giovedì 11 ottobre 2012

KANT, CONCLUSIONE ALLA CRITICA DELLA RAGION PRATICA

Immanuel Kant – Critica della ragion pratica


CONCLUSIONE

Due cose riempiono l'animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: “il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”. Queste due cose, non ho da cercarle fuori della portata della mia vista, avvolte in oscurità, e nel trascendente; né devo, semplicemente, presumerle: le vedo davanti a me, e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal luogo, che occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a grandezze immensurabili, con mondi sopra mondi, e sistemi di sistemi; e, oltre a ciò, ai tempi senza confine del loro movimento periodico, del loro inizio e del loro durare. La seconda parte dal mio Io invisibile, dalla mia personalità; e mi rappresenta in un mondo che ha un'infinità vera, ma è percepibile solo dall'intelletto, e con il quale (ma, perciò, anche al tempo stesso con tutti quei mondi visibili) mi riconosco in una connessione non semplicemente accidentale, come nel primo caso, bensì universale e necessaria. La prima veduta, di un insieme innumerabile di mondi, annienta, per così dire, la mia importanza di “creatura animale”, che dovrà restituire la materia di cui è fatta al pianeta (un semplice punto nell'universo), dopo essere stata dotata per breve tempo (non si sa come) di forza vitale. La seconda, al contrario, innalza infinitamente il mio valore, come valore di una “intelligenza”, in grazia della mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita indipendente dall'animalità, e perfino dall'intero mondo sensibile: almeno per quel che si può desumere dalla destinazione finale della mia esistenza in virtù di questa legge; la quale destinazione non è limitata alle condizioni e ai confini di questa vita, ma va all'infinito.

Se non che, ammirazione e rispetto possono, bensì, stimolare l'indagine e la riflessione, ma non colmare le lacune. Che cosa si ha da fare, ora, per istituire tale indagine in modo utile e confacente alla sublimità dell'oggetto? Qui vi sono esempi che possono servire da ammonimento, ma anche da modello. L'osservazione del mondo cominciò dal più splendido spettacolo che i sensi umani potessero presentare, e che il nostro intelletto potesse riuscire a seguire nella sua estensione: e finì nell'astrologia. La morale cominciò con la proprietà più nobile dell'umana natura, il cui sviluppo e la cui cultura promettono benefici senza fini: e fini nel fanatismo o nella superstizione. Così accade a tutti i tentativi ancora rozzi, in cui la parte principale spetterebbe all'uso della ragione: uso che non si può trovare da sé, con il frequente esercizio, come l'uso dei piedi: soprattutto quando concerna proprietà che non si possono presentare così immediatamente nella comune esperienza. Ma dopo che, per quanto tardi, fu introdotta la massima di riflettere bene anticipatamente su tutti i passi che la ragione ha intenzione di compiere, e di non lasciarla procedere se non sul binario di un metodo precedentemente ben studiato, lo studio dell'edificio del mondo prese tutt'altra direzione, con un successo senza paragone migliore. Il cadere di una pietra, o il movimento di una fionda, analizzato nei suoi elementi e nelle forze che vi si manifestano, e trattato matematicamente, finì col produrre quella veduta chiara e per sempre immutabile sulla costituzione del mondo, che, col progresso dell'osservazione, può sperare di ampliarsi sempre di più, ma non mai temere di dover tornare sui propri passi.

Ora, quell'esempio può consigliare di mettersi sulla stessa strada nel trattare le disposizioni morali della nostra natura, e darci la speranza di giungere a un risultato altrettanto buono. Abbiamo pure a disposizione gli esempi della ragione che giudica in materia morale. Analizzarli nei loro concetti elementari e, in mancanza della “matematica”, intraprendere tuttavia un procedimento analogo a quello della “chimica”, di “separazione” dell'empirico dal razionale, che in essi si possa trovare, con ripetute ricerche sul comune intelletto dell'uomo, può darci entrambi gli elementi allo stato puro e - cosa che ciascuno per sé solo può fase - farceli riconoscere con certezza; e così porre rimedio, sia alla confusione di un giudizio ancora rozzo e non esercitato, sia (cosa assai più necessaria) alle “stravaganze geniali” con cui, come sogliono fare gli adepti della pietra filosofale, senza alcuna indagine metodica e conoscenza della natura si promettono sognati tesori, e si dilapidano i veri. In una parola: la scienza (criticamente cercata, e metodicamente introdotta) è la stretta porta che conduce alla dottrina della saggezza, se con questa s'intende, non solo ciò che si deve fare, ma ciò che deve servire da guida ai “maestri” per spianare alla saggezza un cammino aperto e facilmente riconoscibile, che ciascuno debba percorrere, assicurando chi li segua dai passi falsi: una scienza di cui deve sempre restare custode la filosofia, alle cui ricerche sottili il pubblico non ha da prendere parte alcuna; mentre deve partecipare alle sue “dottrine”, che solo dopo una siffatta elaborazione gli si possono presentare con buona chiarezza.