battaglia della Marna). L’uomo che aveva scelto e realizzato la strategia d’attacco tedesca, fallita sul campo, era il generale Helmut von Molke, il nipote del von Molke vincitore a Sedan nel 1870.
L’opinione pubblica internazionale percepì in termini negativi la violazione della neutralità del Belgio, e la Germania fu accusata di essere la vera responsabile di una guerra tendente alla semplice sopraffazione dell’avversario. L’accusa di essere la vera responsabile della guerra (gli storici non confermano: la guerra ebbe molti padri, in entrambi gli schieramenti) peserà fortemente dopo la sconfitta tedesca, al momento della definizione dei Trattati di pace.
Una guerra concepita sul fronte occidentale come una guerra lampo si trasformò quindi in una guerra di posizione su un fronte di oltre settecento chilometri.

Il fronte orientale
La realtà della guerra fu diversa dai piani previsti dai Tedeschi anche sul fronte orientale. I Russi furono in grado di attaccare la Prussia orientale già mentre la parte preponderante dell’esercito tedesco era impegnata nelle prime fasi dell’attacco al Belgio. Il comando tedesco dovette quindi trasferire truppe dal fronte occidentale a quello orientale (la Germania si trovò così a dover combattere su due fronti contemporaneamente, una situazione molto temuta già da Bismark) e l’avanzata russa poté essere fermata con le battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri. Il generale tedesco che comandava le truppe su questo fronte era Ludwig Hindenburg, che avrebbe avuto nel dopoguerra un ruolo politico molto importante.
L’Impero Austro-Ungarico, a sua volta attaccato più a sud dalla Russia, si trovò in difficoltà e anche su questo fronte orientale si passò da una guerra di movimento ad una guerra di trincea, perché né i Russi né gli austro-tedeschi avevano forze sufficienti per attaccare a fondo il nemico.

Economia di guerra e militarizzazione della società civile nel contesto di una guerra totale
Tutto questo avveniva tra agosto e settembre del 1914. Poiché i piani per una guerra rapida erano falliti, tutti i i governi si trovarono in una situazione imprevista a cui si dovette far fronte rapidamente: una guerra di posizione implicava infatti la necessità di combattere a lungo, impegnando le risorse dei due blocchi in modo molto più massiccio di quanto era stato richiesto dalla fallita guerra lampo. Si trattava di decidere se avviare trattative di pace o se continuare. In questo secondo caso le dimensioni del conflitto avrebbero richiesto la militarizzazione dell’intero apparato produttivo dei paesi europei e lo sfruttamento a fini bellici delle potenzialità offerte dal sistema coloniale.
Non si parlò neppure di pace. La guerra continuò: la produzione industriale venne riconvertita a fini bellici, l’economia di tutti i paesi fu riorganizzata al fine di sostenere lo sforzo militare (decine di milioni di uomini dovettero essere mantenuti al fronte per anni, e riforniti di tutto). La vita civile venne sottoposta a una logica militare: gli scioperi erano da considerarsi un sabotaggio dello sforzo militare, i milioni di contadini e lavoratori divenuti soldati e spediti al fronte dovettero essere sostituiti prevalentemente da personale femminile (le donne non furono direttamente coinvolte nelle operazioni militari), ogni energia delle nazioni venne orientata alla guerra, che divenne presto guerra totale, volta cioè al completo annientamento del nemico, con ogni mezzo, attraverso una mobilitazione integrale delle risorse.
Tutto questo tra paesi europei, anzi tra i paesi più forti, i dominatori del mondo, che col sistema coloniale controllavano tutti i continenti eccetto l’America (gli Stati Uniti peraltro nel 1917 entrarono in guerra).



5. L’Italia in guerra

Entrare in guerra?
Per tutto il primo anno di guerra l’Italia restò dunque neutrale. Da parte degli alti gradi dell’esercito giungevano ai politici inviti a prendere tempo, perché il paese non era affatto preparato alla guerra. Mancava il numero sufficiente di ufficiali per portare al fronte milioni di uomini, mancavano mezzi sufficienti a sostenere il peso di un confronto con un esercito ben armato ed addestrato come quello austro-ungarico o quello francese.
Non era infatti per nulla scontato contro chi entrare in guerra, e quindi tra l’estate del 1914 e la primavera del 1915 si intrecciarono due questioni diverse: se entrare in guerra e, nel caso si decidesse di farlo, con quali alleanze e contro quali nemici. Questa situazione chiarisce subito che per l’Italia non si trattava affatto di entrare in guerra sulla base di problemi vitali e di motivazioni fortemente sentite. Il problema era del tutto diverso: quasi tutta l’Europa era in guerra e la neutralità dell’Italia appariva indegna di una grande potenza, che in questo modo si estraniava dalla crisi in atto, mettendosi da sola ai margini del gioco politico internazionale.
A vedere le cose in questo modo erano soprattutto il re e i circoli di corte. Ma nel paese non c’era affatto una volontà chiara di guerra. Anzi, le forze politiche e sociali erano per lo più contrarie.

Il fronte del no
Il fronte del no era vasto e molto composito. Innanzitutto era personalmente contrario Giolitti, che rimaneva l’uomo politico più influente del paese. L’esperienza della guerra di Libia lo aveva convinto della impreparazione militare dell’Italia e dei pericoli cui si andava incontro: nessuno meglio di lui poteva apprezzare la prudenza dei militari che chiedevano tempo. Ma non si trattava solo di questo: Giolitti non vedeva concreti vantaggi nell’ingresso in guerra, neppure in caso di vittoria, tutt’altro che certa. Vedeva invece concreti vantaggi nella posizione di neutralità, che consentiva al paese di porsi al riparo dalle devastazioni di una guerra che si mostrava durissima e di approfittare della propria posizione per contrattare la neutralità (Giolitti riteneva che per questa via l’Italia avrebbe potuto ottenere le “terre irredente”, cioè quelle terre abitate da italiani ma soggette all’Impero Austro-Ungarico: il Trentino, la Venezia Giulia, parti della costa adriatica). Queste idee furono accolte da un coro di critiche da parte di alcuni settori che videro nel suo ragionamento un cinismo inaccettabile, di fronte a quelli che vennero presentati come i “nobili valori” della guerra in corso, che appariva loro un alto scontro di civiltà da cui sarebbe uscita una nuova Europa.
Il fronte del no comprendeva poi in genere il mondo cattolico, guidato dal papa Benedetto XV che era ben poco entusiasta che l’Italia entrasse in guerra contro altre potenze cattoliche (tali erano sia l’Austria che la Francia), ed anche il mondo socialista, fedele al proprio internazionalismo, al contrario dei socialisti d’oltralpe (il Partito Socialista Italiano fu l’unico partito socialista europeo a non votare i crediti di guerra in parlamento al momento dell’entrata in guerra).
Anche una parte della borghesia italiana era contraria alla guerra e l’influente quotidiano torinese La Stampa si schierò per il no. Un’ampia parte del parlamento esprimeva queste posizioni, e se il re e il governo avessero deciso per l’ingresso in guerra si sarebbe creata una difficile situazione istituzionale per la posizione neutralista del parlamento e dei principali leader politici.

Il fronte del sì
Benché non fossero numericamente una grande forza politica, i nazionalisti (che già avevano fortemente voluto la guerra di Libia) agirono efficacemente sulla stampa e sulle piazze chiedendo a gran voce l’ingresso in guerra. Loro alleato era una parte del mondo culturale: pittori e scrittori come i futuristi, ad esempio, si schierarono decisamente a favore, vedendo nella guerra una sorta di ideale estetico da perseguire.
Non tutta la borghesia italiana era poi schierata per il no. Il Corriere della Sera, espressione della borghesia milanese, si schierò per il sì, interpretando gli interessi e le convinzioni dei grandi gruppi industriali del nord, interessati alla produzione a fini bellici. E per la verità neppure in Italia il campo socialista era del tutto compatto, perché vi furono singole personalità politiche che si pronunciarono a favore di una guerra che lasciava presagire favorevoli condizioni per una rivoluzione proletaria (tutto sommato milioni di operai e di contadini sarebbero stati in armi). Il più celebre dei socialisti che si schierarono per il sì fu Benito Mussolini (1883-1945) allora giovane direttore dell’Avanti, l’organo ufficiale del partito. Venne immediatamente espulso, ma poté subito fondare a Milano un proprio giornale, Il popolo d’Italia, finanziato da alcuni industriali e dai Francesi che tentavano in molti modi di condizionare in quei mesi la vita politica italiana a favore di un intervento a proprio favore o almeno per la neutralità.
A favore del sì, oltre al re Vittorio Emanuele III, erano sia il presidente del consiglio Antonio Salandra che il ministro degli esteri Sidney Sonnino.

Le trattative per l’ingresso in guerra e il Patto di Londra
Il governo italiano intanto stava trattando sia con gli Austriaci che con la Francia e l’Inghilterra. Gli interessi del paese andavano in direzione diversa dalle sue alleanze: formalmente ancora legata alla Triplice (ricordiamo che era potuta rimanere neutrale soltanto perché il trattato era difensivo e gli imperi centrali avevano scatenato e non subito l’attacco), l’Italia non aveva molto da guadagnare attaccando la Francia e in caso di guerra le sue coste sarebbero state esposte alla superiorità navale britannica; aveva invece concreti interessi a entrare in guerra contro l’Austria perché alcuni territori abitati da italiani (o in cui abitavano anche italiani insieme con altre popolazioni) erano ancora in mano austriaca (soprattutto Trento e Trieste e alcune altre terre tra il Friuli e le regioni slave).
Le trattative con l’Impero Austro-Ungarico andarono per le lunghe, non essendo gli Austriaci disposti a ampie concessioni, che avrebbero riguardato comunque propri territori rivendicati dall’Italia (come Trento e Trieste)
Comunque andassero le cose, il re era fermamente deciso per l’ingresso in guerra. Mentre ancora si trattava con l’Austria (ben poco disposta in verità a fare concessioni sostanziali all’Italia per ottenerne l’appoggio), nell’aprile del 1915 venne firmato il Patto di Londra con cui l’Italia si impegnava ad entrare in guerra entro un mese. Si trattava di un patto segreto, la cui esistenza e i cui termini vennero resi noto soltanto nel corso della guerra; quindi gli italiani furono trascinati in guerra, per così dire, a loro insaputa (e in parte contro la propria volontà).
Il Patto non prevedeva solo il completamento dell’unificazione italiane con le terre rivendicate contro gli Austriaci (come Trento e Trieste), ma lo spostamento del confine al Brennero (quindi in territorio abitato da popolazioni austriache) e ampie concessioni territoriali nei Balcani e in alcune zone dell’Impero Turco, in vista del suo smembramento alla fine della guerra. Non si trattava quindi di un patto che si limitava a consentire all’Italia di completare il proprio risorgimento nazionale, ma di un accordo tra potenze imperialiste per la spartizione di territori nemici. L’Inghilterra si impegnava a garantire all’Italia ampi finanziamenti.

Le “radiose giornate di maggio”
Gliolitti comprese bene che il re era implicato direttamente nella scelta di entrare in guerra e che una battaglia parlamentare volta alla neutralità avrebbe avuto ottime probabilità di successo, ma avrebbe fatto correre al paese due pericoli: avrebbe creato una gravissima crisi istituzionale (era il re, a norma di Statuto, il titolare del potere di dichiarare guerra) e avrebbe esposto ampi settori della vita politica e sociale al pericolo delle violenze degli interventisti, in particolare dei nazionalisti certamente disposti alla violenza (le manifestazioni di piazza, sempre più intense e violente, tendevano già a degenerare). Rinunciò a guidare una simile battaglia parlamentare e si limitò a tacere.
Mentre il governo stesso favoriva ampie manifestazioni di piazza (le “radiose giornate di maggio”, secondo la propaganda interventista e nazionalista) e il poeta Gabriele D’Annunzio (1863-1938) teneva comizi infuocati, il governo si dimetteva, non trovando in parlamento una maggioranza favorevole all’intervento. Si trattava però di una manovra politica concordata: il re il 16 Maggio respinse le dimissioni dichiarando che il paese voleva la guerra, e il 20 il parlamento cedette e votò i pieni poteri al governo in caso di guerra con 407 voti favorevoli e soltanto 74 contrari, e questo nonostante fosse a larghissima maggioranza non interventista. Il parlamento aveva ceduto di fronte al re e al governo, e il ricordo di questo precedente avrà un peso determinante presso quanti negli anni successivi desidereranno governi forti e il superamento del parlamentarismo. Anche i cattolici nel voto parlamentare si allearono al re e al governo. Gli stessi socialisti, che votarono contro, dovettero assumere una posizione espressa dalla formula “né aderire, né sabotare” per l’impossibilità di radicalizzare la loro posizione contraria alla guerra allo scopo di non apparire anti-nazionali.
Il 24 maggio, dopo un ultimatum, l’Italia entrò in guerra contro l’Impero Austro-Ungarico.



6. Dal 1915 al 1917. L’ingresso in guerra degli Stati Uniti

Il fronte italiano
Iniziava così per l’Italia un lungo periodo di guerra. L’intera vita economica e sociale del paese ne venne trasformata, anche se questa guerra (al contrario della successiva seconda guerra mondiale) non coinvolse direttamente i civili. Milioni di lavoratori dovettero lasciare le loro occupazioni e andare al fronte. Le campagne videro le donne sostituirsi agli uomini, le fabbriche vennero militarizzate e ogni aspetto della vita economica venne posto sotto controllo a fini bellici: l’economia di guerra aveva come obiettivo la continua alimentazione del fronte, sicché gli operai delle industrie belliche (e moltissime riconvertirono la produzione) furono considerati alla stregua di combattenti.
Il fronte si stabilizzò sulle Alpi, al confine tra Italia e Austria: i soldati vissero per tre anni in trincee spesso ad alta quota, estate e inverno, con scarsi ripari e scarsa alimentazione, in condizioni materiali e morali terribili. Si moriva a migliaia, si moriva tutti i giorni, in attacchi che per lo più non davano nessun risultato. La disciplina era durissima e i casi di insubordinazione puniti dai Tribunali Militari con la morte non furono rari.
Nel maggio del 1916 ad un anno dall’inizio della guerra l’Italia subì quella che gli austriaci chiamarono spedizione punitiva (per il “tradimento” italiano della Triplice) che si risolse però in un nulla di fatto. L’Italia poté resistere perché i russi a loro volta attaccarono a sorpresa nei Carpazi.

Caporetto
Il momento più difficile della guerra giunse per l’Italia un anno dopo, nell’ottobre del 1917. Con una manovra a sorpresa, gli Austriaci riuscirono a sfondare le linee italiane nei pressi di Caporetto e penetrarono a sud delle Alpi per 150 chilometri, aprendosi così la strada per la pianura padana. La rotta dell’esercito italiano fu disastrosa e apparve completa.
Si trattò però soltanto di un momento presto superato. Le linee furono ricompattate sul monte Grappa e sul fiume Piave e lo slancio austriaco venne fermato. L’invasione del paese fu evitata. Di fronte al pericolo l’Italia si ricompattò e ritrovò uno spirito unitario che negli anni della guerra era venuto a mancare. Ma vi furono cambiamento radicali nei comandi e nello stesso governo. Il generale Cadorna, che aveva la responsabilità complessiva dell’esercito, a proposito della rotta di Caporetto parlò di viltà dei soldati; ma non vi fu alcuna viltà, e la risposta all’appello del Piave fu unanime (venne chiamata al fronte al classe 1899, cioè ragazzi di diciotto anni, per colmare i larghi vuoti prodottisi nelle file italiane). Fu piuttosto Cadorna ad essere sostituito dal generale Diaz, che tenne il comando supremo fino alla vittoria, essendosi Cadorna reso colpevole di una condotta discutibile delle operazioni militari; aveva mantenuto una disciplina brutale che aveva fiaccato gravemente il morale delle truppe ed era ispirata al più evidente disinteresse per il sacrificio di vite umane che la condotta della guerra voluta dagli alti comandi implicava.
Anche al governo vi fu un avvicendamento: la responsabilità governativa venne assunta da Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), un liberale che guiderà il paese fino ai trattati di pace.

Il fronte occidentale e la decisione di condurre una guerra totale
Il fronte principale rimase comunque quello occidentale, dove francesi e tedeschi si confrontarono direttamente per anni, trincea contro trincea. Nonostante si distinguano diverse battaglie (vedi la cartina n. 0) in ragione di particolari addensamenti dei combattimenti, in realtà si trattò di una interminabile guerra di posizione.
Tra il 1916 e il 1917 maturò da parte di tutti i governi in carica (tranne che in Russia, come vedremo subito) la volontà di condurre una guerra totale. Le ragioni per le quali la guerra era scoppiata rimanevano sullo sfondo, ma il cambiamento del tipo di guerra aveva prodotto cambiamenti estremi: era chiaro per tutti ormai che il dopoguerra avrebbe visto un’Europa diversa e adesso si combatteva non più per risolvere singole questioni territoriali, pur importanti, o per stabilire la supremazia di una grande potenza sulle altre, ma per nulla di meno che l’annientamento del nemico e la spartizione del mondo da parte dei vincitori (il che, come vedremo, non accadrà affatto). Furono fatti tentativi per lo più strumentali per arrivare a intavolare trattative per chiudere la guerra, ma senza convinzione e fallirono tutte (lo stesso papa Benedetto XV provò senza successo a lanciare un appello contro quella che chiamo “inutile strage”). Ciò che i governi volevano era la completa e totale capitolazione della coalizione nemica.
Fu in questo clima di resa finale dei conti che le potenze occidentali additarono nella Germania la responsabile della guerra e puntarono alla sua completa disfatta, con precisi intenti punitivi. Ma il 1917 portò due fatti nuovi, che segnarono la fase finale della guerra: - in Russia nel corso di quell’anno scoppiarono due rivoluzioni, in febbraio e in ottobre, che portarono il paese nelle mani dei comunisti e determinarono l’uscita dalla guerra; sul momento furono gli imperi centrali ad avvantaggiarsene, perché poterono sguarnire il fronte orientale e concentrare gli sforzi contro l’Italia e la Francia;
- gli Stati Uniti d’America decisero, come vedremo subito, di entrare in guerra a fianco delle potenze occidentali..

Ypres, Verdun, Gallipoli, Jütland
La situazione militare tra il 1915 e il 1917 non mutò di molto rispetto alla fine del 1914, a parte l’ingresso in guerra dell’Italia e di molti altri paesi di minore potenza. I fronti si stabilizzarono, anche se l’ampio spazio tra gli Imperi centrali e la Russia vide movimenti di truppe molto superiori del fronte occidentale e del fronte italiano, dove si combatté su linee quasi ferme, solcate da trincee.
Vi furono però molti addensamenti di uomini e di attacchi e contrattacchi, segnalati dalla cartina n. 0, in battaglie combattute da milioni di uomini, durate mesi, ciascuna delle quali segnata dalla morte di centinaia di migliaia di giovani soldati (si veda la tabella n. 0). Ne segnaliamo in particolare due, rimaste nella storia per alcune particolari caratteristiche: - a Ypres, cittadina del Belgio, si combatterono diverse di queste battaglie tra il 1915 e il 1917, e nel 1915 per la prima volta i Tedeschi usarono una nuova arma, i gas, che pur rivelandosi letali per un numero altissimo di soldati non furono di fatto nella guerra davvero risolutivi, pur essendo impiegati poi in modo massiccio (dalla cittadina di Ypres nacque il termine iprite, per indicare un tipo di gas usato a fini bellici);
- intorno a Verdun, una cittadina sulla Mosa in Lorena, si combatté una lunga battaglia con enormi perdite, che fu particolarmente importante per la memoria nazionale della Francia (vi dedichiamo un approfondimento a p. 0).
La prima guerra mondiale fu combattuta prevalentemente dalla fanteria, perché la marina militare non ebbe un ruolo determinante e l’arma dell’aeronautica era ai primi passi (gli aerei furono utilizzati soprattutto come ricognitori). L’unica battaglia navale di rilievo si combatté nello Jütland, al largo delle coste danesi e anche se ebbe un esito incerto di fatto confermò la superiorità navale britannica: gli imperi centrali erano una “fortezza assediata”, non potevano comunicare via mare con l’esterno né ricevere rifornimenti perché gli Inglesi lo impedivano.
Una certa importanza rivestì anche il tentativo inglese di attaccare i Dardanelli e la città di Costantinopoli (Battaglia di Gallipoli, che si combatté tra il 1915 e il 1916). Ma i Turchi, sostenuti dai Tedeschi, resistettero e gli Inglesi rinunciarono all’attacco.

I 14 punti di Wilson e l’ingresso in guerra degli Stati Uniti
Fino al 1917 gli Stati Uniti erano rimasti neutrali, ma di fatto avevano finanziato le potenze occidentali e si erano impegnati in aiuti di vario tipo. Consideravano la guerra come un fatto interno all’Europa e alla sua politica, e finché gli interessi americani non furono coinvolti ebbero un atteggiamento di fiero isolamento. Era presidente il democratico Woodrow Thomas Wilson (1856-1924), che aveva più volte tentato una mediazione ed era convinto che un nuovo ordine mondiale dopo la guerra avrebbe dovuto essere fondato sul principio di autodeterminazione dei popoli e sullo sviluppo della democrazia.
La decisione di entrare in guerra venne presa nell’aprile del 1917 dopo la scelta tedesca di condurre una guerra sottomarina illimitata nel tentativo di piegare l’Inghilterra che poteva essere rifornita solo dal mare e poteva trasferire mezzi e truppe al fronte soltanto attraverso la sua flotta. Ma questo significava colpire gravemente gli interessi americani, e affondare molte loro navi (anche civili, come era accaduto col transatlantico inglese Lusitania nel 1915, con la morte di oltre mille passeggeri di cui 139 americani).
L’America fu pronta ad inviare truppe in Europa soltanto un anno dopo, e la Germania fece ogni possibile sforzo per vincere la guerra prima dell’intervento statunitense. Ma non riuscì nell’intento.
Nel gennaio del 1918, in prossimità dell’invio dei soldati in Europa, Wilson rese pubblico un documento in cui elencava in 14 punti le linee guida della sua politica riguardo alla guerra. Wilson dichiarava (in netto contrasto con le mire imperialistiche degli alleati, Italia compresa) che le paci avrebbero dovuto mirare ad un mondo pacificato, abbandonata ogni volontà imperialista: i popoli avrebbero avuto il diritto di scegliere liberamente il proprio destino.



7. Il crollo

Verso la fine
Tra il 1917 e il 1918 la situazione interna dei paesi europei divenne sempre più grave. Ovunque la stanchezza della guerra e la fame provocò agitazioni, scioperi, serie situazioni di crisi. Ormai per gli Imperi Centrali si trattava di una corsa contro il tempo per l’effetto combinato del crollo della Russia e dell’ingresso in guerra dell’America.
Dopo le ultime offensive dell’inizio dell’estate del 1917 la Russia come potenza militare era di fatto crollata. Gli imperi centrali avevano quindi potuto spostare molte truppe sul fronte occidentale e su quello italiano, determinando così una più alta pressione e un intensificarsi dello scontro. Poi nell’ottobre dello stesso anno in Russia i comunisti avevano preso il potere e all’inizio del 1918 erano usciti dalla guerra firmando la pace di Brest-Litovsk, che consegnava enormi territori nella mani della GermaniA e dell’Austria-Ungheria (studieremo questi eventi alle p. 0, trattando della rivoluzione russa).
Gli imperi centrali potevano così contare non solo su un alleggerimento complessivo dell’impegno militare, avendo vinto la guerra sul fronte orientale, ma anche sulle risorse di immensi territori ad est (per la verità estremamente provati da anni di guerra).
Avevano però pochissimo tempo per sfruttare questa momentanea situazione di superiorità, perché appena ne avessero avuto la possibilità, completando la loro mobilitazione, gli americani sarebbero stati in grado di riversare in Europa un milione di uomini (truppe fresche, non al limite del collasso come erano tutti gli eserciti dopo oltre tre anni di guerra) ed enormi quantità di armi e generi alimentari (in un’Europa alla fame, con eserciti molto mal nutriti, il cibo era quasi tanto importante quanto le armi).
Così tra la primavera e l’estate del 1818 i tedeschi lanciarono le loro ultime offensive sul fronte occidentale. Ma non riuscirono a sfondare le linee nemiche. Alla metà di luglio si combatté una seconda volta sulla Marna, ma il contrattacco francese, sostenuto dagli inglesi e dagli americani, divenne per i tedeschi incontenibile.
Le loro armate cominciarono a ripiegare ordinatamente. Non si trattò di una rotta, ma di un arretramento in realtà senza speranza. Ad agosto Guglielmo II cercò di intavolare trattative di pace, senza successo: a questo punto quello che gli alleati volevano era la capitolazione competa e totale della Germania e dell’Austria-Ungheria.

Rivoluzioni repubblicane in Germania e in Austria
Tra l’ottobre e il novembre del 1918 si consumò l’ultimo dramma degli imperi centrali, che portò alla loro dissoluzione. L’Austria-Ungheria cessò di esistere come Stato unitario e le singole nazionalità dell’impero diedero vita a repubbliche indipendenti, prima ancora delle decisioni della conferenza di pace sulla futura sistemazione dell’Europa. Il colpo di grazia militare venne dall’Italia, che alla fine di ottobre inflisse una durissima sconfitta agli austriaci a Vittorio Veneto. La guerra sul fronte italiano era così finita, senza peraltro che il territorio austriaco fosse invaso. La rotta dell’esercito imperiale era però completa.
Quanto alla Germania, di fronte al crollo degli alleati e all’avanzata degli eserciti nemici sul fronte francese, si formò un nuovo governo che tentò di introdurre riforme costituzionali, limitando l’autoritarismo. Ma la manovra non ebbe alcun successo. Di fronte alla disfatta militare, che venne interpretata come disfatta dell’impero e delle classi dirigenti, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre dapprima nella flotta e nell’esercito, poi in tutto il paese, si diffuse un movimento rivoluzionario che impose la fine dell’impero e la nascita della repubblica. Guglielmo II dovette fuggire in Olanda e la responsabilità del governo venne assunta dal socialdemocratico Friedrich Ebert. Un ruolo chiave nella rivoluzione lo avevano infatti avuto i socialdemocratici, che interpretavano il senso di frustrazione provato da milioni di cittadini.




8. Le paci di Parigi del 1919

Parigi, 1919
La conferenza di pace si aprì a Parigi nel gennaio del 1919 e vide la partecipazione dei soli vincitori. Erano presenti delegazioni di 32 paesi, ma di fatto le decisioni vennero prese soltanto dalle grandi potenze , cioè l’Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti (anche se il fronte contrario agli imperi centrali aveva visto alleati ben 27 paesi). L’Italia era rappresentata dal capo del governo Vittorio Emanuele Orlando, ma ebbe scarso peso nelle decisioni e un ruolo da potenza minore (studieremo i trattati che riguardano l’Italia e le gravi conseguenze che ne derivarono nel capitolo 0).
Il solo fatto che i paesi vinti non fossero presenti al tavolo delle trattative indica che la loro sconfitta era stata una completa capitolazione ed era molto vicina al rappresentare il completo annientamento della loro identità e potenza. Almeno questa era la visione che dei fatti aveva la Francia, decisa con il suo capo di governo Georges-Benjamin Clemenceau (1841-1929) a vedere dissolta la potenza tedesca. Gli inglesi erano rappresentati dal premier David Lloyd George (1863-1945) e gli americano da Wilson, ed erano su posizioni divergenti dai francesi:
- gli inglesi non avevano più ragione di temere la Germania, cui avevano ormai sottratto quasi per intero l’impero coloniale e distrutto la flotta; erano interessati soprattutto ad una pace che garantisse loro i massimi vantaggi nella spartizione dell’Impero Ottomano;
- gli americani assunsero il ruolo dei democratici, interessati ad una pace definitiva ed equa, rifiutando i principi imperialistici nella soluzione delle questioni europee (principi che però essi stessi disattendevano in altri contesti, come l’America Latina) e pressando per l’applicazione del principio della autodeterminazione dei popoli.

Il Trattato di pace con la Germania: Versailles, 1919
Tutti i trattati scaturiti dalla Conferenza di pace furono imposti dalla volontà dei vincitori e non furono oggetto di trattative con i paesi sconfitti, che dovettero limitarsi a sottoscriverli. Quello con la Germania venne firmato nella reggia di Versailles, là dove i tedeschi avevano celebrato il loro trionfo nel 1971 proclamando il Secondo Reich nella sala degli specchi, umiliando così la Francia sconfitta.
Adesso era la Francia a imporre la propria volontà. Riuscì a far valere la propria posizione contro quella inglese e americana e il Trattato di Versailles fu concepito in termini punitivi verso la potenza accusata di essere la vera responsabile della guerra:
- i tedeschi dovettero limitare l’esercito a 100.000 uomini e la flotta alle sole esigenze di controllo costiero; i francesi ritennero che fosse così distrutta la loro potenza militare e il pericolo di un nuovo attacco alla Francia;
- il nuovo governo tedesco dovette impegnarsi a pagare l’enorme somma (fissata nel 1921) di 132 miliardi di marchi oro, una cifra che, se fosse stata realmente pagata, avrebbe messo in ginocchio l’economia tedesca per molto tempo; dovette impegnarsi a consegnare enormi quantità di carbone, di bestiame, e gran parte della flotta commerciale; l’obiettivo francese era la completa crisi dell’economia tedesca a proprio vantaggio;
- la zona del Reno (al confine con la Francia, per una profondità di 50 chilometri) venne smilitarizzata, il bacino minerario della Saar occupato (e sfruttato) dai francesi per 15 anni, l’Alsazia e la Lorena restituite; la Germania perdeva inoltre notevoli territori a vantaggio della Polonia;
- tutte le colonie vennero divise tra i vincitori (l’Inghilterra, che ne aveva occupato gran parte durante la guerra, ne ebbe i maggiori vantaggi), e la sistemazione territoriale dell’est europeo venne compiuta a tutto svantaggio della Germania.
La sistemazione dei territori occupati dai tedeschi a est, a spese della Russia che era uscita dalla guerra all’inizio del 1918 con la pace di Brest Litovsk, dovette essere però rimandata, perché nel contesto della rivoluzione comunità in atto in Russia (a cui dedicheremo il prossimo capitolo) la situazione militare era ancora confusa e incerta.

I Trattati di pace con l’Austria-Ungheria: Saint-Germain e Trianon, 1919/1920
Alla fine della guerra l’Austria-Ungheria non esisteva più, né come impero né come Stato. Al suo posto, non per volontà dei vincitori, ma per rivoluzioni interne, erano nate diverse repubbliche “nazionali”, che realizzavano l’antica aspirazione all’indipendenza nazionale delle molte popolazioni dell’area.
In questo settore, meno importante per la Francia e per l’Inghilterra, più che in altre zone trovò parziale applicazione il principio dell’autodeterminazione dei popoli voluto da Wilson. Soltanto parziale, però, perché in nessuna area vi era una reale separazione e molte popolazioni si erano nel corso dei secoli mischiate negli stessi territori e nelle stesse città e villaggi.
I trattati di Saint-Germain (con l’Austria) e di Trianon (con l’Ungheria) sancirono quanto era emerso nell’ultima fase della guerra. Nacquero così molti Stati nell’Europa dell’est (l’Ungheria indipendente dall’Austria, la Cecoslovacchia, la Polonia: vedi la cartina n. 0) riconosciuti dalle grandi potenze. La questione balcanica venne risolta (ma le tensioni permarranno fino alla fine del XX secolo) con la creazione della Jugoslavia, una repubblica federale che unificava, in nome della comune identità slava territori prima appartenenti all’Impero Turco e all’Impero Austro-Ungarico (dalla Slovenia a nord alla Serbia e al Montenegro a sud, fino ai confini dell’Albania e della Grecia).
L’Austria e l’Ungheria, fortemente penalizzate con perdite territoriali anche rispetto alla loro identità precedente nel contesto dell’Impero, vennero ridotte a piccoli Stati. Vienna, in particolare, si trovò in una strana situazione: una metropoli imperiale di quasi due milioni di abitanti come capitale di un piccolo Stato di soli 6 milioni di abitanti.

Il Trattato con la Turchia: Sèvres, 1920
Il Trattato con la Turchia, firmato a Sèvres nei pressi di Parigi nel 1920, ridisegnò completamente la carta politica del vecchio Impero Ottomano, crollato sotto i colpi degli inglesi nel 1918. La Turchia venne ridotta ad un piccolo paese di otto milioni di abitanti, e questo innescò al suo interno risentimenti fortissimi che determineranno la sua storia futura (ne parleremo nel capitolo 0). L’immenso impero venne smembrato e diviso tra le grandi potenze secondo la cartina n. 0. L’intera zona cadeva sotto il dominio coloniale di Inghilterra e Francia.
Quanto agli Stretti, aperti alle navi mercantili di tutti i paesi, caddero di fatto sotto il controllo inglese.

Una pace soltanto provvisoria
Gli storici sottolineano quello che qualche osservatore del tempo aveva temuto potesse accadere: le paci di Parigi del 1919-1920 si rivelarono fragilissime.
La volontà persecutoria nei confronti della Germani innescò risentimenti tali da portare ad una nuova guerra mondiale e all’esperienza del Nazismo.
La scarsa considerazione dell’Italia e dei suoi problemi da parte delle grandi potenze fu tra le condizioni di fondo che favorirono insorgere di un nazionalismo esasperato e del Fascismo.
La suddivisione coloniale dell’Impero Ottomano portò a tensioni fortissime nell’area che, quasi un secolo dopo, non si sono ancora oggi dissolte.
Prevalse nei vincitori la volontà di punire i vinti. Se vincere la guerra era stata un’impresa molto difficile, vincere la pace si rivelò un’impresa impossibile. Il prezzo pagato nei due decenni successivi sarà durissimo, come vedremo studiando le vicende del Fascismo, del Nazismo e di una nuova guerra mondiale. Alcuni storici parlano per tutto il periodo tra il 1914 e il 1945 di guerra civile europea, sottolineando in questo modo sia l’unità del periodo sia la dissoluzione della supremazia europea nel mondo.