domenica 16 settembre 2012

MAX WEBER E WILHELM DILTHEY

Wilhelm Dilthey

VITA e PENSIERO
Wilhelm Dilthey (1833-1911) si propone di restituire autonomia allo studio del sapere storico, luogo di svolgimento del mondo umano. Dilthey crede che lo scopo fondamentale dei filosofi e della filosofia sia quello di proseguire il criticismo kantiano, volgendone i presupposti alla creazione di una scienza dello spirito che si avvalga anche dei risultati di altre discipline che abbiano come loro oggetto d'indagine i fenomeni etici, sociali, psicologici e gnoseologici. Il rinvenimento delle leggi che regolano questi fenomeni deve avere come sua precondizione l'"intuizione dello sviluppo storico come processo in cui sorgono tutti i fatti spirituali"; intuizione che si è espressa, per Dilthey, nella filosofia della storia contemporanea, da Winckelmann, attraverso l'Idealismo Ottocentesco, fino a Boeckh. Il filosofo di riconosce i gravi limiti della scuola storica, che derivano dal non aver approfondito i fatti singolari, dopo aver circoscritto la loro peculiarità ai legami relazionali oggettivi, relativamente alla realtà storica e storicamente sociale. È necessario che questi fatti singolari siano compresi dall'interno, dal momento che "noi li possiamo riprodurre, fino a un certo punto, in noi, in base all'osservazione dei nostri stessi stati". Possiamo giungere a una conoscenza di base intuendo i singoli eventi rappresentati con il concorso attivo e fattivo della nostra esperienza vissuta (Erlebnis).
C'è una corrispondenza di tipo analogico tra l'esperienza vissuta individuale e l'esperienza vissuta altrui, che ci consente di interpretare, a livello di consapevolezza storica, le varie espressioni della realtà umana d'ogni tempo come un'esperienza vissuta collettiva che risulta dalla generalizzazione di un'Erlebnis individualmente connotata. Gli stessi fatti acquistano la fisionomia di segni, che, relativamente all'esperienza vissuta dal singolo, gli consentono di aderire all'Erlebnis di chi li ha prodotti. La scienza storiografica deve quindi correlarsi alle altre Geisteswissenschaften, psicologia compresa, data la preminenza che assume l'esperienza vissuta individuale nella presa di coscienza storica. Tuttavia questa correlazione tra la storiografia e le altre scienze dello spirito non può non riconoscerne l'autonomia speculativa a fronte delle Naturwissenschaften, cioè l'insieme delle scienze naturali: Fisica, Biologia, Matematica, Chimica, etc…
Nell'interpretazione di Dilthey le scienze dello spirito sono distinte e separate dalle scienze della natura in quanto queste studiano fatti che si mostrano alla coscienza estrinsecamente, quali fenomeni dati singolarmente, invece nelle Scienze dello Spirito i fatti si mostrano subito in maniera intrinseca, come una realtà autonoma ed una correlazione vivente. Nelle Scienze della Natura la correlazione con quest'ultima deriva da una concettualizzazione chiamata ad integrare i fenomeni, attraverso una connessione congetturale basata su ipotesi sperimentali, mentre le Scienze dello Spirito trovano un principio regolatore nella correlazione elementare dell'esistenza psicologica. Come Dilthey scrive nell'opera Idee su una psicologia descrittiva e analitica, "noi spieghiamo la natura, mentre intendiamo la vita psichica [...]. La connessione vissuta è qui l'elemento primo, la distinzione dei suoi singoli membri sopravviene in seguito".
Il fondamento delle Naturwissenschaften, o scienze naturali, è la concettualizzazione, basata sull'equivalenza tra causa/effetto, e la loro modalità d'espressione è nel ragionare mediante equazioni. Il fondamento delle scienze dello spirito è l'ermeneutica comprendente della prospettiva storica e sociale umana sulla base della correlazione e della condivisione comunitaria insita in ogni vita psichicamente connotata.
Dilthey distingue tra le scienze dello spirito, da un lato, quelle che si pongono come obiettivo intrinseco le generalizzazioni, quelle che in sostanza mirano a trovare le uniformità della realtà umana, e, dall'altro, la storia. La scienza storica infatti studia i fenomeni umani nella loro peculiarità singolare. sulle manifestazioni umane nella loro specificità individuale. Delle scienze generalizzanti fanno parte: psicologia, antropologia, arte religione, filosofia, scienza, economia e diritto. Ogni scienza particolare dello spirito conosce la realtà storico-sociale solo relativamente, in quanto ha coscienza della propria relazione con le altre scienze dello spirito.
Ma come comprendiamo il mondo storico nella sua globalità? Anzitutto mediante l'idea della "oggettivazione della vita". La vita si esprime in una molteplicità di oggettivazioni relazionate. La comprensione del mondo storico è la comprensione di esse, in quanto tali oggettivazioni sono prodotti storicamente determinati della vita dell'uomo, sono fenomeni obiettivi del processo di produzione della vita. E ciò che si trova come oggettivazione storica della vita degli uomini del passato, è comprensibile in quanto oggettivazione della nostra stessa vita. Per questa ragione, argomenta Dilthey, la storia non è nulla di separato dalla vita, nulla di staccato dal presente a causa della sua distanza nel tempo. Ogni prospettiva filosofica, come ogni manifestazione culturale, è del tutto storicizzata e condizionata anche quando si mostra come un sistema isolato. Essa si caratterizza per una propria intuizione del mondo, che, travestita in panni concettuali, si fa metafisica. Le varie metafisiche, pur avanzando la pretesa di risolvere una volta per tutte i misteri del mondo sono molte e diversificate. È impossibile trovare una filosofia totale che riunisca concettualmente tutti le forme delle diverse metafisiche, in quanto ognuna di esse rispecchia il contesto storico in cui nasce, si sviluppa e conclude il suo ciclo vitale.
MAX WEBER

VITA E OPERE
Weber nasce a Erfurt in Turingia nel 1864. Suo padre, di idee liberal-nazionali di destra, era un amministratore municipale e deputato della Dieta prussiana. Sua madre era una donna di grande cultura, interessata ai problemi religiosi e sociali. Sino alla sua morte, nel '19, restò in stretto rapporto intellettuale col figlio, nel quale ravvivò sempre l'attenzione per i problemi religiosi. La loro casa era frequentata da noti uomini della cultura tedesca, come ad es. Dilthey e Mommsen. Terminati gli studi liceali, W. studiò giurisprudenza, economia, storia, filosofia e teologia nelle Università di Heidelberg, Strasburgo, Berlino e Gottinga. A Strasburgo, durante il servizio militare, divenne ufficiale dell'esercito imperiale. In quegli anni era su posizioni liberal-nazionali e aveva aderito alla Lega Pangermanica, da cui più tardi si sarebbe staccato per l'indifferenza ch'essa mostrava verso il problema dell'immigrazione dei contadini polacchi. Ammiratore della politica bismarckiana, che aveva fatto della Germania unificata una grande potenza, ne criticava tuttavia l'opera di distruzione del liberalismo tedesco, che aveva lasciato in Germania un vuoto politico privando così la nazione di un efficiente classe dirigente. Nel 1887-'88 partecipa a diverse manovre militari in Alsazia, contro i francesi, e nella Prussia orientale, contro i polacchi. Negli anni 1886-89 seguì un'attività seminariale in diritto commerciale e storia agraria conseguendo infine la laurea con una tesi di storia economica sulla Storia delle società commerciali nel Medioevo. Subito dopo, per influsso del Mommsen, si dedicò alla storia agraria romana. Poi aderì al "Verein für Sozialpolitik", una sorta di "Fondazione dei socialisti della cattedra". Il socialismo di Stato o "della cattedra" sorse dalla "Scuola storica". Esso voleva fondare una nuova teoria sociologica in cui si trovassero uniti la teoria dello sviluppo sociale, la teoria della conoscenza scientifica e la pratica politica: una sociologia che fosse una scienza dell'ethos, secondo l'insegnamento del Romanticismo e di Fichte, per cui il Volksgeist, ossia la volontà di una nazione, rappresenta la legge fondamentale del suo sviluppo sociale. Lassalle, Rodbertus, A. Wagner e altri cercarono, in pratica, di conciliare i conflitti di classe attraverso la mediazione dello Stato bismarckiano e l'abolizione del sistema della libera concorrenza. Si trattava di un socialismo senza rivoluzione, per uno Stato senza società civile autonoma. L'esperimento fallì con la sconfitta della Germania nella I guerra mondiale. Per incarico della "Fondazione" W. si occupò dei problemi socio-politici della Germania orientale, pubblicando un'inchiesta, Le relazioni dei lavoratori della terra nella Germania orientale (1892) in cui mise in luce i danni per l'economia tedesca creati dall'immigrazione dei braccianti polacchi; egli in sostanza criticava la politica dei grandi proprietari terrieri a est dell'Elba, i quali, servendosi della manodopera immigrata (polacca e russa) a basso costo, avevano costretto i lavoratori tedeschi a emigrare verso le città industriali dell'ovest. A W. però preoccupava soprattutto il fatto che in tal modo gli junkers "sgermanizzavano" l'est tedesco. Nel 1891 conseguì l'abilitazione in diritto commerciale germanico e romano, La storia agraria romana nel suo significato per il diritto pubblico e privato, iniziando così la carriera universitaria. Il suo particolare interesse per la storia antica dipendeva dal fatto che le facoltà di diritto di quel tempo, in Germania come in Francia, riservavano ampia attenzione allo studio del diritto romano. Tuttavia il nucleo principale delle sue indagini scientifiche venne ben presto precisandosi attorno al problema del processo evolutivo del capitalismo moderno, anche se l'interesse per le società antiche non verrà mai meno in W.. Nel 1894 gli venne conferita la cattedra di economia politica dall'Università di Friburgo, dove l'anno dopo tenne la prolusione, Lo Stato nazionale e la politica economica, con cui manifestò apertamente la sua fiducia nella Realpolitik imperialistica, opponendosi agli interessi particolaristici delle classi economiche e all'immatura classe politica uscita dalla politica bismarckiana. Egli cioè dichiarò esplicitamente di appartenere alla "classe borghese" e voleva che lo Stato tedesco avesse un volto di capitalismo moderno e razionale, e che l'industrialismo trionfasse sui pesanti residui feudali. Siccome credeva che per ottenere questo occorreva, come già in Francia e in Inghilterra, una democratizzazione della politica interna, ovvero un abbandono del regime personale degli Hohenzollern e della burocrazia che ne era il sostegno, pensò che sostenere l'espansione coloniale tedesca e la lotta per i mercati mondiali fosse il mezzo migliore. Nel '94 pubblicò Le tendenze nell'evoluzione della situazione dei lavoratori rurali della Germania orientale. Nel '96 ottiene la cattedra di economia politica all'Università di Heidelberg e pubblica Le cause sociali della decadenza della civiltà antica, ma, colpito da una grave malattia nervosa, è costretto a dare le dimissioni nel 1903, rinunciando all'insegnamento. Per quattro anni non riesce a compiere nessun lavoro: viaggia in Italia, Corsica e Svizzera per sedare il suo stato di ansietà. Nel 1899 cessa volontariamente di appartenere alla Lega pangermanica. Nel 1902 riprende il suo insegnamento ad Heidelberg ma non riesce più a svolgere un'attività intensa come nel passato. A partire dal 1903 iniziano le sue riflessioni metodologiche in stretto contatto con le idee dei suoi colleghi, H. Rickert e W. Windelband. Prende posizione nella polemica tra gli economisti della Scuola storica di Berlino e la Scuola teoretica di Vienna in Roscher e Knies e il problema logico dell'economia politica-storica (1903-6), ed entra nella direzione, insieme a W. Sombart, della prestigiosa rivista "Archivio di scienza sociale e politica sociale", ove pubblica L'"oggettività" conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904). In questi anni appaiono anche L'etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-5) e Le sètte protestanti e lo spirito del capitalismo (1906), ove W. chiarisce la netta differenza della sua sociologia dal marxismo. Nel 1904 si reca negli USA per assistere a un Congresso di scienze sociali, dove riceve una vivida impressione del capitalismo americano. La democrazia americana gli appare soprattutto alla stregua di una misura tecnica per selezionare e favorire l'ascesa di una classe politica efficiente e preparata. Tiene una conferenza sul capitalismo e la società rurale in Germania. La sua partecipazione alla vita politica si va facendo sempre più intensa: si interessa direttamente della rivoluzione russa del 1905 e continua a criticare in alcune lettere private scritte al deputato F. Naumann, la politica del kaiser e lo pseudo-costituzionalismo tedesco. Questi sono anni di intense discussioni e dibattiti nell'ambiente universitario di Heidelberg, in cui spiccano i nomi, oltre che di Weber, di Windelband, Sombart, E. Troeltsch, G. Simmel, R. Michels, G. Lukács, K. Jaspers, F. Tönnies. W. studia psicologia del lavoro industriale, interessandosi al fatto che il capitalismo della grande industria ha cambiato il "volto spirituale del genere umano fino a renderlo quasi irriconoscibile", e pubblica Sulla psicofisica del lavoro industriale (1908). L'anno dopo pubblica un lungo saggio sulla struttura sociale delle società antiche, I rapporti agrari nell'antichità. Pubblica anche nel 1906 La situazione della democrazia borghese in Russia e L'evoluzione della Russia verso un costituzionalismo apparente, ed anche Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura. Un'eredità nel 1907 gli consente di ritirarsi dall'insegnamento e di dedicarsi completamente ai suoi studi. Nel suo salotto di Heidelberg riceve la maggior parte degli studiosi tedeschi dell'epoca: Windelband, Troeltsch, Sombart, Simmel, Michels, Tönnies, Naumann. Colllabora attivamente alla fondazione dell'"Associazione tedesca di sociologia", in un congresso della quale, nel 1910, prende netta posizione contro l'ideologia razzista. Ne uscirà nel 1912, a causa di divergenze sulla questione della neutralità assiologica (avalutatività). Assume però la direzione del "Grundriss der Sozialoekonomik"(1909), un'opera enciclopedica cui diede un decisivo contributo con il trattato di sociologia generale, Economia e società (1922, postumo). Intanto continua a occuparsi di sociologia della religione con il saggio metodologico, Alcune categorie della sociologia comprendente (1913). Nel 1909 aveva pubblicato I rapporti di produzione nell'agricoltura del mondo antico. Coerente nelle sue convinzioni imperialistiche, W. si mostra favorevole all'entrata in guerra della Germania. Allo scoppio della guerra chiede di essere richiamato come ufficiale della riserva. Sino alla fine del 1915 dirige un gruppo di ospedali militari impiantati nella regione di Heidelberg. Riprende gli studi religiosi nell'ambito dei quali prosegue la critica alla concezione materialistica della storia, Etica economica delle religioni universali (1916, su Confucianesimo e Taoismo) e Sociologia della religione (1916-17 su Induismo, Buddismo ed Ebraismo antico). Dopo aver dato inizio alla pubblicistica politica e aver fondato con Naumann, Troeltsch, Brentano e altri il "Volksbund fur Freiheit und Vaterland", si dichiarava, a causa delle difficoltà della guerra, contrario alla politica annessionistica, al bellicismo tedesco, al piano della guerra sottomarina e comincia a sostenere la pace. Auspica una riforma parlamentare nell'ambito del regime monarchico, che consentisse un'effettiva autorità al parlamento e favorisse la formazione di un'aristocrazia di capi politici volta a sostituire il regime dei "parvenus e dei dilettanti burocratici" della Germania di Guglielmo II (Wahlrecht und Demokratie in Deutschland, 1917; Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania, 1918). W. escludeva la possibilità di una rivoluzione repubblicana, che, secondo lui, avrebbe soltanto accresciuto le divisioni interne; d'altro canto riconosce la funzione progressiva dei conflitti sociali, quando fossero controllati dalle strutture burocratiche, sindacali e partitiche. Di qui il suo giudizio positivo sull'azione delle socialdemocrazie nel disciplinare le masse; ma nella misura in cui la politica socialdemocratica non coincideva con i suoi ideali imperialistici, la considerava inadatta alla guida della nazione. Dal 1916 al 1917 svolge diverse missioni ufficiose a Bruxelles, Vienna e Budapest. Moltiplica gli sforzi per convincere i dirigenti tedeschi a evitare l'estensione del conflitto, ma nello stesso tempo afferma la vocazione della Germania alla politica mondiale (imperialismo) e vede nella Russia la minaccia principale. Nel 1918 tiene un corso estivo all'Università di Vienna. In questa occasione presenta la sua sociologia della politica e della religione come una Critica positiva della concezione materialistica della storia. Dopo la proclamazione della Repubblica di Weimar, aderisce al nuovo partito democratico (di centro-sinistra borghese, aconfessionale), presentandosi candidato all'Assemblea nazionale nella circoscrizione di Francoforte, ma non viene eletto. Va precisato che W. più che un politico di professione (egli non ha mai partecipato, in posizione dirigente, alla vita politica del suo paese), è sempre stato un intellettuale: ricercatore, conferenziere, pubblicista, accademico, talvolta consigliere del sovrano, ma con poco successo. Egli è sempre rimasto insofferente a una rigorosa disciplina di partito. Si era impegnato nel partito perché riteneva che la sconfitta della Germania fosse dipesa dalla mancanze di serietà politica della classe dirigente. Soprattutto cercava un dialogo con gli studenti universitari: quelli del gruppo "Germania libera", politicamente non orientati con chiarezza, risposero con entusiasmo. I conservatori nazionalisti rifiutavano le sue critiche al regime guglielmino: in particolare W. si era rifiutato di credere alla leggenda per cui le sinistre, demoralizzando gli eserciti combattenti, avevano fatto perdere la guerra alla Germania. Ciò tuttavia non gli valse le simpatie degli studenti di sinistra. Negli anni della repubblica di Weimar, egli era passato da convinzioni parlamentaristiche a convinzioni repubblicano-presidenzialistiche e ad una concezione cesarista della direzione politica, considerata come la miglior forma di governo in una società di massa, l'unica in grado di salvare la democrazia. In questo senso esercitò un peso determinante nella commissione per la redazione della costituzione di Weimar (ad es. riuscì a far accettare: 1) l'elezione plebiscitaria del presidente della repubblica, sul modello americano, in modo da poterlo considerare investito direttamente dalla sovranità popolare; 2) il diritto d'inchiesta, garantito alle minoranze, in modo che l'opposizione avesse la possibilità non solo di controllare casi di corruzione parlamentare ma anche di partecipare ad un'azione positiva di governo, attenuando la tendenza all'assolutismo della maggioranza). Ad Heidelberg partecipò anche ad alcune riunioni del Consiglio degli operai e dei soldati, restandone impressionato positivamente; però chiese anche al governo che si reprimesse, pur senza violenza, il movimento di Liebknecht e della Luxemburg. A Monaco disapprovò la grazia concessa al conte Arco che aveva assassinato il capo della repubblica socialista bavarese, K. Eisner, ma manifestò simpatie per le idee politiche del giovane conte. Intervenne energicamente per far punire dal rettore dell'Università gli studenti nazionalisti che avevano malmenato una minoranza di studenti socialdemocratici, ma si dichiarò sempre un acceso nazionalista. Intervenne come testimone a favore nel processo contro O. Neurath e E. Toller, due rivoluzionari della repubblica comunista bavarese, ma a Monaco disse ai propri studenti che non aveva alcuna intenzione d'impegnarsi attivamente, cioè politicamente, per la trasformazione della società: al massimo era disposto a fornire una consulenza scientifica in materia di economia politica. Dopo la capitolazione della Germania, viene nominato esperto presso la delegazione tedesca a Versailles. Egli infatti si recò a Parigi con la commissione per la riparazione dei danni di guerra, collaborando alla redazione del Libro bianco tedesco, inteso a controbattere le accuse mosse alla Germania come la sola responsabile della guerra. Nel 1918 tiene all'Università di Monaco le conferenze La scienza come professione e La politica come professione, nonché le lezioni sul Significato della "avalutatività" nelle scienze sociologiche ed economiche. Il problema ch'egli cercava di risolvere era quello di definire un'equazione funzionale fra lo Stato come protagonista di una politica di potenza da un lato, e l'opportunità dall'altro di dare agli ordinamenti democratici un'ampiezza più o meno estesa. Intanto continua i lavori di completamento di Economia e società (che però resterà incompiuto), e prepara la raccolta degli Scritti di sociologia della religione (1920-21, postumo). Nel 1919 accetta una cattedra all'Università di Monaco, ove succede a Brentano. Il corso tenuto nel '19-'20 riguarda la Storia economica generale e sarà pubblicato nel '24. Le sue ultime battaglie politiche furono rivolte contro l'antisemitismo, sostenendo vivaci discussioni con gli studenti pangermanisti. Nel 1920 abbandona il partito democratico, di cui disapprovava le concessioni fatte al programma di socializzazione dei socialdemocratici. Morì nel giugno dello stesso anno, a Monaco, di febbre spagnola. L'influsso della sua sociologia su quella tedesca fu allora poco significativo, anche dopo la sua morte, poiché quella ufficiale ha sempre preferito cercare dei nessi con lo storicismo o con il positivismo metafisico. La ripresa dei temi weberiani avverrà nella Scuola di Francoforte, ma anche in Mannheim, per il quale i significati della realtà sociale hanno solo una funzione psico-sociologica, e soprattutto nel funzionalismo di T. Parsons (1902-79). In Italia il suo nome cominciò a diventare noto con la traduzione di Parlamento e governo ad opera di Croce.

LA FORMAZIONE CULTURALE
Il lavoro di Max Weber, che per alcuni aspetti sembra doversi collocare al di fuori dello storicismo come movimento filosofico, per altri rappresenta senz'ombra di dubbio il risultato più fecondo e duraturo scaturito dalla discussione delle sue problematiche. Dedicatosi prevalentemente a studi di economia e scienze sociali, soltanto negli ultimi anni della sua vita Weber si volse a considerare alcune implicazioni filosofiche dei sui lavori: tanto i suoi studi specifici quanto le sue riflessioni metodologiche si sono rivelati in seguito di grande rilievo non solo nel campo di discipline da lui professionalmente coltivate, ma anche nel dibattito filosofico contemporaneo, dall'etica alla gnoseologia e alla filosofia politica. Max Weber nacque a Erfurt nel 1864, figlio di un uomo politico, deputato del partito nazional-popolare, nella cui casa di Berlino si riunivano alcuni dei più noti esponenti della cultura tedesca. Condusse i suoi studi, secondo il costume del tempo, in diverse università (Heidelberg, Berlino,Gottinga e poi ancora Berlino); dopo l'abilitazione, insegnò a Friburgo e, dal 1895, ad Hidelberg, dove la sua casa col tempo diventerà un grande cenacolo di intellettuali,da Treeltsch a Simmel, da Jaspers a Sombart a Bloch e Lukàcs. Ma il brillante inizio della carriera accademica fu interrotto da una grave crisi nervosa, nel 1897, che costrinse Weber a lasciare l'insegnamento e le ricerche per alcuni anni. Gli studi ai quali Weber si era dedicato fino allora sono riconducibili a due filosofie principali: lo studio della storia economico-sociale del Medioevo e dell'Antichità e la ricerca sulle condizioni di vita dei contadini tedeschi a est dell'Elba, alla quale si era volto nell'ambito dell'attività del Circolo di politica sociale, della quale era membro. Egli tornò al lavoro nel 1901, rinunciando all' insegnamento universitario, e negli anni successivi furono pubblicati gli studi metodologici, i principali dei quali sono tradotti in italiano col titolo Il metodo delle scienze storico-sociali , e i famosissimi lavori sullo spirito del capitalismo e il suo rapporto con l'etica protestante. Nel 1904 diventò condirettore della rivista "Archiv fùr Sozialwissenschaft und Sozialpolitik", nella quale pubblicò la maggior parte dei suoi studi e che diventò una delle più prestigiose riviste di scienze sociali. In questi stessi anni prese forma il problema centrale ( storiografico e sociologico) di Weber, quello del processo di razionalizzazione della società moderna. Tra il 1910 e la fine della guerra mondiale attese alla composizione dei saggi e dei materiali che costituiranno le grandi opere, incompiute o pubblicate postume, sull' Etica economica delle religioni universali , su Economia e società , sulla Storia economica . Gli anni della guerra e dell'immediato dopoguerra videro Weber impegnato sul piano dell'attività politica diretta, attraverso la collaborazione alla "Frankfurter Zeitung", dove, sebbene approvasse le ragioni ideali e politiche della guerra, egli prese posizione contro la politica ufficiale del Reich, e soprattutto con la partecipazione alla commissione d'armistizio e in seguito all'elaborazione della costituzione repubblicana di Weimar. Nel 1918 ritornò all'insegnamento; morì a Monaco nel 1920. I suoi ultimi scritti di rilievo sono il saggio Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania e le due conferenze su Scienza come professione e politica come professione .

LE SCIENZE STORICO/SOCIALI
Weber è stato in principio soprattutto uno storico economico, che è andato poi progressivamente avvicinandosi alla ricerca sociologica. Il suo successivo interesse per la riflessione metodologica è avvenuto in relazione al dibattito sul metodo della scienza economica che si era sviluppato nei due ultimi decenni del 1800, soprattutto fra marginalisti ed esponenti della scuola storica, tra quelli che sostenevano che l'economia politica ha per oggetto la regolarità del comportamento economico e coloro che la riducevano a una scienza specificatamente storica, parte di una scienza universale della società. Nei suoi primi saggi metodologici, Weber prende posizione contro i presupposti della scuola storica e contro l'eredità romantica che in essa sopravvive, soprattutto l'idea che i fenomeni storici colgano intuitivamente nella loro individualità mediante un procedimento di comprensione immediata; egli elabora le sue considerazione riguardo a questi problemi sempre da un punto di vista metodologico, cioè di ' un'autoriflessione sui mezzi che hanno trovato conferma nella prassi ' delle singole discipline, non dal punto di vista generale di una teoria della conoscenza o di una teoria filosofica della storia. Questo spiega perché, di fronte all'alternativa tra Dilthey, da un lato, e Windelband e Rickert dall'altro, tra la distinzione delle scienze storiche da quelle naturali fondata su base oggettiva e quella fondata sul metodo, Weber prende subito posizione in favore della seconda: ' né le qualità cosali della materia, né le differenze ontologiche del suo essere, né, infine, il modo del procedimento psicologico con cui si consegue una determinata conoscenza decidono del suo senso logico e dei presupposti della sua validità '. L'oggetto delle scienze storico-sociali può essere definito soltanto in relazione al loro metodo orientato verso l'individualità e in base all'analisi della loro struttura logica, escludendo quindi ogni dimensione psicologica. Se l'interesse della ricerca è rivolto alla conoscenza di regolarità secondo leggi naturali, si costituisce l'oggetto della scienza naturale; se invece è rivolto alla conoscenza della realtà individuale, si costituisce l'oggetto storico. Come per Rickert, mondo fisico e mondo storico possono entrambi diventare oggetto sia della scienza naturale sia della conoscenza storica. Ma il richiamo delle posizioni rickertiane non si ferma a questo: dall'allievo di Windelband, Weber riprende la nozione di relazione al valore, intesa come criterio di selezione del dato delle scienze storico-sociali. Il significato dell'oggetto storico deve presupporre ' la relazione dei fenomeni culturali con idee di valore ' , in quanto riguarda processi ai quali si attribuiscono da parte del ricercatore significati culturali . Il distacco di Weber dalla filosofia dei valori è, invece, fortissimo a proposito del modo d'essere dei valori: essi sono più forniti di validità incondizionata e di esistenza metastorica, ma sono i valori di una determinata cultura, adottati in rapporto allo specifico punto di vista del soggetto della ricerca. La ricerca storico-sociale ha quindi un punto di ricerca soggettivo, un particolare punto di vista che stabilisce l'oggetto e la direzione dell'indagine. Si pone, allora, il problema di individuare le condizione fondamentali che consentono alle scienze storico-sociali di condurre a risultati oggettivamente validi, pur partendo da presupposti soggettivi. E' il problema che Weber affronta nei saggi metodologici più importanti, e soprattutto in L'oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, del 1904, e Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura , del 1906. Weber indica qui due fondamentali condizioni. La prima consiste nella rigorosa esclusione dei giudizi di valore dall'ambito delle scienze storico-sociali, come del resto da qualunque altro campo del sapere. Weber distingue, infatti, la relazione del valore, che si è visto essere il criterio con cui il ricercatore individua l'oggetto della sua indagine, dal giudizio di valore, che è invece una presa di posizione valutativa, ossia l'approvazione di valori, la prescrizione di comportamenti, la difesa di scopi pratici, di posizioni politiche e così via. La ricerca sociale deve accertare quel che è, non indicare quel che dev'essere. E' possibile una critica tecnica dei valori, consiste nella considerazione del rapporto dei valori assunti come scopo dell'agire e i mezzi della loro realizzazione, oppure nell'analisi delle conseguenze che possono derivare dalla scelta di certi valori e dall'impiego di determinati mezzi. Ma giudicare della validità dei valori è per Weber ' una questione di fede, forse un compito della condizione speculativa; sicuramente non l'oggetto di una scienza empirica '.La seconda condizione consiste nel ricorso alla spiegazione causale. Le scienze storico sociali non possono mai dare una spiegazione completa ed esauriente di un avvenimento, dal momento che gli antecedenti ai quali un avvenimento può essere ricondotto sono, il linea di principio, infiniti. Ma alla ricerca storica spetta ' la spiegazione causale di quegli elementi e di quegli aspetti dell'avvenimento in questione che rivestono un significato universale da determinati punti di vista e perciò un interesse storico '. Il che può avvenire mediante la messa in relazione dell'evento o del processo storico reale con processi storici possibili costruiti concettualmente; se, eliminando o modificando un elemento della situazione, il processo possibile mostrerà un allontanamento da quello reale, allora l'elemento in questione potrà essere considerato in rapporto causale con l'evento che si intende spiegare. I giudizi di possiblità oggettiva ( così Weber definisce i procedimenti di imputazione causale di questo tipo ) mettono capo ad un tipo di spiegazione condizionale, che nega il postualto positivistico ( peraltro valido per le scienze naturali ) del legame tra causalità e necessità. Essi portano alla scoperta delle condizioni che favoriscono (e del grado in cui le favoriscono) o che impediscono il verificarsi di un determinato avvenimento. Tutto questo implica il riferimento a regole dell'esperienza, sulla cui base costruire una conseguenza di avvenimenti che non è data empiricamente, e a concetti generali che hanno il carattere di tipi ideali. Regole e concetti costituiscono quel che Weber definisce sapere nomologico : per la scienza naturale essi rappresentano lo scopo della ricerca, nella conoscenza storico-sociale essi assolvono a una funzione strumentale. Il che comporta la differenza che le unità di comportamento constatate nelle leggi sociali non sono leggi vere e proprie, ma costruzioni concettuali che nella nostra che nella loro purezza ideale si trovano raramente, e a volte mai, ma che, d'altra parte, sono l'unico mezzo per costruire rappresentazioni della realtà empirica. Un' altra conseguenza consiste nel riconoscimento che la ricerca storica, di per sé volta all' individualità, deve servirsi a scopo euristico delle scienze sociali astratte. In seguito, lo studio delle regolarità dell'agire umano arriverà a rappresentare uno scopo autonomo della ricerca storico-sociale, lo scopo della sociologia.
IL CAPITALISMO
La problematica della natura e dell'origine del capitalismo era largamente dibattuto nella cultura tedesca degli ultimi anni dell'Ottocento e dell'inizio del Novecento, soprattutto a partire da Marx. Erano infatti da poco stati pubblicati da Engels il secondo e il terzo libro del Capitale di Marx, e le teorie marxiane cominciavano ad essere accettate o almeno prese in considerazione da economisti e storici, sia che le si volesse confutare, sia che le si volessero avvalorare. Uno dei primi studiosi ad aver considerato come opera scientifica valida il Capitale fu Werner Sombart, coodirettore con Weber dell' Archiv fur Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, ed del libro Il capitalismo moderno, in cui presentava il capitalismo moderno come il risultato della combinazione della tendenza al maggior guadagno possibile con un orientamento razionale nell'agire. Weber a sua volta giungeva all'analisi del capitalismo moderno dall'analisi del capitalismo antico, che era stato oggetto dei suoi studi di economia politica. Anch'egli come Sombart, riconosceva il carattere del capitalismo moderno nel razionalismo economico, concepito come l'aspetto economico di un più generale processo di razionalizzazione, che comportava l'organizzazione razionale dell'impresa, la tendenza razionale al profitto sulla base del calcolo del capitale, la redazione di bilanci preventivi e consuntivi, la separazione tra impresa e amministrazione domestica, l'impiego del lavoro formalmente libero, l'esistenza di un libero mercato. Ma accanto a questi elementi, egli indicava un aspetto che, dal punto di vista marxiano, si direbbe sovrastrutturale, lo spirito del capitalismo , ovvero una specifica mentalità economica che, secondo Weber, affonda le sue radici nel terreno della religione. Il problema di Weber è quello di spiegare ' il particolare carattere del capitalismo occidentale e, in seno a questo, di quello moderno, e le sue origini '. Non era nuova l'osservazione, anzi la constatazione, del più avanzato grado di sviluppo economico e civile in generale della società in cui si erano diffuse le confessioni riformate. Weber ne trae spunto per impostare la usa nuova tesi del rapporto tra la mentalità capitalistica e l'etica economica del protestantesimo ascetico, cioè del calvinismo e delle sette anabattistiche e puritane. Il credente di queste confessioni, convinto che la sua salvezza o la sua dannazione siano decretate da Dio e dall'eternità e non dipendono dalle sue opere, cerca una conferma della grazia divina, e la trova nel successo economico. Il compimento del proprio volere nel mondo è voluto da Dio ad accrescimento della sua gloria nella sua rinascita è un segno dell'elezione divina. Si caricano, quindi, di significato religioso i caratteri dell'operosità, dello zelo, della coscienza rigorosa e severa, che si traducono nella concezione della professione come vocazione e in una condotta di vita metodica. In seguito, il capitalismo si è spogliato di questo senso etico-religioso, ma è rimasta la tendenza al profitto, concepito come scopo a sé, ed è rimasto l'abito di una condotta metodica (razionale) di vita. Con la volontà di opporsi a Marx, Weber guarda alle cose dal punto di vista delle sovrastrutture e si domanda di qual genere di uomo (e non - come ci si aspetterebbe da Marx - di qual genere di strutture) ci fosse bisogno affinché potesse nascere il capitalismo. Egli risponde prendendo in esame i protestanti e il loro grande accumulo di ricchezze a partire al Cinquecento. Il termine chiave per capire questo accumulo è - dice Weber - il termine tedesco Beruf, che significa tanto "vocazione" quanto "lavoro", quasi come se sussistesse un’identità di professione di fede e professione lavorativa. Per i protestanti la salvezza è decretata da Dio ab aeterno (giustificazione per fede) e non la si ottiene in virtù delle proprie opere: un indizio per capire se si sarà o meno salvati è il successo professionale che si ha nel corso della vita, quasi come se, dal successo nel lavoro, si potesse avvertire il proprio essere graditi a Dio. Sicché quella che il protestante compie è un’autentica "ascesi intramondana", per cui egli è strumento di Dio nel mondo: chi lavora con dedizione per tutta la propria vita e riscuote grande successo accumulando ingenti ricchezze (e non per fini edonistici: accumula senza consumare, perché ciò è proibito dalla religione), può ritenersi salvato da Dio. Da ciò nasce secondo Weber il capitalismo: non già da particolari condizioni materiali, storiche ed economiche (come credeva Marx), bensì da idee, da sovrastrutture. Per chiarire quanto accade nel mondo protestante, ricorre all’esempio del mantello che, dapprima usato per riscaldare, finisce poi per imprigionare come una "gabbia d’acciaio"; infatti, l’accumulo di ricchezza effettuato dai protestanti finisce a lungo andare per diventare fine a se stesso e non più funzionale alla religione, ossia finisce per trasformare il mantello della religione in una gabbia che la annienta. La "razionalità rispetto al valore" si smarrisce lungo la strada e viene rimpiazzata dalla "razionalità rispetto allo scopo". La vita spesa nel lavoro diventa priva di senso e fine a se stessa: ne segue la perdita della libertà, l’accumulo domina l’uomo e lo rende superfluo. . In Sociologia delle religioni, Weber ci propone poi uno sconcertante elenco di conquiste dell’Occidente e ci chiede se siano effettivamente universali, degne di essere esportate in quanto umane e superiori; tali conquiste sono, ad esempio, la scienza e "la forza più fatale" (il capitalismo). Agli occhi di Weber, la modernità viene a configurarsi come un processo che tutto razionalizza (l’insegnamento, la politica, ecc) ma che poi, per ironia della sorte, tende a capovolgersi e a far risorgere gli antichi dei della Grecia: ciascuna delle realizzazioni della modernità, infatti, risponde solamente a sé, cosicché ciò che è buono non per questo è anche vero, ciò che è bello non per questo è anche buono, ecc. Si attua cioè un autentico frazionamento dei valori o, come lo chiama Weber, un "politeismo dei valori" di fronte al quale l’individuo può chinare il capo ad uno dei tanti dei trascurando gli altri: può così scegliere il valore della religione (conducendo una vita religiosa), oppure quello della scienza (conducendo una vita dedita alla ricerca), e così via. Ma tra i molteplici valori non v’è contatto né comunicazione: pertanto il moderno si prospetta come tragico smarrimento del senso e della libertà, come fredda "gabbia d’acciaio". Se in Marx e in Hegel vi era il "superamento" dialettico, in Weber regna invece l’accettazione, cosicché il suo si presenta come un "individualismo eroico" che accetta come destino il frazionamento dei valori. E' evidente che la teoria weberiana dell'origine dello spirito capitalistico è in contrasto con la concezione marxista , dal momento che rovescia il rapporto tra struttura economica e sovrastruttura; del resto, Weber aveva già polemizzato con la concezione materialista della storia negli scritti metodologici. Bisogna però sottolineare che l'opera di Weber non si propone neppure di sostenere un qualsivoglia primato di fattori spirituali su quelli materiali. Egli rifiuta infatti ogni pretesa di spiegazione onnicomprensiva dei fenomeni storico-sociali e ogni assolutizzazione di principi, dal momento che l'unica forma di spiegazione possibile è quella condizionale. Dalla sua ricerca egli trae la conclusione, limitata al problema del sorgere della mentalità economica razionale del capitalismo, che vi è uno stretto rapporto tra questa e l'etica economica del protestantesimo ascetico. E alla stessa conclusione giungeva per via negativa mostrando negli studi sull'etica economica delle religioni universali (confucianesimo, taoismo, induismo raccolti poi nella postuma Sociologia della religione ,come in nessun'altra civiltà che non fosse l'Occidente moderno si sia verificata una correlazione come quella che si è stabilita tra etica protestante e mentalità capitalistica.

LA SOCIOLOGIA
Nell'ultima fase della sua vita, gli interessi di Weber concentrarono sulla sociologia, con lo scopo di determinare la specificità nei confronti della ricerca storica e delle altre scienze sociali. Già nel saggio Su alcune categorie della sociologia comprendente , del 1913, Weber definiva la sociologia come lo studio dell'agire sociale, cioè di quell'agire che si riferisce all'agire di altri individui. L'oggetto della sociologia e quindi l'atteggiamento umano in quanto fornito di senso, vale a dire di un termine di riferimento e di una direzione rispetto ad esso, e in quanto mostra nel suo corso connessioni e regolarità al pari di ogni altro accadere. Si tratta di una disciplina che ha come scopo la ricerca di uniformità di comportamenti, e quindi la formulazione di generalizzazioni, e in questo si avvicina alla scienza naturale. Dalla scienza naturale però si distingue per il procedimento, che richiede il ricorso alla comprensione , dato che le connessione e le regolarità dell'atteggiamento devono essere interpretate: non sono leggi come quella della sociologia positivistica, ma uniformità espresse in forma di tipi ideali e constatabili empiricamente. Viene ripreso quindi un concetto di chiaro stampo diltheyano, ma con un significato molto diverso: la comprensione deve essere sempre controllata con la spiegazione causale. Da questo punto di vista, si precisa in modo nuovo il rapporto tra scienza sociale e ricerca storica: esse rappresentano due direzioni di ricerca autonome e tra loro complementari. La storiografia mira alla spiegazione causale di eventi individuali che rivestano un significato culturale, la sociologia ' elabora concetti di tipi e cerca regole generali dell'accadere '. La complessa (e non ultimata) costruzione di Economia e società si presenterà, allora, come lo studio sistematico dei rapporti tra i tipi di atteggiamento ( e le corrispondenti forme di relazione sociale) e le forme di organizzazione economica. Naturalmente una sociologia così intesa non può non fondarsi e non prendere le mosse da una prima generale classificazione dei tipi fondamentali di agire sociale . E' quella che troviamo, all'inizio di Economia e società , tra agire razionale rispetto allo scopo , agire affettivo e agire tradizionale. Gli ultimi due rappresentano forme di atteggiamento non razionale, i primi due forme di razionalità contrapposte. Essi sono disposti in un ordine decrescente di intellegibilità, e proprio il richiamo alla nozione di intellegibilità consente di comprendere meglio il motivo della centralità del problema della razionalità nella sociologia di Weber. Razionale, per Weber, è quel che si può comprendere in base a una relazione tra mezzi e scopo; quanto più un comportamento umano è fondato su una relazione tra mezzi e scopo, tanto più risulta comprensibile, perchè calcolabile e prevedibile. L'agire diventa intellegibile, e dunque razionale, mediante il ricorso a tipi ideali, cioè a costruzioni di modelli di comportamento rispetto ai quali l'effettivo agire sociale risulta più o meno distante. Questo non vuol dire che la spiegazione razionale sia lo scopo della sociologia, né che soltanto gli atteggiamenti razionali possano essere idoneamente compresi; essa è però l'unico strumento che permetta di spiegare e comprendere anche gli atteggiamenti irrazionali. La razionalità è un concetto riferito a comportamenti pratici. Non è conoscenza di leggi oggettive della società, né rivelazione di significati immanenti alla storia o alla natura umana; è, piuttosto la risposta alla mancanza di senso nel mondo, è disincantamento del mondo . E disincantamento del mondo può essere considerato il processo attraverso il quale la civiltà occidentale moderna si è sviluppata, dal lontano sorgere delle religioni della redenzione fino al passaggio dall'etica protestante allo spirito del capitalismo. A questo riguardo Weber introduce, nel capitolo sulle Categorie sociologiche fondamentali dell'agire economico di Economia e socialità , la distinzione tra razionalità formale e razionalità materiale che è una distinzione valida innanzi tutto nella sfera economica: la razionalità formale consiste nella calcolabilità, quella materiale riguarda l'agire economico subordinato a postulati valutativi. La distinzione coincide soltanto in parte con quella tra atteggiamento razionale rispetto allo scopo e atteggiamento razionale rispetto al valore. Quello che importa far rilevare è che essa non si limita alla sfera economica, visto che trova la sua realizzazione. Oltrechè nel capitalismo moderno, anche nelle istituzioni sociali che lo accompagnano: il diritto razionale-formale, l'amministrazione burocratica, il moderno sapere scientifico. Così si ritorna ancora al problema dell'individualità del capitalismo moderno, vero centro degli interessi di ricerca di Weber, risolto in quest'opera in termini di comparazione sociologica, ovvero attraverso l'analisi dei vari possibili modi di rapporto tra forme di organizzazione sociale e strutture economiche. Da questo centro si sviluppano, e intorno ad esso ruotano, riflessioni e teorie che sono ormai divenute formulazioni classiche, ripetutamente riprese, della sociologia contemporanea: la sociologia politica e le forme del potere legittimo, l'analisi sociologica delle religioni e delle città, del diritto e della musica e così via. Tra queste teorie riveste una particolare importanza quella dello Stato e del potere. Per Weber, la prima condizione perché un'associazione politica possa essere chiamata "Stato" è che essa possegga il monopolio della forza; da questo punto di vista, egli si inscrive nella lunga tradizione del realismo politico. La novità consiste nella rinuncia a ogni considerazione di tipo finalistico della natura dello Stato, e soprattutto nella affermazione che questa forza, di cui lo Stato detiene il monopolio, deve essere legittima. Da ciò consegue la necessità di esaminare i tipi di potere legittimo e il loro fondamento. L'influenza dell'opera di Weber è stata grandissima, soprattutto nel campo delle scienze sociali, e rivolta in molteplici direzioni. I più fecondi indirizzi della ricerca sociologica, anche quando non si pongono come sviluppi delle impostazioni weberiane, non hanno quasi mai potuto, nel nostro secolo, sottrarsi ad un confronto critico con esse. La stessa analisi dei caratteri del mondo contemporaneo, la riflessione più propriamente filosofica sulla cosiddetta "modernità", tiene largamente conto delle sue considerazioni.

ETICA DEI PRINCIPI E DELLA RESPONSABILITA'
Come abbiamo visto in precedenza, Weber si muove all’interno di una filosofia dei valori i cui presupposti sono la distinzione tra essere (Sein) e dover essere (Sollen) e il riconoscimento di una pluralità di sfere dei valori (quel “politeismo dei valori” in forza del quale nell’etica il valore è il buono, nell’estetica il bello, ecc). A differenza della scienza, che ha a che fare coi fatti, la filosofia si occupa dei valori, che però sono non un qualcosa di assoluto e immutabile (come avevano preteso Windelband e Rickert), ma piuttosto un qualcosa di mutevole e relativo (come aveva colto Dilthey). Di fronte ad un mondo che di per sé manca di significato, sta agli uomini attribuirgliene uno: proprio in forza del disincantamento del mondo (Entzauberung der Welt), il mondo si è spopolato degli dèi e delle forze magiche per diventare il puro e semplice teatro dell’agire razionale dell’uomo. Proprio perché i valori sono tanti e inconciliabili, nel chinare il capo a certi valori se ne escludono altri: in ciò consiste quella che Weber chiama “collisione” dei valori. Ma tale rapporto conflittuale sussiste anche all’interno di uno stesso ambito di valori: così, se prendiamo come esempio l’ambito estetico, gli artisti chinano il capo al valore del bello, ma lo intendono poi in maniera diversa. Così un artista si rifarà ai valori barocchi, un altro artista a quelli gotici, ecc. Tale frazionamento dei valori si riflette anche nell’etica, alla quale Weber dedica il suo importantissimo saggio Tra due leggi (1916). Il “politeismo dei valori” (espressione che Weber mutua in parte da John Stuart Mill) si declina nell’etica sotto forma del dualismo tra l’etica dei principi (Gesinnungsethik) - anche detta etica delle intenzioni o delle convinzioni - e l’etica della responsabilità (Verantwortungsethik). La prima forma di etica fa riferimento a principi assoluti, che assume a prescindere dalle conseguenze a cui essi conducono: di questo tipo sono, ad esempio, l’etica del religioso, del rivoluzionario o del sindacalista, i quali agiscono sulla base di ben precisi principi, senza porsi il problema delle conseguenze che da essi scaturiranno. Si ha invece l’etica della responsabilità in tutti i casi in cui si bada al rapporto mezzi/fini e alle conseguenze. Senza assumere princìpi assoluti, l’etica della responsabilità agisce tenendo sempre presenti le conseguenza del suo agire: è proprio guardando a tali conseguenze che essa agisce. Sicché l’etica dei principi e quella della responsabilità sono due etiche opposte e inconciliabili, che fanno capo a due diversi modi di intendere la politica, come nota Weber in Politica come professione: l’etica dei princìpi è, in definitiva, un’etica apolitica, come è testimoniato dal Cristiano che agisce seguendo i suoi principi e senza chiedersi se il suo agire possa trasformare il mondo. Al contrario, l’etica della responsabilità è indissolubilmente connessa alla politica, proprio perché non perde mai di vista (e anzi le assume come guida) le conseguenze dell’agire.

CONTRO LA FILOSOFIA DELLA STORIA
Il rifiuto della filosofia della storia da parte di Weber può essere compreso più facilmente grazie a due sue osservazioni:
1) il problema del senso del mondo è esclusivamente di tipo etico/religioso e non scientifico;
2) il progresso va inteso in senso puramente tecnico e non storico.
Nel testo "Considerazioni intermedie della sociologia della religione" (1916), Weber definisce le religioni della redenzione in base al loro bisogno di dare un senso etico alla vita umana, con l'intento di risolvere due problemi: l’esistenza della sofferenza e la distribuzione diseguale della felicità e della sofferenza. Per risolvere il primo problema, la religione si fa portatrice di premesse di salvezza, di una giustificazione in base al­la prospettiva di una redenzione nell'aldilà o nel mondo stesso (per esempio, la reincarnazione per l'induismo). Per quanto riguarda il secondo problema, invece, la religione elabora una sorta di meccanismo di compensazione etica con il compito di riportare un'eguaglianza di trattamento fra gli uomini (chi ha sofferto di più in questa vita, sarà più felice in un'altra). Si arriva cosi alla formulazione di teodicee, di giustificazioni del mondo in quanto creato da Dio; ma a prescindere dal tipo di teodicea, secondo Weber, vi è sempre una netta contrapposizione con le spiegazioni che invece ne deducono le cause in termini scientifici. Purtroppo, l'intento della religione, elevatasi dallo stadio di pura magia, di razionalizzare eticamente, ossia di dare un senso al mondo e all'esistenza umana, si è andato a scontrare ben presto con l'autonomia raggiunta dagli altri settori della vita (politica, economia. ecc.), che spesso ha dato origine a comportamenti non eticamente e rigorosamente corretti. Questa tensione si manifesta soprattutto nel rapporto fra religione e sfera intellettuale, poiché, se nella magia sussisteva ancora un legame fra gli avvenimenti naturali e la vita dell'uomo, nella religione la strada di una razionalizzazione etica, per forza di cose, si scontra con la razionalizzazione intellettuale basata sulla conoscenza: infatti, laddove esiste una conoscenza di tipo empirico razionale vi è la consapevolezza che il cambiamento del mondo è un processo esclusivamente causale, completamente slegato quindi dalle concezioni religiose, Che postulano l'esistenza di un cosmo creato e ordinato da Dio, fornito per ciò di senso etico. Il sapere scientifico non riconosce alcun senso nel mondo e nei suoi avvenimenti, si propone soltanto di spiegare questi avvenimenti, di determinare relazioni causali sotto forma di leggi. E, quasi paradossalmente, la religione, che dapprima sente il bisogno di staccarsi dalla magia per un'esigenza di razionalizzazione, ora di fronte alla razionalizzazione operata dalla scienza, appare come sapere addirittura irr­azionale o anti-razionale. Il problema del senso del mondo assolutamente improponibile in termini scientifici, è un discorso facilmente adattabile anche al processo storico. Nel saggio, metodologico "Il senso della avalutatività delle scienze economiche e sociologiche” (1917), Weber affronta il problema della nozione di progresso: si può parlare legittimamente di progresso solo nel significato tecnico del termine. Si può parlare di progresso solo nell’uso di certi mezzi per la realizzazione di fini dati e non già di progresso della storia (non si parla, ad esempio, di progresso dell'arte, ma di progresso nelle tecniche artistiche). Questa puntualizzazione del concetto di progresso può essere meglio spiegata grazie alla teoria del Politeismo dei valori: i valori e le sfere di valori non costituiscono un cosmo ordinato gerarchicamente, infatti, nell'ambito dell’agire personale orientato in senso etico, ci troviamo sempre a dover scegliere fra vari valori che fanno riferimnto o all’etica dell'intenzione o della coscienza, o all'etica della responsabilità. Di norma quindi si agisce seguendo uno di questi postulati:
.il valore in sé dell'agire etico, il puro volere o l'intenzione, in qualunque modo lo si esprima, deve bastare alla sua giustificazione, proprio secondo la massima "il cristiano agisce bene e ne rimette a Dio la conseguenza";
é indispensabile prendere in considerazione la responsabilità della conseguenza dell'agire.
Entrambi fanno riferimento a massime etiche che però sono in eterno contrasto fra di loro: da un lato il fine è considerato come assoluto, dall'altro invece è concepito in relazione ai mezzi e alle conseguenze della sua realizzazione. In questo consiste il Politeismo dei valori: tra i valori si tratta sempre non già di semplici alternative, ma di una lotta senza possibilità di conciliazione: tra di loro non è possibile alcun compromesso. Dunque è chiaro come in un mondo dominato da valori cosi contrastanti e inconciliabili si possa parlare esclusivamente di progresso tecnico, poiché non disponiamo di alcun criterio per dire che certi valori sono superiori ad altri, per sostenere che un certo modello di società costituisce qualcosa di più avanzato, o di più arretrato, rispetto ad un altro modello di società. Queste riflessioni chiariscono il motivo per cui Weber rifiuta la filosofia della storia nelle sue diverse formulazioni. Infatti, il progetto di tale filosofia è sempre stato quello di dare un senso globale al processo storico. Bene o male, ogni filosofia della storia si è sempre proposta di individuare nel processo storico o la realizzazione di un progetto divino, o il progredire dello spirito o degli spiriti del popolo, o lo sviluppo dell'umanità attraverso forme di produzione o stadi culturali via via superiori. In Weber non si trova, tuttavia, una critica sistematica della storia; vi è invece il rifiuto di una concezione della storia intesa come sviluppo dell'idea, ossia come progredire dello spirito verso gradi sempre più alti di libertà (vi è il rifiuto del cosiddetto Emanatismo hegeliano: il processo storico è considerato come l'emanazione di qualche principio infinito, di uno spirito del mondo); vi è insomma il rifiuto di una filosofia della storia che pretende di dedurre il processo storico da leggi generali (vi è una critica quindi allo hegelismo, alla concezione storica romantica, ma anche a quella del Positivismo e di Comte). In questo senso, Weber si colloca sulla scia di altri filosofi appartenenti allo Storicismo tedesco, che avevano già avanzato una critica a tali concezioni, come, ad esempio, Dilthey che, nell'opera "Le scienze dello spirito” (1883), afferma 1'impossibilità di una conoscenza del processo storico nella sua totalità. Le scienze dello spirito (psicologia, sociologia ecc.) infatti, possono conoscere soltanto aspetti particolari del processo storico: la filosofia della storia è un'eredità teologica nata con Sant’Agostino, e che entra in crisi nel momento in cui cerca di staccarsi dai suoi presupposti teologici. Ma per Dilthey è impossibile anche una scienza generale della società, così come si era proposta di essere quella positivistica di Comte. Anche Rickert si pone nella stessa ottica e propone la tesi dell'indeducibilità degli avvenimenti da leggi naturali, che inserendosi in un sistema complesso di leggi, sono incapaci di spiegare gli eventi nella loro individualità (come aveva già sostenuto Windelband). Simmel, invece, si sofferma a criticare la stessa nozione di legge storica: è possibile formulare in termini di legge solo il comportamento degli individui, che è motivato psicologicamente, ma il modo in cui tali comportamenti si combinano dando luogo a processi storici sfugge alla possibilità di essere ricondotto a leggi. Anche la metodologia weberiana delle scienze sociali ci spiega però come e perché una filosofia della storia sia impossibile in linea di principio. I processi storici sono sempre il risultato di una costruzione concettuale operata dallo storico o dallo scienziato sociale sul dato empirico. Infatti, quella che Weber chiama relazione al valore, impone una scelta personale nella selezione del dato empirico, la cui analisi, di conseguenza, non potrà mai essere universale e totale, perché dettata da parametri differenti, che portano alla formazione di varie spiegazioni e interpretazioni. Risulta assurdo, quindi, pensare di poter determinare tutte le infinite cause che partecipano al verificarsi di un avvenimento. Weber critica anche il materialismo storico di Marx come concezione generale e particolare della storia in termini di sviluppo progressivo, pur riconoscendogli il merito di aver messo in luce l’importanza. del condizionamento di processi non economici da parte di processi economici. Il processo storico in sé, tuttavia, non può essere spiegato né in termini razionali, né irrazionali, poiché la razionalità è solamente una qualificazione che può essere data a certi comportamenti in base a determinati modelli. Oltretutto, per Weber non è possibile nemmeno parlare di razionalità in senso univoco, poiché esistono due tipi diversi di comportamento razionale:
il comportamento razionale rispetto allo scopo (fondamento della razionalità materiale)
il comportamento razionale rispetto al valore (fondamento della razionalità formale)
Ma se la storia diventa razionale solo nel momento in cui può essere spiegata riconducendola a certi modelli di comportamento, viene a mancare qualsiasi fondamento di una filosofia della storia in termini universali. In Weber è comunque presente una riflessione sulla storia, sviluppata in tre nuclei teorici. Il primo è costituito dall’interpretazione del mondo moderno in chiave di razionalità formale: solamente in occidente per Weber si è raggiunto uno stadio più elevato del processo di razionalizzazione, rappresentato dal razionalismo formale in cui vi é la graduale conquista dell'autonomia da parte di ogni sfera della vita: solo nel mondo occidentale moderno infatti è nato il capitalismo come forma di razionalismo economico, guidato da quella particolare mentalità che Weber definisce Spirito del capitalismo. Il secondo nucleo teorico è rappresentato da un’analisi storico/comparativa fra i vari ambiti culturali: sulla base di un confronto fra le religioni universali e le loro rispettive etiche economiche, Weber cerca di spiegare in termini comparativi il modo con cui le grandi religioni hanno preso posizioni nei confronti del mondo economico e delle altre sfere della vita. Il terzo nucleo è rappresentato dall’analisi del presente. La visione del presente in Weber è tutt'altro che positiva: infatti, soffermandosi a considerare il suo tempo, si accorge di come l'impegno professionale sia diventato una dura necessità, una coercizione, slegato ormai dai valori puritani e calvinisti su cui si fondava, ma che ha abbandonato nel momento in cui il capitalismo moderno è divenuto un meccanismo autonomo. Quasi paradossalmente, questa razionalizzazione, invece di rendere l’uomo più libero, l'ha posto sotto il dominio delle istituzioni. A seguito di questa osservazione, Weber sfata la rassicurante utopia marxiana, secondo la quale il progressivo sviluppo avrebbe portato alla liberazione dell'uomo, generando la società comunista, senza dominio di classe.

ANTROPOLOGIA DI WEBER E DI MARX
Nella struttura della nostra società la scienza conosce due direzioni: la sociologia borghese che ha come rappresentante Max Weber e il Marxismo che ha come rappresentante Karl Marx. L'ambito in cui si muovono le loro indagini è la struttura capitalistica, punto d'incontro delle diverse problematiche dell'uomo nella sua totale umanità, ove si manifesta la contraddizione dell'ordine borghese-capitalistico. Se si vogliono comprendere le ricerche sociologiche di Marx e Weber bisogna risalire a questa idea dell'uomo, analizzato da Weber dal punto di vista di una razionalizzazione universale e inevitabile, da Marx dal punto di vista negativo di una autoalienazione universale ma che si può sovvertire. Secondo Weber è la razionalità che si manifesta nello spirito del capitalismo borghese e che domina l'arte, la scienza, la vita statale ed economica del mondo moderno, infatti nell'economia capitalistico-borghese vi è una razionalizzazione economica che allontana l'uomo da se stesso. Le imprese capitalistiche ad esempio, investono una quantità di denaro non in base ai reali bisogni dell'uomo ma calcolando, e quindi razionalizzando, una entrata di guadagno sempre maggiore arrivando così ad una razionalizzazione dell'esistenza in favore della calcolabilità. Questa razionalizzazione esiste per Weber, anche nella mentalità del lavoratore che, invece di servire una persona, preferisce dare il suo lavoro pagato ad una azienda impersonale, arrivando ad essere in questo senso affine alla mentalità dell'imprenditore che reinveste ogni profitto per rinforzare la sua azienda e non arriva mai a godere pienamente del suo guadagno. Questo lavoro per Weber è insensato, perché entrambi coltivano un concetto professionale, che oggi chiamiamo specializzazione, con cui si cerca di raggiungere, attraverso una logorante lotta per il successo, una posizione professionale ed un accumulo di guadagno. Tutto questo esiste nella società capitalistico-borghese, dove l'uomo spersonalizzato vive nel calcolo esatto avendo come fine il puro guadagno. Ma, per Weber, è proprio questa razionalità che rappresenta la libertà di fronte a tutti gli ordinamenti, istituzioni e organizzazioni della moderna società capitalistica, poiché all'interno di tale società ci si muove come individui liberi, - agire come persona libera significa infatti, agire in vista di un fine adeguando razionalmente al fine posto i mezzi dati-. In questa correlazione tra mezzo e fine, decisiva per i concetti di razionalità, viene intesa da Weber l'irrazionalità poiché tale processo di razionalizzazione della nostra vita si rovescia nell'irrazionale: il guadagno ad esempio, finalizzato ad una economia sicura è razionale, mentre il guadagno razionalizzato in virtù del guadagno è irrazionale. Questo sistema rappresenta il carattere fondamentale della vita dell'occidente e il capitalismo ne è la potenza più fatale. Questo è, per Weber, il vero problema della civiltà, cioè la razionalizzazione che tende a rovesciarsi nell'irrazionale, in quanto, a proposito del mezzo per raggiungere un fine, il proprio mezzo si autonomizza e diventa esso stesso fine. Questa perversione assume anche per Marx la forma economica di un rovesciamento universale, consistente nel fatto che, in generale, la cosa domina l'uomo. Vi è, in Marx quanto in Weber, il presupposto che il fine originario e ultimo di tutte le istituzioni è rappresentato dall'uomo che ha perso la sua identità e importanza primaria a favore di un'economia che, essendosi autonomizzata, non ha più alcun rapporto chiaro con i bisogni dell'uomo come tale. Per Weber l'uomo stesso partecipa alla realizzazione di questa “gabbia d'acciaio” in cui vive e alla quale un giorno si rassegnerà impotente, perché è impossibile arrestare lo sviluppo di tale sistema sociale e umano, infatti dobbiamo accettare la quotidianità di questo mondo così composto e all'interno di esso agire su responsabilità propria. L'individuo, inserito in questo mondo di servitù, si regge su se stesso e realizza in questo mondo e contro di esso dei fini propri. Accettando quindi l'impostazione della società borghese, Weber si trova in una posizione opposta a quella di Marx, il quale voleva invece superare tutte le contraddizioni di questa società. L'analisi critica che Marx compie è infatti una critica del mondo borghese in generale, secondo il principio dell'autoalienazione in esso. Marx paragona l'uomo della società borghese alla merce, in quanto prodotto del semplice lavoro, e l'espressione economica dell'autoalienazione è costituita dal mondo delle merci come autoestraneazione dell'uomo nella cosa. Questa estraneazione nella cosa è, per Marx, autoalienazione in quanto sono le cose stesse che finiscono col diventare la misura dell'uomo astraendolo da ciò che è in realtà. Nella società capitalistico-borghese la merce è l'espressione economica dell'autoalienazione in quanto questa non viene scambiata come prodotto secondo bisogno umano, ma perviene sul mercato come valore diventato autonomo, per giungere nelle mani del venditore, poi nelle mani del consumatore, fino al punto in cui esso, cioè il prodotto, domina l'uomo assumendo una importanza primaria. Per superare questa perversione Marx sviluppa la possibilità di un ordinamento sociale comunistico a cui corrisponde non solo la rimozione del capitalismo ma un ritorno dell'uomo da parziale a naturale. E' significativo il fatto che quanto Marx rigettava come autoalienazione del mondo umano moderno, veniva accettato da Weber come destino inevitabile. L'idea Marxista di società umana e comunistica si attua soltanto nel superamento della contraddizione borghese tra vita privata e vita pubblica in una comunità che abbracci l'intera essenza dell'uomo. Solo quando l'uomo individuale è diventato, nel suo lavoro, nella sua vita empirica, un essere collettivo, riconoscendo le proprie forze come forze sociali, soltanto allora sarà compiuta l'emancipazione umana. Secondo Marx solo con un mutamento sociale diventa possibile la realtà personale e la dissoluzione della società è affidata al proletariato come ceto particolare. Il proletario infatti, nella sua attività lavorativa disumanizzata, in quanto deve alienare se stesso come merce, ha sviluppato una coscienza critico-rivoluzionaria per emanciparsi, insieme però all'emancipazione dell'intera società. Non appena il proletariato libera se stesso si dissolve con esso la proprietà privata e l'economia capitalistico-privata, giungendo al superamento della contraddizione borghese tra esistenza privata e esistenza pubblica, in una società senza classi, dove l'uomo è semplicemente uomo, superando la sua autoalienazione. Possiamo dire che la differenza tra le concezioni del mondo e le idee dell'uomo in Marx e Weber trova riscontro nelle rispettive divergenze di interpretazione del mondo capitalistico-borghese moderno: in Weber la razionalità, in Marx l'autoalienazione.

METODOLOGIA DELLE SCIENZE STORICO-SOCIALI
Premessa generale
W. ha contribuito anzitutto alla formulazione di metodi e compiti propri della sociologia borghese. Egli ha preso le mosse criticando la "Scuola storica" tedesca dell'economia che vedeva in ogni sistema economico la manifestazione dello "spirito di un popolo" (la posizione di Savigny, che si poneva sulla scia di Hegel, era stata ereditata da Roscher, Knies e Hildebrandt). W. rivendica, in questo caso, l'autonomia logica e teoretica della scienza. Lo "spirito del popolo" non è per lui che un prodotto culturale. In secondo luogo, egli critica il materialismo storico-dialettico in quell'aspetto che pone la sovrastruttura ideologica in stretta dipendenza dalla struttura economica. Per W. questo rapporto va determinato di volta in volta, perché può anche essere rovesciato (ad es. la religione può influire sull'economia in maniera determinante, come dirà nell'Etica protestante). In terzo luogo, W. critica il neo-criticismo e lo storicismo tedesco contemporaneo, rifiutando la riduzione della sociologia a scienza ausiliaria delle scienze storiche, ovvero negando che la psicologia sia la base della sociologia (in particolare W. rifiuta l'idea che con l'intuizione si possa comprendere e rivivere l'esperienza altrui. L'ERLEBNIS di Dilthey appartiene al sentimento non alla scienza controllata). Dello storicismo W. rifiuta anche l'idea che possa esistere un oggetto storico "individuale" in sé e per sé: esso -dice W.- esiste solo nella scelta individualizzante fatta dal ricercatore all'inizio dell'indagine, nel mentre considera certi oggetti più importanti di altri. L'oggettività per W. è un criterio molto relativo: non è possibile parlare della conoscenza come di una riproduzione integrale o definitiva della realtà, in quanto va affermata la relatività dei criteri di scelta della conoscenza storica nonché l'unilateralità dell'indagine storica che delimita di volta in volta, orientandosi verso un valore o verso un altro, il proprio campo di ricerca. Il destino dello scienziato è quello di venir superato continuamente in un lavoro senza fine. Sotto questo aspetto non esistono neppure per W. delle scienze privilegiate. Infine dello storicismo rifiuta la critica al positivismo. Per W. la visione del mondo positivista è fallita perché la realtà socio-culturale in cui gli uomini vivono è sempre diversa, non deducibile da leggi generali (il positivismo invece si era trasformato in una metafisica). Però W. resta fedele al concetto positivistico di scienza, secondo cui la validità delle affermazioni scientifiche si basa non su presupposti sovraempirici ma su dati empiricamente dimostrabili (i fatti vanno separati dai desideri). La "sociologia comprendente" di W. è il tentativo di conciliare storicismo e positivismo, cioè le connessioni storico-culturali con l'esigenza di una validità empirica. In questo senso W. tiene unito ciò che la sociologia precedente teneva diviso: ricerca empirica-elaborazione teorica-interpretazione generalizzante di formazioni sociali collettive. In Germania nessun altro seppe farlo e in Francia vi riuscì solo E. Durkheim. W. in sostanza cercherà di opporsi sia a quel "realismo" che attraverso organismi collettivi (come gruppi e istituzioni) voleva rendere indipendente le leggi sociali dall'individuo, sia quell'"idealismo" che voleva porre a fondamento della propria spiegazione i cd. "valori".

Scopo e oggetto delle scienze storico-sociali
Oggetto e scopo delle scienze storico-sociali (in particolare della sociologia) è la comprensione oggettiva (in quanto "causale") dell'agire sociale (cioè dotato di senso). Queste scienze hanno il compito di descrivere e spiegare conformazioni storiche individuali e regolarità dell'agire sociale. La comprensione delle scienze storico-sociali è diversa da quella delle scienze naturali, poiché qui le regolarità osservate si possono cogliere ricorrendo a quantificazioni e misure (alla matematica), in quanto per comprendere i fenomeni vanno prima spiegati con proposizioni confermate dall'esperienza (metodo deduttivo). Viceversa, nelle altre scienze, che studiano il comportamento umano, la comprensione è più immediata/intrinseca, non nel senso che il ricercatore comprende intuitivamente determinati comportamenti (come nella psicologia diltheyana), ma nel senso che sulla base dei testi e dei documenti il significato di un comportamento soggettivo/individuale diventa immediatamente comprensibile senza che si debbano cercare ulteriori conferme per poter stabilire una regola generale. Questo perché tra soggetto e ricercatore c'è un elemento comune: la coscienza (il che implica sempre un certo margine d'insicurezza nell'interpretazione). Per W. esiste una sola scienza, perché unico è il criterio di scientificità delle diverse scienze: quello delle spiegazioni causali. Naturalmente è possibile la scientificità anche in presenza di una scelta/selezione operata dal ricercatore, relativamente ai settori d'indagine, ai fenomeni, ecc. La scientificità non sta necessariamente nell'universalità del sapere. La selezione si opera in riferimento ai valori. I quali non sono etici, né assoluti o incondizionati, né obiettivi o universali. Riferirsi ai valori per W. significa semplicemente operare una scelta tecnica fra diversi campi d'indagine, fenomeni, problemi... Si tratta, infatti, di determinare, tra gli elementi di una serie causale individuata, uno schema di rapporti che sia suscettibile di verifica/controllo. Di qui l'uso della nozione di possibilità oggettiva. Il ricercatore non emette giudizi di valore, semplicemente delimita la propria ricerca per garantirsi meglio un esito scientifico. Si potrebbe in un certo senso dire che W. ai "giudizi di valore" (che sono personali e soggettivi) preferisce l'espressione "rapporto ai valori", che implica un processo di selezione/organizzazione della realtà per ottenere una scienza oggettiva. Ad es. due soggetti storici possono esprimere giudizi di valore assai diversi sulla libertà politica: ebbene, compito del ricercatore è appunto quello di tener conto che tale libertà costituiva per quei soggetti un "valore", che le loro interpretazioni erano diverse e che l'affermazione di una invece che dell'altra ha determinato precise conseguenze. Compito del ricercatore non è dunque quello di esprimere un giudizio su questo valore o sull'interpretazione che ne davano quei soggetti. Lo storico deve evidenziare gli aspetti salienti, dominanti di un'epoca/civiltà/formazione sociale... e delinearne lo svolgimento logico. La spiegazione causale non consiste nel riconoscere un evento come necessariamente determinato dalla serie causale (altrettanto necessaria) degli eventi precedenti, ma nell'isolare, in una situazione storica determinata, un campo di possibilità, mostrando le condizioni che hanno reso possibile la decisione in favore di un'alternativa invece che di un'altra. Il significato di questa decisione può essere colto mediante il confronto con le altre possibilità/alternative (W. cita l'esempio della battaglia di Maratona, in cui si confrontavano due possibilità: la prevalenza di una cultura religiosa/teocratica e il mondo spirituale ellenico. Prevalse la seconda alternativa che, a sua volta, fu condizione di un corso di eventi di carattere universale). La sociologia deve costatare i fatti non deve esprimere giudizi di valore su queste alternative. Ovviamente accettando il fatto compie indirettamente un giudizio di valore, ma la sociologia non ha lo scopo di ritenere l'affermazione di un'alternativa come un fatto necessario, che doveva per forza accadere, essendo un'alternativa migliore dell'altra.

[Rilievi critici]
W. aveva preso da Rickert l'esigenza di selezionare, in quello che per entrambi era il caos della storia, determinati valori, ma se ne distacca quando vuole affermare una metodologia avalutativa. Paradossalmente, proprio mentre W. cercava di distinguere le scienze storico-sociali da quelle naturali, applicava il metodo di queste a quelle, limitandosi a un'analisi meramente descrittiva e lasciando alla coscienza dell'interlocutore la facoltà di esprimere giudizi di valore, che proprio per questa ragione diventano del tutto irrilevanti.

Teoria del tipo-ideale
Per essere riconosciuta oggettiva la possibilità/alternativa dev'essere fondata su fatti accertabili in base alle fonti del periodo storico in cui la possibilità s'è espressa. In secondo luogo la possibilità deve essersi espressa in modo conforme alle regole generali dell'esperienza (quelle che reggono la motivazione della condotta umana): è il cd. "sapere nomologico", che vale come criterio per l'autenticazione delle possibilità oggettive. Una semplice somma di fatti non porta con sé -dice W.- la conoscenza scientifica ("ingenuo empirismo"). Occorrono delle uniformità statistiche che corrispondano al senso intelligibile di un agire sociale. E comunque solo una parte limitata dell'illimitata quantità di fenomeni è per W. fornita di significato. W. in sostanza fa questo ragionamento: siccome l'atteggiamento altrui è definito secondo il carattere della problematicità e non della necessità (in quanto esistono sempre opzioni equivalenti che si possono scegliere), è impossibile delineare compiutamente, di questo atteggiamento, le caratteristiche, la natura, le modalità, per cui è preferibile individuare una gamma fluida di forme di atteggiamento, all'interno della quale sarà poi possibile definire una tipologia. In pratica W. enuclea, per astrazione, dei "tipi-ideali" di atteggiamento, costruiti accentuando unilateralmente uno o più punti di vista, in modo tale che ciascuno di essi presenti in forma "pura" determinate caratteristiche (di qui i concetti convenzionali di "economia cittadina" o "economia rurale", ecc., in cui non è dato riconoscere i regimi storici di produzione cui essi si riferiscono). I "tipi-ideali" non sono ipotesi sulla realtà ma devono guidare le formazioni ipotetiche in una direzione positiva. Sono punti di partenza non di arrivo, poiché il maturarsi di una scienza suppone il loro superamento. Questo quadro concettuale, pur non avendo riscontri nella realtà, può permettere al ricercatore -secondo W.- di avere un metro di paragone. E' un espediente euristico, uno strumento metodologico (i concetti "ideal-tipici" sono uniformità-limite) che si usa per misurare e comparare la realtà effettiva, controllando l'avvicinamento o la deviazione di questa al modello. W. in sostanza ha elaborato una vasta e complessa tavola sinottica comprensiva di tutte le fondamentali formazioni sociali, di ogni tempo ed epoca, disposte secondo criteri ordinatori rigorosamente definiti che le accomunano e le distinguono (le formazioni sociali per W. sono il frutto di determinati atteggiamenti: il capitalismo ad es. è frutto della razionalità connessa al profitto). In tal modo egli è convinto di poter trasformare una ricerca storica individualizzante (su un argomento specifico) in una di carattere generalizzante. Per spiegare i fatti storici -dice W.- c'è bisogno di leggi e queste vengono offerte dalla sociologia. Naturalmente il carattere sinottico del suo procedimento non vuole escludere la dimensione evoluzionistica. W. pone in ordine gerarchico i tipi-ideali di atteggiamento, disponendoli secondo un criterio di crescente razionalità: 1) il minimo di razionalità si trova nell'azione dettata dalla fedeltà a tradizioni-abitudini-costumi-credenze, 2) poi si passa all'azione determinata da un sentimento/istinto/stato d'animo; 3) poi ancora all'azione razionale rispetto a un valore (p.es. il capitano di una nave che decide di affondare con essa); 4) infine vi è l'azione razionale in rapporto a un fine (p.es. l'ingegnere che costruisce un ponte). L'azione razionale in rapporto a un fine è definita in funzione delle conoscenze dell'agente piuttosto che dell'osservatore o ricercatore. W. non dice che è oggettivamente irrazionale l'azione nella quale l'agente sceglie mezzi inadatti a causa dell'inesattezza delle sue conoscenze. La razionalità dipende dal fatto che l'agente ha concepito come adeguati i mezzi per raggiungere determinati scopi. In un certo senso per W. il fine giustifica sempre i mezzi, se chi li usa li ritiene adeguati al fine (di qui i paralleli con la politologia del Machiavelli, di cui condivideva l'idea che la politica non poteva preoccuparsi della moralità delle proprie azioni)). Viceversa, l'azione rispetto a un valore è razionale non perché l'agente consegue un fine, ma per restare fedele all'idea ch'egli si è fatto di un determinato valore (ad es. abbandonare la nave che affonda sarebbe per il capitano un'azione disonorevole, anche se di fatto è "poco pratica"). Nell'azione di valore W. ha in mente gli ideali dell'aristocrazia, nell'azione finalizzata a uno scopo ha in mente gli ideali della borghesia. Per W. infatti la società che si fonda sul tipo di atteggiamento più razionale è quella del moderno capitalismo, che è culmine e chiave di volta dell'intero complesso delle formazioni sociali. Tale razionalità è possibile solo quando si postula una realtà priva di ogni senso magico e che presupponga, sotto il profilo religioso, l'assoluta trascendenza della divinità.

[Rilievi critici]
W. è partito dall'idea che nella lotta tra opposti valori che si verifica nel mondo sia impossibile esprimere un giudizio di merito, cioè trovare un criterio dirimente, per cui ha preferito costruire artificialmente uno schema di comportamenti in cui questo o quel valore possa trovare una certa corrispondenza. W. non tiene conto del fatto che eventi singoli, individuali (come ad es. la battaglia di Maratona) non possono modificare interi processi storici: possono al massimo rallentarne la marcia, deviarli momentaneamente ma non invertirli o distruggerli completamente. Se ciò accade è perché quei processi erano già in via di dissoluzione, per cui taluni fatti singoli possono come rappresentare il "colpo di grazia". In ogni caso la comprensione della dissoluzione non può essere dedotta dalle fonti dell'epoca, poiché non è possibile comprendere un'epoca dal giudizio che quell'epoca aveva di se stessa. Risulta atresì alquanto astratto il "sapere nomologico", poiché le regole di cui W. si serve sono quelle dedotte dalla sua stessa epoca, che è quella capitalistica, ch'egli non mette mai in discussione e che anzi cerca di considerare come modello per tutte le epoche passate. W. è partito da esigenze importanti, quale ad es. quella di analizzare la formazione sociale capitalistica, ma poi è deviato nelle astrazioni della sociologia formale. Criticando Comte, nonché le idee giusnaturalistiche e contrattualistiche, W. non è risalito a Saint-Simon né a Marx, ma al kantismo. La distinzione tra scienza avalutativa e morale/politica valutativa ha infatti le sue radici nel kantismo. Alla sociologia delle "leggi", nata direttamente dall'impianto positivista da Comte a Spencer, W. sostituisce la concezione del "tipo-ideale": questo probabilmente era il massimo di scientificità possibile, nell'ambito borghese, dopo la crisi metodologica delle generalizzazioni positiviste. Significativo inoltre è il fatto che in Germania la scienza veniva fatta nelle Università, ove vigeva il principio che la politica andava lasciata ai politici. W. ha cercato di superare questo dualismo, trasformandosi in ricercatore che s'interessa di fatti politici, ma la sua posizione, in politica, è sempre rimasta intellettualistica o comunque moderata.

L'etica protestante e lo spirito del capitalismo
Secondo W. alla razionalità del mondo moderno ha contribuito in misura determinante la religione protestante, che rappresenta il disincantamento dal mondo, cioè la fine delle illusioni (i grandi fini e valori del passato per W. vengono tenuti in vita solo dalla volontà degli uomini). Lo stesso capitalismo non è che l'effetto più rilevante del protestantesimo (da notare che il marxismo sosteneva il contrario). Si badi però: il capitalismo -per W.- non è nato dal protestantesimo tout-court ma dal razionalismo, di cui il protestantesimo è stato il veicolo più potente. Il protestantesimo (soprattutto nella sua variante calvinistico-puritana) è tanto ascetico sul piano religioso (in quanto rifiuta di darsi immagini della divinità, inoltre è essenziale nei riti, ha abolito molti sacramenti considerandoli magici, ha affermato il concetto di predestinazione e di sola fide/sola gratia...), quanto pratico e attivo sul piano economico. Il protestantesimo cioè avrebbe capito che all'uomo tutto è possibile se riconosce l'assoluta trascendenza della divinità (il che, in sostanza, è una forma di ateismo). Queste caratteristiche di praticità, razionalità hanno raggiunto il massimo di espressione nel capitalismo, che si è liberato di ogni riferimento alla religione. L'origine della volontà razionale, nell'ambito della religione, W. la fa risalire alla profezia israelitica, che predicando un dio temibile e inavvicinabile rendeva vani ogni magia e ogni misticismo. I profeti chiedevano un agire razionale in nome di Jahvè. La razionalità sarebbe dunque nata dall'alienazione, dall'acuta coscienza di un netto dualismo tra uomo e dio. La razionalità è la consapevolezza che non esiste un valore nel mondo, una legge o una "totalità simpatetica" che lo regoli per il bene dell'uomo. La razionalità è il tentativo di sopravvivere dandosi degli scopi, sulla base di interessi, il più delle volte contro gli interessi degli altri, poiché nella razionalità si afferma "la lotta dell'uomo contro l'uomo". W. definisce il capitalismo come l'esistenza di imprese che hanno come scopo il massimo profitto da raggiungere attraverso l'organizzazione razionale del lavoro, profitto che, a differenza delle epoche precedenti, non viene semplicemente goduto ma reinvestito. La razionalità del capitalismo si esprime secondo W.: 1) nello sviluppo di una rigorosa scienza della natura, 2) nello sviluppo di un forte apparato statale, amministrativo e burocratico, 3) nello sviluppo di un diritto razionale-formale. In particolare per W. la crescita della burocrazia costituisce il fenomeno principale della società moderna. Né il capitalismo né il socialismo possono sfuggire alla pressione burocratica, che secondo W. può essere attenuata democratizzando la società. Tuttavia, siccome nella società burocratica l'uomo rischia di annullarsi, W. non era contrario all'idea di un "capo carismatico" che sapesse stabilire tra sé e le folle una comunicazione immediata. Per quanto riguarda il marxismo, W. non esprime un giudizio del tutto negativo: lo considera uno dei punti di vista mediante cui può essere condotta un'analisi teorica (quella che appunto evidenzia i fattori economici). Egli però considera illegittima la pretesa di fare di un unico fattore degli eventi storici (l'economia) il principio di spiegazione causale di ogni altro fattore. Le forze economiche sono troppo "cieche" per potersi porre come causa di fondo dei processi storici: le cause di fondo sono di origine culturale. La storia per W. è tutta un fenomeno culturale (come in Rickert); l'uomo è un essere solo culturale; la struttura economica capitalistica è lo "spirito" del capitalismo e lo spirito è anzitutto razionalistico. W. ha riconosciuto vero il marxismo laddove afferma che la fonte principale della moderna alienazione sta nella "lotta dell'uomo contro l'uomo", condotta principalmente per motivi economici. Tuttavia, paragonando la libera concorrenza economica al processo darwiniano di selezione naturale, egli del marxismo non ha colto il momento "positivo", che è appunto quello di non considerare tale concorrenza come un fenomeno "naturale", cioè inevitabile. W. era spaventato dalla enorme avidità della borghesia tedesca, costretta a ciò a motivo della lentezza con cui si era incamminata sulla strada del capitalismo in Europa occidentale. Tuttavia W. era anche convinto che lo Stato tedesco avesse in sé forze sufficienti per tenere sotto controllo questo nuovo fenomeno. Secondo lui anzi doveva essere proprio l'imperialismo a far sì che l'idea di "nazione" sopravvivesse agli sconvolgimenti causati dalla libera concorrenza. La storia, la realtà sociale ha senso solo in quanto è l'uomo a dargliene uno consapevolmente. Ciò che conta non è ciò che l'uomo fa ma il modo in cui l'uomo considera ciò che fa. Oggetto della storia sono i comportamenti intenzionali degli uomini. L'oggettività sta nella volontà con cui si persegue uno scopo. La scienza può diventare scelta o atto di vita se si immedesima negli stessi fini, altrimenti è pura riflessione (astratta) su questi medesimi fini.

[Rilievi critici]
Manca completamente nella definizione di capitalismo il lato negativo e irrazionale di questo sistema, e cioè lo sfruttamento dell'uomo-proprietario dei mezzi produttivi sull'uomo-proprietario solo della propria forza-lavoro. Inoltre il marxismo non esclude l'influenza della sovrastruttura sulla struttura: afferma soltanto che in ultima istanza è la struttura che determina la sovrastruttura e che in ogni caso è nell'ambito della sovrastruttura che si prende consapevolezza delle contraddizioni della struttura e si organizza politicamente un modo (la rivoluzione) per superarle.

L'avalutatività delle scienze storico-sociali
W. ha cercato di fondare l'autonomia delle scienze culturali sulla base del concetto di "avalutatività". Egli afferma che queste scienze, come quelle naturali, si basano sulla spiegazione causale per descrivere i fenomeni. Ora egli specifica che il riferimento al valore (da non confondersi col "giudizio di valore", mai ammesso da W.), una volta costituito l'oggetto dell'indagine scientifica, deve sparire nella costruzione dell'edificio logico-concettuale, in modo che tutte le operazioni necessarie alla costruzione scientifica possano essere controllate da chiunque. "Descrizione" si oppone a "valutazione". La considerazione scientifica concerne la tecnica dei mezzi non la valutazione degli scopi. W. non nega l'importanza della valutazione, dice soltanto ch'essa, essendo una presa di posizione pratica, esce fuori dal compito descrittivo della scienza: "quando ciò che vale normativamente diventa oggetto di un'indagine empirica, perde, come oggetto, il carattere normativo: viene considerato come esistente non come valido". W. in sostanza rinuncia a una fondazione scientifica dell'atteggiamento etico o politico. Egli non ha mai cercato di trovare una legittimazione alle azioni etico-politiche, ma si è limitato a chiarire in che misura è possibile verificare se certe asserzioni scientifiche sono vere o false, se cioè esistono dei presupposti verificabili. W. afferma la relatività dei valori, che sono assoluti sono nell'epoca in cui sono stati vissuti. Non esiste tribunale -egli afferma- che possa decidere del valore relativo della cultura tedesca e della cultura francese. Ogni universo di valori comporta un senso proprio e obbedisce a proprie leggi. E' impossibile presentare in termini scientifici un atteggiamento pratico, "tranne il caso della discussione sui mezzi per uno scopo che si presuppone già dato". Relativamente alla scelta di un valore/fine/scopo il destino è superiore alla scienza. Le ipotesi sovraempiriche (vedi ad es. Rickert) in W. non sono mai valori validi assolutamente (o idee), ma prospettive della ricerca, in base alle quali si possono porre determinate questioni e costruire metodi, che devono trovare la loro giustificazione nelle loro stesse conseguenze pratiche non in altro. Il valore per W. sussiste solo nel momento in cui il ricercatore prova un interesse per un oggetto/problema specifico. Scienza e oggetti conoscitivi infatti non sono costituiti da connessioni obiettive di cose, valori o idee, ma da connessioni di interessi e problemi di ricerca.

[Rilievi critici]
Nessuna ricerca scientifica è avalutativa. La scelta stessa di un determinato oggetto su cui indagare o di porre un determinato problema esige una valutazione. Non si garantisce la scientificità della scienza separandola dall'etica o dalla politica: la scienza che insegna come agire -dice W.- è una "fede": sì, ma esattamente come quella che pretende di non insegnare alcunché. La differenza sta nel fatto che sulla ragionevolezza dei criteri della prima scienza è sempre importante discutere, poiché essi riguardano la prassi. W. ha detto che "la verità scientifica vuole essere valida solo per coloro che vogliono la verità". Ma coloro che dicono di volere la verità potrebbero anche arrivare a credere in una verità non scientifica. W. dà per scontato che la conoscenza della verità sia possibile solo attraverso un atteggiamento onesto. E' vero che l'oggettività della verità non implica di per sé la sua accettabilità, ma tale accettabilità non aumenta facendo dipendere l'oggettività dalla soggettività del ricercatore e dell'interlocutore cui quello si rivolge. Una scienza di tal genere non è molto diversa dalla religione: nel migliore dei casi si tratta di una mera tecnica che chiunque può utilizzare per scopi diversissimi. Da questo punto di vista (che è squisitamente kantiano, in quanto si afferma il conoscere per il conoscere) sarebbe interessante esaminare il nesso esistente tra la razionalità avalutativa affermata in campo scientifico e la conseguenza irrazionale sul piano politico che tale affermazione più o meno direttamente può comportare. W. ha sempre sottovalutato il fatto che nella moderna alienazione della società capitalistica la razionalità può facilmente trasformarsi in irrazionalità. Al massimo si può accettare, di W., l'esigenza di tenere distinti il riconoscibile (da tutti) dal desiderabile (per il ricercatore), onde permettere un sapere verificabile intersoggettivamente. W. riflette l'esigenza di una borghesia emergente che non vuole confrontarsi politicamente sul problema dei valori, essendo convinta di non avere le forze sufficienti per farlo. Egli rappresenta una borghesia che vuole convivere con i valori tradizionali (aristocratico-feudali) in cui però non crede più e dai quali si difende mostrando il non-senso dell'esistenza umana. Per W. non ci sono leggi storiche: l'autore dell'azione è sempre e solo l'individuo, mentre il mondo non è che un immenso e caotico flusso di eventi, un'incessante lotta per la vita in cui l'uomo accetta la socializzazione solo per meglio sopravvivere. W. è ostile ai valori tradizionali (vuoti di contenuto in quanto non rispondenti alla realtà) in nome della libertà d'iniziativa del singolo borghese. Ciò che "deve essere" non è più un valore che può essere riconosciuto da tutti con ovvietà; esso anzi è divenuto problema della scelta/decisione individuale, del cui peso non si può essere alleggeriti dalla scienza, il cui compito non è l'apologia di valori/azioni ma la conoscenza di situazioni. Il carattere scientifico dev'essere motivato in modo strettamente soggettivo, in base alle scelte compiute, senza riferimenti a idee sovratemporali. La borghesia tedesca non era rivoluzionaria come quella francese: essa voleva soltanto affermare che nella società civile vi possono essere diverse alternative per l'uomo che deve scegliere. Questa borghesia vuole vincere sul terreno speculativo (filosofico-scientifico non filosofico-metafisico) la propria battaglia contro l'aristocrazia.

Osservazioni sulle concezioni politiche di Weber
W. scrisse poco sulla lotta tra gli Stati, sulle nazioni e sugli imperi, sulle relazioni tra cultura e potenza. Praticamente egli accettò il nazionalismo della Germania guglielmina per pura tradizione, cioè senza mai metterlo in discussione. L'altro aspetto che gli sembrava del tutto naturale, cioè assolutamente immodificabile (e in questo egli si era lasciato influenzare dalla visione darwiniana della realtà sociale) era la lotta tra le classi (e gli individui) per il potere. W. aveva saputo cogliere l'asprezza delle contraddizioni dell'epoca borghese nel suo stadio di capitalismo-monopolistico e imperialistico, ma si era fermano semplicemente a contemplarla. Ai suoi occhi un popolo o un individuo privi di "volontà di potenza" (e in ciò egli si avvicinava a Nietzsche) si trovano automaticamente fuori della politica. Egli infatti disse che "soltanto i popoli superiori [il primo dei quali ovviamente era quello tedesco] hanno la vocazione di dare una spinta allo sviluppo del mondo". La superiorità dei tedeschi, in questo senso, si manifestava -secondo W.- nella "cultura": "Prestigio culturale e prestigio di potenza sono strettamente congiunti, ogni guerra vittoriosa promuove il prestigio culturale...". W. avvertiva questa caratteristica dell'epoca moderna con un senso di attrazione/repulsione: era convinto che sulla base di essa la persona umana o la nazione potesse esprimere il meglio di sé, ma nel contempo si rendeva conto del pericolo opposto, quello di affermare i lati peggiori delle cose. Tant'è che ad un certo punto arrivò a sostenere che i veri valori possono realizzarsi in nazioni prive di "potenza politica", cioè in comunità che rinunciano a fare politica tout-court. In questo senso W. non è mai giunto a sostenere delle posizioni nichiliste o irrazionali, ma non poche sue tesi vi conducono. Di qui i lati contraddittori di certe sue prese di posizione: si oppose all'idea di un accordo di compromesso con la Francia a proposito della Lorena e considerò ridicola l'idea di un plebiscito in Alsazia, eppure fece di tutto per convincere la Francia a coalizzarsi con la Germania contro la Russia; non voleva assolutamente l'assorbimento nel Reich delle popolazioni non-tedesche o di quelle ostili, ma ha sempre rifiutato l'idea di suddividere l'Europa centrale in Stati nazionali che comprendessero minoranze nazionali; avendo stabilito che la Russia era il nemico principale del Reich, raccomandò a più riprese, nel 1914-18, una politica tedesca favorevole alla Polonia, la quale avrebbe potuto fare da cuscinetto all'imperialismo panslavo, eppure non ha mai voluto ammettere l'idea di riconoscere piena indipendenza allo Stato polacco (il massimo che fece fu di smettere di protestare contro l'immigrazione in Germania dei lavoratori polacchi e abbandonò completamente le antiche idee di colonizzazione tedesca verso est). Alla lotta interna fra le classi e gli individui, W. ha sempre preferito la lotta esterna fra le nazioni, in quanto ha sempre sostenuto il primato della politica estera e l'obiettivo di fare di una Germania unita e forte una nazione capace di "politica mondiale". In tal senso W. ha sempre cercato di combinare il parlamentarismo con il nazionalismo imperialistico, anche in funzione anti-nobiliare e anti-monarchica: egli non ha mai risparmiato le critiche alla Germania guglielmina e all'autorità patriarcale degli junkers. Non a caso considerava i funzionari dei di governo dell'imperatore dei burocrati privi di senso della lotta politica. W. ha sempre contestato la politica di potenza che si presentava in maniera superficiale, senza professionalità e competenza, il che implica rischio, morale della convinzione (quella di chi obbedisce agli imperativi della propria fede, quali ne siano le conseguenze) e soprattutto etica della responsabilità (quella con cui si accetta la realtà con le sue regole dure e spietate, che spesso portano a drammi e tragedie). W. non è mai stato un politico "puro" della borghesia, ma solo un suo intellettuale, che il più delle volte è insofferente ai compromessi del potere, alla logica delle "correnti".

LA SOCIOLOGIA DELLA RELIGIONE
Può destare sorpresa che, nella Premessa - scritta nel 1920, cioè poco prima della morte - alla monumentale Sociologia della religione, Weber dichiari esplicitamente la propria relativa incompetenza in tema di religioni non cristiane. Egli riconosce di aver utilizzato delle traduzioni, non essendo in grado né di leggere direttamente i testi religiosi indiani e cinesi, né di "valutarli in modo autonomo" (p. 16). Solo per ciò che riguarda la sezione ebraica afferma di aver potuto avvalersi di una sommaria conoscenza della lingua. Ne consegue che questi scritti sono da intendersi come assolutamente provvisori e destinati a essere superati quanto prima da indagini più approfondite. L'A. si augura che "il sinologo, l'indologo, il semitista, l'egittologo" non vi trovino "nulla di essenziale per il tema che dovesse venir giudicato errato dal punto di vista dei fatti" (ibid.). Come si spiega il fatto che uno studioso così scrupoloso e altrimenti avverso a ogni forma di dilettantismo ("Il dilettantismo come principio della scienza ne segnerebbe la fine. Chi vuole la 'visione' vada al cinematografo", ibid.) si sia cimentato in un'impresa così rischiosa? Il motivo è chiaramente spiegato dallo stesso Weber: "Essi sono stati scritti soltanto perché, come si può comprendere, finora non esistevano analisi specialistiche condotte con questo fine particolare e da questi particolari punti di vista" (ibid.). In primo luogo, dunque, si tratta di colmare una lacuna, sia pure in modo provvisorio; in secondo luogo, ciò che l'A. si propone è verificare una tesi non attinente in senso stretto alla sociologia della religione: la specificità del razionalismo occidentale e del modo di produzione capitalistico. Certo, se si usa il termine capitalismo in senso generico, tratti riconducibili a questo modello sono riconoscibili in epoche e in ambiti geografici assai diversi, anche nell'antichità e in Oriente. Ma se con questo termine s'intende "l'organizzazione capitalistico-razionale del lavoro (formalmente) libero", connessa con "la separazione tra economia domestica e impresa" e con "la tenuta razionale dei libri" (p. 11), bisogna concludere che si tratta di un fenomeno temporalmente e geograficamente assai circoscritto: un fenomeno specificamente occidentale e moderno. Solo l'Occidente - secondo Weber - ha conosciuto quel processo di razionalizzazione che ha dato luogo allo Stato ("Lo 'Stato' stesso, nel senso di un'istituzione politica con una 'costituzione' razionalmente statuita, con un diritto razionalmente statuito e con un'amministrazione affidata a funzionari specializzati (...) è noto in questa combinazione essenziale di elementi decisivi (...) solamente in occidente", p. 7) e al modo di produzione capitalistico, inteso come la "forza più fatale della nostra vita moderna" (ibid.). L'opera si apre con i due saggi più vecchi, vale a dire L'etica protestante e lo spirito del capitalismo e Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo, pubblicati per la prima volta fra il 1904 e il 1906. Qui Weber avanza la celeberrima tesi secondo la quale il tratto specifico dell'occidente capitalistico sarebbe da ricondurre all'influenza esercitata dall'etica calvinista. Differenziandosi da Werner Sombart, il quale riteneva che un ruolo decisivo nella nascita del capitalismo moderno fosse stato svolto dagli ebrei, l'A. individua tale elemento nella religiosità propria del calvinismo, "intento - come scrive Pietro Rossi nell'Introduzione - a cercare 'nel mondo', cioè nell'attività economica, il presagio del destino nell'aldilà" (p. X). Non si tratta però di una derivazione di tipo meccanico: così come rifiuta il materialismo storico, inteso come rapporto immediato fra struttura e sovrastruttura, allo stesso modo Weber rifiuta di dedurre tout court il capitalismo dalla sfera religiosa: "Non può naturalmente essere nostra intenzione sostituire ad un'interpretazione causale della civiltà e della storia in senso unilateralmente 'materialistico' un'altra interpretazione altrettanto unilateralmente 'spiritualistica'. Entrambe sono parimenti possibili, ma con l'una e con l'altra si serve altrettanto poco la verità storica, qualora essa pretenda di costituire non già un lavoro preparatorio, ma una conclusione dell'indagine" (pp. 186-187). Il meccanismo di imputazione causale di un fenomeno storico, insomma, appare all'A. complesso e non univoco. Per ciò che riguarda il capitalismo e il razionalismo occidentale, se non si devono trascurare "le condizioni economiche, data la fondamentale importanza dell'economia" (p. 15), occorre tenere nella massima considerazione anche la mentalità religiosa. Le ricerche di sociologia dedicate alle religioni non cristiane servono allora a confermare e completare le tesi avanzate ne L'etica e ne Le sette. Per questo motivo, l'interesse che muove Weber in questa direzione di ricerca "non si può qualificare come propriamente religioso" (p.X): infatti, "se in un determinato ambito storico la religione si è rivelata la premessa indispensabile della specifica mentalità del capitalismo moderno, è lecito presumere che altrove essa abbia esercitato una funzione analoga oppure, al contrario, abbia impedito l'affermarsi di forme di economia capitalistica" (p. XV). Se la prima parte dell'opera raccoglie le ricerche dedicate all'etica calvinista, le parti successive raccolgono gli studi dedicati rispettivamente all'etica economica del confucianesimo e del taoismo, dell'induismo e del buddismo e infine del giudaismo antico. Il confucianesimo è caratterizzato dalla presenza di un esteso e articolato apparato burocratico che si fa portatore di un'etica 'conformista', tendente a confermare e perpetuare l'assetto esistente. Nell'induismo abbiamo la presenza di un ceto sacerdotale inserito in posizione di privilegio all'interno di un rigido sistema di caste. Analogamente alla burocrazia confuciana, anche tale ceto è interessato a promuovere un'etica economica di stampo conservatore. Nel giudaismo antico, il ceto intellettual-religioso più rilevante è invece quello dei profeti: per arginare la diaspora del popolo ebraico, si fanno promotori di un'etica religiosa incentrata sulla nozione di redenzione in grado di garantirne e perpetuarne l'unità spirituale anche lontano dalla terra promessa. Se dunque induismo e confucianesimo sembrano assolvere a una funzione giustificativa nei confronti dell'assetto esistente, sia dal punto di vista sociale che economico, il giudaismo antico prefigura invece una trasformazione, almeno nei termini dell'annunciata redenzione del popolo ebraico. Ma è con il cristianesimo che si realizza una decisa rottura nei confronti dell'assetto economico e politico esistente. Essa, scrive Rossi, "ha condotto al rifiuto delle forme tradizionali di attività economica, giungendo nel Protestantesimo ascetico a concepire la ricerca del profitto come la ricerca del segno dell''elezione' divina e quindi di una promessa di salvezza eterna" (ibid.). Si legge infatti ne L'etica: "Fin dove arrivò la potenza della concezione puritana della vita, essa favorì in ogni circostanza (...) la tendenza ad una condotta di vita borghese, economicamente razionale. Essa fu il suo sostegno essenziale e soprattutto l'unico sostegno coerente. Essa fu all'origine dell''uomo economico' moderno" (p. 177). Naturalmente, nel momento in cui questi movimenti nacquero, non esercitarono subito un'influenza positiva sull'elemento economico: all'inizio era troppo forte la spinta strettamente religiosa. Quell'influenza cominciò a manifestarsi poco alla volta, man mano che l'iniziale entusiasmo andava scemando e trasformandosi, per così dire, in energia intramondana: "Quei potenti movimenti religiosi (...) dispiegarono la loro piena influenza economica soltanto dopo che era già stata superata l'acme dell'entusiasmo puramente religioso, quando lo spasimo della ricerca del regno di Dio cominciava a risolversi gradatamente nella sobria virtù professionale, quando la radice religiosa si inaridiva lentamente facendo posto all'utilitarismo dell'aldiquà" (p. 179). Si tratta di uno snodo essenziale, perché rivela come per l'A. la connessione fra religione ed economia non sia affatto pacifica, ma costituisca un campo di tensioni destinate nel tempo a radicalizzarsi sempre più. Su questo punto converrà rifarsi alla Zwischenbetrachtung e alle ultime, ispirate pagine de L'etica. Nella cosiddetta Zwischenbetrachtung, ovvero nell'Intermezzo: Teoria dei gradi e delle direzioni del rifiuto religioso del mondo, Weber prende in esame il rapporto di tensione che si istituisce fra le religioni, in particolare quelle basate sull'idea di salvazione, e la sfera dell'agire profano. Particolarmente significativa è l'analisi della tensione fra religione e conoscenza. Da un lato, la religione appare come un importante strumento di razionalizzazione del mondo (si pensi a questo proposito al ruolo, evidenziato in Economia e società [Tübingen 1922; trad. it. Milano 1961], svolto dall'istituzione Chiesa nel processo di formazione dello stato moderno); dall'altro, quanto più l'occidente dispiega la propria razionalità, tanto più si emancipa dalla sfera religiosa e dalle spiegazioni della realtà fondate su un principio trascendente. È il cosiddetto 'disincantamento del mondo'. Tale processo dà luogo, per usare le parole di Julien Freund, "a una tecnica puramente meccanica e a una conoscenza razionale dei problemi, di modo che la religione si trova sempre più relegata fra le forze irrazionali e antirazionali che esigono il 'sacrificio dell'intelletto'" (Sociologia di Max Weber (1966), trad.it., Milano 1968, p. 187). Se lo stato moderno eredita per molti versi la razionalità giuridica della Chiesa cattolica, se il capitalismo è debitore nei confronti dello spirito calvinista, tuttavia il processo di sviluppo dell'occidente sembra volgersi infine contro ciò che l'ha generato. L'A. esprime questo concetto nelle ultime pagine de L'etica attraverso la famosa metafora della gabbia d'acciaio: "Quando infatti l'ascesi fu trasferita dalle celle dei monaci alla vita professionale e cominciò a dominare l'eticità intra-mondana, essa cooperò per la sua parte all'edificazione di quel possente cosmo dell'ordinamento economico moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica, che oggi determina con stravolgente forza coercitiva (...) lo stile di vita di tutti gli individui nati in questo ingranaggio, e non soltanto quelli direttamente attivi nell'acquisizione economica. Secondo l'opinione di Richard Baxter, la cura per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle dei suoi santi soltanto come un 'sottile mantello che si possa gettare via in ogni momento'. Ma il destino fece del mantello una gabbia d'acciaio. Mentre l'ascesi intraprendeva lo sforzo di trasformare il mondo e di esercitare la sua influenza nel mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistavano un potere crescente e, alla fine, ineluttabile sull'uomo, come mai prima nella storia. Oggi il suo spirito - chissà se per sempre - è fuggito da questa gabbia" (p. 185). In queste righe si avverte la tipica polarità che anima lo sforzo intellettuale di Weber e che tanto contribuisce alla sua forza fascinatrice. Da un lato, si rivolge al proprio oggetto di studio con lo sguardo oggettivo e disincantato di chi analizza, secondo le parole di Bobbio, "un processo ormai compiuto" ("La teoria dello Stato e del potere", in P. Rossi (a cura di), Max Weber e l'analisi del mondo moderno, Torino 1981, p. 243). Dall'altro, appare emotivamente coinvolto - e dunque politicamente partecipe - dinanzi ai rischi connessi a questo processo apparentemente inarrestabile di tecnicizzazione impersonale. Come è stato giustamente osservato, la riflessione weberiana, "lungi dal risolversi in una pacata rassegna delle tappe trascorse e in una fatalistica rassegnazione all'ineluttabilità del destino, è attraversata sino alla fine da una drammaticità derivante dall'acuta intuizione che gli esiti del processo di razionalizzazione non sono né pacifici né scontati" (G. Marramao, Potere e secolarizzazione, Roma 1983, p. 96).

LA RAZIONALITA'
Secondo Max Weber, l’Occidente ha avuto uno sviluppo diverso rispetto a quello di ogni altra cultura al mondo: ciò in virtù del fatto che soltanto in Occidente il processo di razionalizzazione è progredito a tal punto da investire globalmente i sistemi di credenze, le strutture familiari, gli ordinamenti giuridici, politici ed economici, la scienza e addirittura le attività artistiche. Anche altrove la razionalizzazione ha avuto la sua importanza, ma mai come in Occidente: infatti – nota Weber – nei Paesi non occidentali essa non si è mai spinta ad inglobare ogni credenza e perfino l’attività artistica. Weber si interroga dunque su questo “sviluppo singolare” (Sonderentwicklung) e addiviene alla conclusione che esso è dovuto precipuamente al fatto che solamente in Occidente si è sviluppato un sistema di credenze che, ponendo il sacro (e quindi la divinità) su un piano assolutamente trascendentale rispetto al mondo terreno, ha consentito di guardare alla realtà naturale e umana come ad una realtà oggettiva, priva di significati magici e, pertanto, manipolabile - senza restrizioni - dalla volontà umana. L’ordine sociale, liberato dalla sacralità della tradizione, ha potuto così subire un processo di radicale trasformazione nella direzione della modernità e, all’interno di tal processo, un ruolo di primaria importanza è stato svolto dalla scienza (qui si innesta poi la distinzione weberiana “tra scienze naturali”, le quali spiegano, e “scienze sociali”, le quali, oltre a spiegare, comprendono). Il processo di razionalizzazione comporta una sempre crescente ed estesa razionalizzazione del mondo e dell’uomo che lo abita: l’uomo occidentale è, dunque, un uomo razionale, non già nel senso che tutto ciò che fa è razionale, ma piuttosto nel senso che egli può agire razionalmente e in ciò risiede la differenza tra uomo e natura: in natura ogni cosa pare avere un senso, così la pioggia ha senso se riferita al raccolto, ecc; ma se consideriamo in maniera a sé stante ogni singolo fenomeno naturale, ci accorgiamo che ciascuno di essi, di per sé, non ha senso (che senso ha, di per sé, la pioggia?); diverso è il caso delle azioni umane, che anche di per sé prese hanno un senso. A tal proposito, Weber suddivide (in Economia e società, cap.I) l’agire razionale in quattro diverse categorie:
1] “agire razionale rispetto allo scopo”: un’azione si dice razionale rispetto allo scopo se chi la compie valuta razionalmente i mezzi rispetto agli scopi che si prefigge, considera gli scopi in rapporto alle conseguenze che potrebbero derivarne, paragona i diversi scopi possibili e i loro rapporti;
2] “agire razionale rispetto al valore”: un’azione si dice razionale rispetto al valore quando chi agisce compie ciò che ritiene gli sia comandato dal dovere, dalla dignità, da un precetto religioso, da una causa che reputa giusta, senza preoccuparsi delle conseguenze;
3] “agire determinato affettivamente”: l’agire determinato effettivamente si ha nel caso di azioni risolvibili in pure manifestazioni di gioia, gratitudine, vendetta, affetto o di altro stato del sentire; come le azioni razionali rispetto al valore, anche quelle determinate affettivamente hanno senso di per se stesse, senza riferimento alle possibili conseguenze; tuttavia – a differenza delle azioni razionali rispetto al valore – queste non hanno riferimento consapevole all’affermazione di un valore, trattandosi piuttosto dell’espressione di un bisogno interno;
4] “agire tradizionale”: l’agire tradizionale è semplice espressione di abitudini; è dunque una reazione abitudinaria a stimoli ricorrenti, comportamenti che si ripetono senza interrogarsi su possibilità alternative e sul loro reale valore, senza porsi il problema se vi siano o meno altre vie per raggiungere gli stessi risultati.