la locandina originale della prima rappresentazione, a Praga, del Don Giovanni di Mozart |
SØREN KIEKEGAARD
Aut-aut
Diario del seduttore
La malattia mortale
Timore e tremore
Aut-aut (1843)
Estetica ed etica nella formazione della
personalità
Ma cosa vuol dire vivere esteticamente e
cosa vuol dire vivere eticamente? Cosa è l'estetica nell'uomo, e cosa è
l'etica? A ciò risponderò: l'estetica nell'uomo è quello per cui egli
spontaneamente è quello che è; l'etica è quello per cui diventa quello che
diventa. Chi vive tutto immerso, penetrato nell'estetica, vive esteticamente.
Non è mia intenzione approfondire lo
studio di tutto quell'abbondante materiale che sta nella determinazione che ho
data dell'estetica. Pare quasi superfluo voler illuminare su cosa sia il vivere
estetico, proprio te che con tanto virtuosismo ne hai fatto pratica, son
piuttosto io che avrei bisogno del tuo aiuto. Però voglio abbozzare alcuni
stadi per giungere a poco a poco fino al punto in cui realmente è la dimora
della tua vita, il che per me è importante perché tu non possa sfuggirmi con
una delle tue predilette scappatoie. Inoltre non dubito di essere in grado di
illuminarti un poco anch'io intorno a ciò che sia il vivere estetico. Infatti,
mentre manderei chiunque desiderasse vivere esteticamente da te, come dalla
guida più fidata, non te
lo manderei se desiderasse comprendere, in
senso più elevato, cosa sia il vivere estetico, poiché su ciò non saresti in
grado di illuminarlo, proprio perché tu stesso sei in causa. Questo glielo può
spiegare solo chi sta su di un gradino più elevato, chi vive eticamente. Forse,
per un attimo, potresti sentirti tentato di mettermi in imbarazzo soggiungendo
che nemmeno io potrei dargli una spiegazione degna di fede su quel che sia il
vivere etico, perché anch'io sono in causa. Questo però mi darebbe soltanto
l'occasione di una ulteriore spiegazione. Chi vive esteticamente non può dare
della sua vita nessuna spiegazione soddisfacente, perché egli vive sempre solo
nel momento, e ha una coscienza soltanto relativa e limitata di se stesso. Non
è affatto mia intenzione negare che chi vive esteticamente, quando questa vita
è al suo massimo, può esibire una quantità di doti spirituali, anzi, che queste
devono perfino essere sviluppate in grado insolitamente intenso. Eppure
l'esteta non possiede liberamente il suo spirito, manca di limpidezza. Cosí
spesso si trovano degli animali in possesso di sensi molto più acuti, molto più
intensi dell'uomo, ma sono legati all'istinto animalesco. Vorrei prender te
come esempio.
Non ho mai negato le tue ottime doti
spirituali, come potrai vedere dal fatto che molto spesso ti ho biasimato
perché le hai usate male. Sei spiritoso, ironico, buon osservatore, dialettico,
esperto nei piaceri, sai calcolare il momento, sei, secondo le circostanze,
sentimentale o senza cuore, ma, con tutto questo, vivi sempre solo nel momento,
la tua vita si disfa in una serie incoerente di episodi senza che tu possa
spiegarla. Se uno vuole imparare l'arte di godere è giustissimo che vada da te,
ma se desidera comprendere la tua vita, non si rivolge alla persona adatta.
Forse troverà piuttosto da me quello che cerca, nonostante che io non sia
affatto in possesso delle tue doti spirituali. Tu sei imprigionato, ed è quasi
come se tu non avessi tempo di staccarti, io non sono imprigionato nel mio
giudizio né intorno all'estetica né intorno all'etica. Nell'etica infatti io mi
sollevo sopra il momento, e giungo alla libertà; ma è una contraddizione che si
possa essere imprigionati nella libertà.
Ogni uomo, per quanto poco intelligente
sia, per quanto bassa sia la sua posizione nella vita, ha un bisogno naturale
di formarsi una concezione di vita, una rappresentazione del significato della
vita e del suo scopo. Anche chi vive esteticamente fa questo, e l'espressione
comune che, in ogni tempo ed in ogni diverso stadio, si è sempre sentita, è
questa : bisogna godere la vita. Questa espressione naturalmente varia molto,
poiché le idee intorno al godimento sono varie, ma sull'espressione che si deve
godere la vita, tutti sono d'accordo. Ma chi scorge nel godimento il senso e lo
scopo della vita, sottopone sempre la sua vita a una condizione che, o sta al
di fuori dell'individuo, o è nell'individuo ma in modo da non essere posta per
opera dell'individuo stesso. Ti prego, riguardo a quest'ultimo punto, di
fissare bene in mente le espressioni, poiché sono state scelte con cura.
Ora passiamo brevemente in rassegna questi
stadi per spingerci fino a te. Tu forse sei già un po' irritato per la formula
generale colla quale ho tentato di definire la vita estetica, ma non potrai
negarne l'esattezza. Assai spesso ti ho sentito deridere la gente che non
capisce il godimento della vita, mentre invece tu credi di averlo
raffinatamente capito. È possibile che non lo capiscano, ma nella cosa
principale, nel voler godere, sono sul tuo stesso piano. Ora forse cominci a
sospettare che in questo stadio verrai a trovarti in compagnia di persone che
di solito ti sono abominevoli. Pensi forse che dovrei essere tanto galante da
considerarti un artista, il quale è su di un piano infinitamente più elevato di
quegli arruffoni che nella vita ti danno tanto fastidio e coi quali non
desideri avere in nessun modo alcunché di comune. Pertanto non ti posso
accontentare; poiché hai qualche cosa di comune con loro, e qualche cosa di
molto essenziale — e cioè la concezione di vita, e quello per cui sei diverso
da loro, ai miei occhi, è qualche cosa di non essenziale.
Non posso fare a meno di ridere di te;
ecco, mio giovane amico, questa è la maledizione che ti segue: i tuoi molti
fratelli d'arte che tu non intendi affatto riconoscere come tali. Tu corri il
pericolo di entrare a far parte di una compagnia cattiva e volgare, tu che sei
tanto aristocratico. Non nego che deve essere antipatico avere in comune la
concezione di vita con un qualsivoglia gaudente e con un cacciatore qualunque.
Non arrabbiarti, il tuo caso forse non è identico al loro, poiché tu, in un
certo senso, stai al di fuori del campo estetico.
Per quanto grandi possano essere le
differenze entro il campo estetico, pure tutti gli stadi concordano
essenzialmente nel fatto che lo spirito non è in essi determinato come spirito,
ma determinato immediatamente. Le differenze potranno essere ragguardevoli,
dalla completa mancanza di spirito fino al più alto grado di spiritualità, ma
anche nello stadio dove brilla la spiritualità, lo spirito non è determinato
come spirito, ma come dono di natura. Voglio caratterizzare ogni singolo stadio
molto brevemente, e fermarmi più a lungo solo su quanto possa in qualche modo
essere adatto a te o su ciò che desidererei ti servisse. La personalità
immediatamente determinata non è spirituale, ma fisica. Qui abbiamo una
concezione di vita che insegna che la salute è il bene più prezioso, quello
intorno al quale ruota tutto il resto. Questa concezione ha un'espressione più
poetica se si dice : la bellezza è il valore più alto. Ma la bellezza è un bene
molto labile, e perciò è raro che si veda questa concezione di vita tradotta in
realtà. Abbastanza sovente s'incontrano delle fanciulle o dei giovani che per
un breve tempo puntano sulla loro bellezza, ma ben presto essa li tradisce.
Però ricordo che una volta l'ho vista tradotta in realtà, in un caso raro e
fortunato.
Quando ero studente, frequentavo spesso,
durante le ferie, una casa di conti in provincia. Il conte, in passato, aveva
tenuto una carica diplomatica, ora, essendo più anziano, viveva agiatamente
nella quiete campestre del suo castello. La contessa, da ragazza, era stata
straordinariamente bella, ed anche da anziana era la più bella signora che io
avessi mai visto. Da giovane il conte, colla sua maschia bellezza, aveva avuto
grandi successi presso il bel sesso; alla corte si ricordava ancora il
bellissimo gentiluomo. L'età non lo aveva incurvato ed una nobile genuina
dignità aristocratica lo rendeva ancor più bello. Chi li aveva conosciuti nella
loro gioventù, assicurava che era stata la coppia più splendida che avesse mai
visto, ed io, che ebbi la fortuna di conoscerli nella loro vecchiaia, trovavo
che fosse verissimo, perché erano ancora la coppia più bella che si potesse
immaginare.
Tanto il conte quanto la contessa avevano
una fine educazione, eppure la concezione di vita della contessa si riassumeva
nel pensar che fossero la più bella coppia di tutto il paese. Ricordo ancora
benissimo un fatto che me ne accertò. Era una domenica mattina, nella chiesa situata
vicino al castello si celebrava una piccola funzione. La contessa era stata un
po' indisposta e non si arrischiava ad uscire. Il conte invece vi si recò,
vestito in tutta pompa, colla sua uniforme di gentiluomo di corte, adorna di
ordini. Le finestre della grande sala erano rivolte verso il viale che
conduceva alla chiesa. La contessa stava presso una di esse; vestiva un
elegante abito da mattina ed era veramente deliziosa. Mi ero informato della
sua salute ed avevo intavolato con lei una conversazione intorno allo sport
della vela, che sarebbe stato praticato il giorno seguente, quando il conte si
mostrò in fondo al viale. Essa tacque, divenne più bella di quanto avessi mai
visto, assunse una
espressione quasi triste — il conte si era
avvicinato tanto da vederla alla finestra — ella gli gettò un bacio con grazia
e dignità, poi si volse verso me e mi disse: « Non è vero, Guglielmo, che il
mio Ditlev è proprio l'uomo più bello di tutto il regno! A dire la verità è un
pochino curvo da una parte, ma nessuno se ne accorge quando cammino con lui, e,
quando siamo insieme, siamo ancora la coppia più bella di tutto il paese ».
Nessuna giovinetta di quindici anni avrebbe potuto essere più entusiasta del
suo fidanzato, il bel peggio di corte, di quel che lo fosse Sua Grazia per il
già attempato gentiluomo del re.
Entrambe le concezioni di vita concordano
nel fatto che bisogna godere la vita; la condizione del godimento della vita
sta nell'individuo, ma in modo che non è posta dall'individuo stesso. Andiamo
avanti. Incontriamo concezioni di vita che insegnano che bisogna godere la
vita, ma metterne la condizione al di fuori dell'individuo. Questo è il caso di
ogni concezione di vita in cui ricchezza, onori, nobiltà, ecc. vengono elevati
a compito e contenuto della vita. E rientra in questa categoria anche certo
genere di amore.
Immaginiamo una fanciulla innamorata con
tutta l'anima, i cui occhi non conoscano altra gioia che vedere l'amato, la cui
anima non abbia altro pensiero che lui, il cui cuore non abbia altro desiderio
che quello di appartenere a lui, per la quale nulla, nulla né in cielo né in
terra, abbia importanza se non lui; ecco che abbiamo, di nuovo, una concezione
di vita estetica, in cui la condizione è posta al di fuori dell'individuo
stesso. Naturalmente tu troverai che è una sciocchezza amare in questo modo,
penserai che è una cosa che si legge solo nei romanzi. Pertanto la si può
pensare, ed è certo che a molti un amore come questo appare meraviglioso. Piú
tardi ti spiegherò perché non lo approvo.
Andiamo avanti. Incontriamo una concezione
di vita che insegna che dobbiamo godere la vita, ma la condizione di questo
godimento la troviamo nell'individuo stesso, però in modo da non esser posta da
lui. Qui in generale la personalità è determinata come talento. Si ha un
talento pratico, talento mercantile, un talento matematico, un talento poetico,
un talento artistico, un talento filosofico: la soddisfazione della vita, il
godimento, è cercato nello sviluppo di questo talento. Forse non si rimarrà
fermi al talento nella sua spontaneità, lo si educherà in tutti i modi, ma la
condizione per la soddisfazione nella vita è il talento stesso, che è una
condizione che non è posta dall'individuo. Le persone che hanno questa
concezione di vita appartengono spesso a quelli che si solito sono oggetto dei
tuoi scherni costanti, a causa della loro infaticabile attività. Tu stesso
credi di vivere esteticamente ma non lo vuoi ammettere per loro. Innegabilmente
hai un'altra concezione del godimento, ma questo non è l'essenziale, essenziale
è voler godere la vita. La tua vita è assai più signorile della loro, ma la
loro è anche molto più innocente della tua.
Tutti questi tipi di concezione estetica
della vita si assomigliano anche per il fatto che danno alla vita una certa
unità, una certa coesione; tutto infatti si aggira intorno a una cosa
determinata. Essi costruiscono la loro vita su qualche cosa di particolare, e
perciò non la disperdono, come coloro che costruiscono la loro vita su ciò che
di per se stesso è molteplice. Cosi avviene in quella concezione di vita sulla
quale mi soffermerò ora un po' più a lungo. Essa insegna : godi la vita, e
spiega così il suo insegnamento : vivi il tuo desiderio. I desideri però in se
stessi sono molteplici, e così è facile capire che questa vita si frantuma in
una sconfinata molteplicità, ameno che nel singolo i desideri non siano
concentrati fin dall'infanzia in un desiderio unico, che si potrebbe piuttosto
chiamare inclinazione, propensione, ad esempio per la pesca, o per la caccia o
per l'allevamento dei cavalli, ecc.
Siccome questa concezione di vita trova il
suo soddisfacimento in una molteplicità, è facile vedere che essa sta nella
sfera della riflessione; pertanto questa riflessione è sempre solo una
riflessione finita e la personalità permane nella sua immediatezza. Nel
desiderio l'individuo è immediato, e, per quanto il piacere sia raffinato,
ricercato, studiato, l'individuo è pur sempre in esso come immediato. Chi gode
è nel momento, e per quanto molteplice sia questo godimento, egli è sempre
immediato, perché è nel momento. Pertanto vivere per soddisfare i propri
desideri è una posizione molto raffinata nella vita, e, grazie a Dio, è raro
vederla realizzata completamente, a causa delle difficoltà della vita terrena
che danno altro da pensare all'uomo. Se non fosse così, non dubito che saremmo
spessissimo testimoni di questa orribile commedia : perché, certo, si sente
molto spesso la gente lamentarsi della vita prosaica, il che, purtroppo, spesso
non significa altro se non che essi aspirano a gettarsi nella selvaggia
turbolenza in cui il piacere può precipitare l'uomo. Infatti perché questa
concezione di vita possa realizzarsi bisogna che l'individuo sia in possesso di
una quantità di condizioni esteriori, e questa fortuna, o piuttosto sfortuna, è
raro sia concessa ad un uomo : questa sfortuna, poiché è certo che questo dono
non viene dagli dei della grazia, ma dagli dei dell'ira.
È poco frequente veder tradotta in realtà
questa concezione di vita in maniera degna di nota; invece non è raro vedere
della gente che brancola un po’ e poi, quando le condizioni vengon meno, pensa
che, se le condizioni fossero state in loro potere, avrebbe certo raggiunto
quella felicità e quella gioia a cui aspirava nella vita. …
Una intelligenza pronta comprende
facilmente che tale concezione non può essere tradotta in realtà, e che perciò
non vale nemmeno la pena di fare il tentativo; un egoismo raffinato comprende
che in questo modo si viene privati del culmine del piacere. Abbiamo poi una
concezione di vita che insegna : godi la vita, e si esprime cosí : godi te
stesso; nel godimento devi godere te stesso. Questa è una riflessione più
elevata. Però essa naturalmente non penetra nella personalità stessa, che
continua a rimanere nella sua casuale immediatezza. La condizione per il
godimento è anche qui l'esteriore che non è in potere dell'individuo; infatti
benché egli, come afferma, goda se stesso, egli gode solo se stesso nel
godimento, ma questo godimento è legato a una condizione esteriore. La
differenza dunque è solo nel fatto che egli gode in modo riflesso e non
immediato. Pertanto anche questo epicureismo dipende da una condizione esterna
che non è in suo potere.
Un'intelligenza indurita e spavalda
consiglia la scappatoia: godi te stesso, respingendo sempre da te le
condizioni. Ma è naturale che chi gode se stesso respingendo le condizioni
dipende da esse come colui che le gode. Deve pur averle per poter godere del
fatto di buttarle via. La sua riflessione ritorna sempre in lui, e poiché il
suo godimento consiste nell'avere il godimento il minor contenuto possibile, è
come se egli svuotasse se stesso, poiché, naturalmente, una riflessione come
questa che ha di mira solo il finito, non è in grado di aprire la personalità.
Con queste considerazioni credo di aver
abbastanza chiaramente tracciato il territorio della concezione estetica; tutti
gli stadi hanno in comune che si vive per ciò che immediatamente si è; poiché
la riflessione non giunge mai tanto in alto, da
oltrepassare questo limite. È solo un
fugacissimo accenno che ti presento, ma non desideravo nemmeno fare di più; per
me non sono importanti i diversi stadi, ma
solo il movimento che si deve
necessariamente compiere per trarsene fuori, come ti
dimostrerò, ed è su di esso che ti prego
di fermare la tua attenzione.
Suppongo, per usare una tua espressione,
che colui che viveva per la sua salute
fosse sano come non mai il giorno della
sua morte; che quando quei conti ballarono
nel giorno delle loro nozze d'oro, un
mormorio d'ammirazione attraversasse la sala,
proprio come quando ballarono al loro
matrimonio; suppongo che le miniere d'oro
del ricco siano inesauribili, che onore e
gloria accompagnino il cammino della vita
del fortunato; suppongo che la fanciulla
sposi colui che ama, che chi ha del talento
mercantile abbracci tutte cinque le parti
del mondo colle sue relazioni e tenga tutte
le borse del mondo nella propria borsa,
che il talento meccanico congiunga la terra
al cielo, .. . che l'astuto epicureo possa
ogni momento deliziarsi di se stesso, che il
cinico abbia sempre qualche bene da
gettare lungi da sé per rallegrarsi della propria
leggerezza — questo suppongo, e così tutti
costoro saranno felici. Tu non puoi
giudicare cosí, ma credo che ammetterai
che molti pensano così, anzi alcuni
immaginano di aver detto una cosa
particolarmente intelligente aggiungendo che
quello che manca a costoro è di saper
apprezzare la loro felicità. Ora voglio
percorrere il cammino inverso. Nulla di
tutto questo
accade. E allora? Disperano. Tu non lo
faresti, forse diresti che non ne vale la pena.
Perché tu non voglia ammettere la
disperazione, te lo spiegherò più tardi; qui esigo
solo che tu ammetta che una gran parte di
uomini troverebbe che è il caso di
disperare. Guardiamo ora perché disperano.
Perché hanno scoperto che quello su
cui avevano costruita la loro vita era
effimero? Ma è questa una ragione per
disperare? È avvenuto un cambiamento
sostanziale in quello su cui avevano
costruita la loro vita? È un cambiamento
sostanziale dell'effimero che questo si
mostri come effimero? Non è piuttosto
qualche cosa di casuale e di non essenziale
il fatto che esso non si mostri nella sua
caducità? Non è intervenuto nulla di nuovo
che potesse giustificare un cambiamento.
Ora siccome disperano, sarà perché
disperavano anche prima. La differenza è
solo che prima non lo sapevano, ma
questa è una differenza del tutto casuale.
Appare dunque che ogni concezione
estetica della vita è disperazione, e che
chiunque vive esteticamente è disperato,
tanto se lo sa quanto se non lo sa. Ma
quando lo si sa, e tu lo sai, una forma più
elevata di esistenza è una esigenza
imperiosa.
Voglio ora, in due parole, giustificare il
mio giudizio sulla fanciulla e sul suo
amore. Saprai che, nella mia qualità di
marito, in ogni occasione ho l'abitudine,
tanto a voce come per iscritto, di lodare
contro te la realtà dell'amore, e anche qui
mi atterrò alla mia abitudine, per
eliminare ogni equivoco. Una persona
intelligente, in senso finito, sarebbe
forse un pò titubante di fronte a un tale amore;
forse ne vedrebbe la fragilità ed
esprimerebbe così la sua meschina saggezza con la
formula opposta : amami poco ma amami a
lungo. Come se tutta la sua saggezza di
vita non fosse ancor più fragile, o almeno
molto più meschina di quell'amore!
Comprenderai facilmente che io non potrei
che disapprovarlo. Nel campo
dell'amore mi ripugna fare esperimenti
psicologici : ho amato una volta sola, e
sono, ancora e sempre, infinitamente
felice di questo amore. Non posso immaginare
d'essere amato da altra donna che quella
alla quale sono legato, se non nel
modo in cui essa mi rende tanto felice, ma
tenterò ugualmente di farlo.
Supponiamo dunque, in qualunque modo sia
accaduto, che io sia diventato oggetto
di un tale amore. Non mi renderebbe felice
ed io non lo accetterei mai. Non perché
lo disdegnerei (Dio sa se non preferirei
avere sulla coscienza un assassinio
piuttosto che aver mortificato l'amore di
una fanciulla); ma non lo permetterei per
amore di lei. «Desidero esser amato da
tutti »; per conto mio, desidero essere amato
da mia moglie tanto intensamente quanto è
umanamente possibile, e soffrirei se
non fossi amato cosí; ma non desidero
altro, non permetterei che l'animo di
qualcuno dovesse soffrire danno per causa
mia; l'amerei troppo per permettere che
avvilisse se stesso. Per un animo
orgoglioso v'è qualche cosa di seducente
nell'essere amato così, e v'è qualcuno che
conosce l'arte di sedurre una fanciulla tanto bene da farle dimenticar tutto
per amor suo — alle responsabilità che assumono pensino loro. Di solito le
fanciulle vengono punite anche troppo di
questo, ma è ripugnante permettere che
esse si innamorino così. Vedi perciò dissi e
ripeto che la fanciulla era egualmente
infelice, tanto se ebbe il suo amato quanto se
non lo ebbe; poiché era una circostanza
casuale che colui che essa amava fosse una
persona onesta, che l'aiutasse ad uscire
dallo smarrimento del suo cuore; e anche se
i mezzi che egli usò a questo scopo furono
molto duri, nondimeno dirò che egli agì
onestamente, lealmente, fedelmente, e
cavallerescamente con lei.
Ora abbiamo visto che ogni concezione di
vita estetica è disperazione; potrebbe
perciò parere giusto intraprendere il
movimento col quale viene a galla l'etica. Però
rimane ancora uno stadio, una concezione
di vita estetica, la più fine ed
aristocratica di tutte, e la voglio
discutere nel modo più accurato: perché ora viene
la volta tua. A tutto quello che ho svolto
finora puoi tranquillamente assentire, e, in
un certo modo, non è per te che ho parlato
e anche approderebbe a poco parlar cosí
con te o dirti che la vita è vanità. Lo
sai benissimo anche tu ed hai cercato di
aiutarti alla tua maniera. Ho esposto
tutto questo perché voglio avere le spalle al
sicuro, voglio prevenire una tua fuga
improvvisa. Quest'ultima concezione di vita è
la disperazione stessa. È una concezione
di vita estetica, poiché la personalità
rimane nella sua immediatezza: è l'ultima
concezione di vita estetica, poiché in un
certo senso ha accolto in sé la coscienza
della nullità di se stessa. Intanto vi è
differenza tra disperazione e disperazione.
Si può esser disperati per la perdita di
una cosa singola, nella quale l'individuo
fa consistere tutto il valore della vita. Se
questo singolo bene viene ridonato, allora
cessa la disperazione. Un artista, per
esempio un pittore, che diventi cieco, se
in lui non v'è qualche cosa di più
profondo, forse dispererebbe. Dispererebbe
dunque per questo singolo fatto, e se la
vista gli ritornasse, la sua disperazione
cesserebbe. Non è il caso tuo, hai troppe
doti spirituali, e la tua anima in un
certo senso è troppo profonda perché questo ti
possa accadere. Né si sono mai verificate
circostanze simili. Tu hai pur sempre in
tuo potere tutte le condizioni per una
vita estetica, hai una sostanza, sei indipendente,
la tua salute è perfetta, il tuo spirito è
rigoglioso e non hai ancora sofferto
perché una fanciulla non ti ha voluto
amare. Eppure sei disperato. Non è una
disperazione attuale, per una realtà, ma
una disperazione potenziale, per ogni
possibilità della vita. Il tuo pensiero ha
precorso la vita, hai penetrato la vanità di
tutto, ma non sei giunto più in là.
All'occasione ti sprofondi nella vita, e mentre in
un momento ti abbandoni al godimento,
nello stesso tempo ti rendi consapevole
che ogni cosa è vana. Così sei
costantemente al di fuori di te stesso, cioè nella
disperazione. Questo fa si che la tua vita
sta tra due enormi contraddizioni: a volte
hai una straordinaria energia, a volte una
indolenza altrettanto grande.
Altre volte ho notato nella vita che
quanto più prezioso è il fluido col quale gli
uomini si inebriano, tanto più difficile è
la loro guarigione. Quanto più raffinata
l'ebbrezza tanto meno corruttrici sembrano
le apparenze. Chi si ubriaca di
acquavite si accorge presto delle
conseguenze nefaste, e si può sperare nella sua
salvezza. Chi invece beve champagne è più
difficile da guarire. E tu? Tu hai scelto
il mezzo più fine; perché nessuna ebbrezza
è bella quanto la disperazione, nessuna
è cosí decorativa, esercita tanto fascino,
specialmente agli occhi delle fanciulle, (e
ne sei molto bene informato) sopratutto
quando contemporaneamente si possiede
l'arte di saper reprimere le espressioni
più incolte, permettendo che la disperazione
venga solo presentita come un incendio
lontano e traspaia solo segretamente. Essa
dà un leggero tocco al cappello ed al
portamento di tutto il corpo; lo sguardo
diviene orgoglioso e ribelle; il labbro
sorride arrogante. Essa dà una indescrivibile
leggerezza alla vita, una regale
superiorità su tutto. E quando una figura simile si
avvicina a una fanciulla, quando questo
essere cosí orgoglioso si inchina solo
davanti a lei, per lei sola tra tutti,
essa si sente adulata, e, peggio ancora, vi
potrebbe essere una fanciulla tanto
innocente da credere a questo inchino. Non è
vergognoso che un uomo cosí... — ma no!
non voglio farti una ramanzina, ti farei
soltanto arrabbiare, ho mezzi più potenti
: ho il giovane pieno di speranze che forse è innamorato e viene da te; si è
ingannato sul tuo conto, crede che tu sia una persona fidata e leale, vuole
consigliarsi con te. Tu in realtà dovresti chiudere la porta a ogni giovane
fatale come questo, ma il tuo cuore non lo puoi chiudere, e
anche se non desideri che egli sia
testimone della tua umiliazione, non per questo
essa mancherà, poiché tanto corrotto non
sei e quando ti trovi solo con te stesso la
tua bonomia è forse più grande di quanto
si creda.
Ora, riguardo alla tua concezione,
credimi, molte cose nella tua vita ti diverranno
chiare, quando con me la considererai come
una forma di disperazione intellettuale.
Tu detesti ogni attività nella vita; molto
bene; infatti, affinché questa abbia un
significato, la vita deve avere una
continuità, che nella tua vita manca. Tu ti occupi
dei tuoi studi, è vero, sei anche assiduo;
ma per te è sole un piacere, e non fissi
nessuno scopo al tuo studio. Per il resto
sei libero, te ne stai ozioso sulla piazza
come i lavoratori dell'evangelo e colle
mani in tasca osservi la vita. Sei
completamente tranquillo nella
disperazione; nulla ti occupa, non ti scansi da nulla
« anche se buttassero giù delle tegole,
dai tetti, non mi scosterei ». Sei come un
moribondo, muori ogni giorno, non nel
senso profondo e grave che di solito ha
questa parola; piuttosto si direbbe che la
vita ha perso per te la sua realtà. « Io
calcolo sempre la vita da un giorno di
licenziamento all'altro. » Lasci che tutto ti
passi innanzi, nulla ti fa impressione.
Poi improvvisamente arriva qualche cosa che
ti attira, un'idea, una situazione, il
sorriso di una fanciulla, e stai all'erta. Perché,
mentre in certe occasioni non stai
all'erta, altre volte stai all'erta, pronto a tutto.
Dovunque vi sia un avvenimento, ci sei
anche tu. Nella vita ti comporti come nella
folla, « ti spingi fino nel folto, cerchi,
se possibile, d'esser buttato sopra gli altri, in
modo da poter stare sopra, e, una volta
lassù, cerchi di accomodarti meglio che
puoi; nello stesso modo ti fai portare
attraverso la vita ». Ma quando la folla è
dileguata, quando l'avvenimento è finito,
ti trovi di nuovo all'angolo della via a
guardare il mondo. Si sa che i moribondi
hanno una energia sovrumana, e cosí è
anche per te. Se vi è un'idea da studiare,
un'opera da leggere, un piano da eseguire,
una piccola avventura da vivere, perfino
un cappello da comprare, tu ti butti nella
faccenda con un impeto straordinario.
Secondo le circostanze, lavori senza tregua
un giorno, un mese, gioisci
nell'accertarti di avere sempre la stessa pienezza di
forze, non ti riposi, « nessun diavolo ce
la fa con te ». Se lavori con altri, lavori fino
a ridurli a stracci. Ma quando è trascorso
il mese o il tempo che tu sempre consideri
come il massimo, i sei mesi, interrompi
dicendo che ormai questa storia è finita; ti
ritiri e lasci che gli altri pensino al
resto; e se sei stato solo nell'iniziativa, non ne
parli più con nessuno. Fai credere a te
stesso e agli altri d'averne persa la voglia, e
ti lusinghi col vanitoso pensiero che
avresti potuto continuare a lavorare colla
stessa intensità se solo ne avessi avuto
voglia. Ma questo è un tradimento colossale.
Saresti riuscito a finire, come quasi tutti
gli altri, se tu pazientemente l'avessi
voluto, ma nello stesso tempo avresti
anche sperimentato che per far questo occorre
un tutt'altro genere di sopportazione di
quella che hai tu. Cosí hai deluso te stesso, e
non hai imparato nulla per la vita avvenire.
Qui ti posso servire con una piccola
informazione. Non sono all'oscuro di
quanto sia traditore il nostro cuore, di quanto
sia facile tradire se stessi, specialmente
quando si è, come te, maestri di quella
dialettica, che non solo dispensa ogni
cosa, ma tutto sa annullare e scomporre.
Quando nella vita mi è accaduto qualcosa,
quando ho preso una decisione che
temevo dovesse, coll'andar del tempo,
prender per me un altro volto, quando ho
fatto qualcosa a cui temevo, coll'andar
del tempo, di dover dare un'altra
interpretazione, spesso con poche e chiare
parole ho scritto ciò che intendevo o
quello che avevo fatto e il perché. Quando
poi ne sento il bisogno, quando la mia
decisione o la mia azione non sono vive
davanti a me, prendo il mio scritto e mi
giudico. Ti parrà forse una pedanteria,
una complicazione, e che non valga la pena
di far tante difficoltà. Non ti posso
rispondere altro che questo : se non ne senti il
bisogno, se la tua coscienza è sempre così
indefettibile e la tua memoria cosí
fedele, fanne pure a meno. Ma non lo credo
affatto, perché la facoltà dello spirito
che veramente ti manca è la memoria, cioè,
non la memoria per questa o quella co8
sa, per le idee, le facezie o i giochi
dialettici, mi guardo bene da affermarlo, ma ti
manca la memoria per la tua vita intima,
per quello che in essa hai vissuto. Se tu
l'avessi, lo stesso fenomeno nella tua
vita non si ripeterebbe tanto sovente, essa non
mostrerebbe tanti di quelli che io
chiamerei lavori di mezz'ora, perché li posso
chiamare cosí anche se hai impiegato
mezz'anno per compierli, perché non li hai
finiti. A te piace illudere te stesso e
gli altri. Se tu fossi sempre forte come lo sei nei
momenti di passione, saresti, non lo
voglio negare, l'uomo più forte che io abbia
conosciuto. Ma non lo sei, anche tu lo sai
abbastanza bene. Per questo che ti ritiri,
ti nascondi quasi a te stesso e ti torni a
riposare nell'indolenza. Ai miei occhi, alla
cui osservazione non sempre puoi sfuggire,
diventi quasi ridicolo pel tuo fervore
momentaneo e pel diritto che ti assumi di
schernire gli altri. ... La forza che hai è la
forza della disperazione; è più intensa
della comune forza umana, ma di contro
dura meno.
Tu aleggi sempre sopra te stesso, ma
l'etere superiore, il sublime finissimo, nel
quale sei evaporato, è il nulla della
disperazione. Ai tuoi piedi vedi una quantità di
scienze, nozioni, studi, osservazioni, le
quali, purtroppo, non hanno alcuna realtà
per te; ne usufruisci, le combini a tuo
capriccio, al solo scopo di addobbare, con
quanto buon gusto è possibile, quella
villa di piacere del tuo spirito, nella quale, per
l'occasione, dimori. Non c'è dunque da
meravigliarsi se per te l'esistenza è una
favola e «se spesso sei tentato a
cominciare ogni discorso così : "c'era una volta un
re e una regina, che non potevano avere
dei figli"; poi dimentichi ogni altra cosa
per osservare che questo fatto, strano a
dirsi, nella favola è sempre ragione di
dolore per il re e la regina, mentre
invece nella vita di tutti i giorni ci si addolora
perché si hanno dei figli; il che vien
dimostrato dagli asili e da tutte le istituzioni
del genere. Ma poi ti viene l'idea che
"la vita è un'avventura" ». Sei in grado di
spendere un intero mese solo per leggere
avventure, ne fai uno studio profondo, fai
paragoni e prove ed il tuo studio non è
senza frutto. Ma a che ti serve? Per divertire
il tuo spirito; dissipi tutto in un
brillante fuoco d'artificio.
Aleggi sopra te stesso e quello che vedi
sotto a te è una quantità di sensazioni e di
stati che adoperi per trovare contatti interessanti
colla vita. Sai essere sentimentale,
spietato, ironico, spiritoso, bisogna
riconoscere che in questo hai classe. Non
appena qualche cosa riesce a distoglierti
dalla tua indolenza, con tutto il tuo ardore
sei in piena attività, e la tua attività non
manca di arte, perché sei fin troppo fornito
di intelligenza, di agilità e di tutte le
seducenti doti dello spirito. Non sei mai, come
ti esprimi con tanta compiacente
ricercatezza, tanto poco galante da mostrarti senza
portare con te un mazzetto profumato e
appena colto di arguti motti di spirito. Più ti
si conosce, più ci si stupisce
dell'intelligenza calcolatrice che pervade tutto quello
che fai nel breve tempo che dura la tua
passione; poiché la passione non ti acceca
mai, ti rende solo più avveduto.
Dimentichi la tua disperazione e tutto ciò che di
solito aggrava il tuo animo e il tuo
spirito. Sei occupato completamente dal casuale
contatto in cui ti trovi con una persona.
Voglio ricordarti un fatterello che accadde
a casa mia. Probabilmente devo ringraziare
le due giovani svedesi allora presenti
per la dissertazione che ci offristi. La
conversazione aveva preso una piega
piuttosto seria ed era giunta ad un punto
che non era piacevole per te; mi ero
espresso un pò vivacemente contro
l'intempestivo rispetto per le doti spirituali che
è particolare della nostra epoca: avevo
ricordato che è qualche cosa di
completamente diverso quello che importa,
un certo fervore di tutto l'essere per il
quale la lingua non conosce altra
espressione che la parola fede. Con ciò, forse, tu
venivi posto in una luce meno favorevole,
e poiché certamente comprendesti che
per la via su cui avevi cominciato a
incamminarti non potevi più andare avanti, ti
sentisti tentato a provarti in quella che
tu stesso chiami follia superiore, ed
esclamasti in un tono sentimentale : «
Forse che io non credo? Credo che nel più
profondo del solitario silenzio della
foresta, dove gli alberi si specchiano nelle
acque cupe di uno stagno, nella oscura
segretezza che regna anche a mezzogiorno,
là vive un essere, una ninfa, una
fanciulla; credo che sia più bella di ogni
immaginazione; credo che di mattino
intrecci corone, a mezzogiorno si bagni nelle fresche acque, e alla sera
malinconicamente colga le foglie delle corone; credo che sarei felice, l'unico
uomo che meriterebbe di esser chiamato così, se la potessi
prendere e possedere; credo che nel mio
animo alberghi una nostalgia che scruta il
mondo e credo che sarei felice se questa
potesse esser soddisfatta; credo sopratutto
che il mondo abbia un senso, se solo lo si
sapesse trovare — ed ora non dite che non sono forte nella fede e ardente nello
spirito! ». Forse tu credi che un discorso
come questo potrebbe renderti degno di
diventar membro di un simposio greco;
poiché, tra l'altro, tu ti educhi per questo,
tu ritieni sia una vita splendida trovarsi
ogni notte con giovanetti greci, sedere
con una corona nei capelli inneggiando all'amore
o a quello che la fantasia vi ispira, anzi
ti sacrificheresti completamente per
inneggiare. A me questo parlare sembra
cosa da matti, per quanto artistico possa
essere, per quanto al momento faccia una
certa impressione, specialmente quando
tu stesso lo esponi colla tua febbrile
eloquenza; ma mi pare, anche, che sia
un'espressione del tuo stato d'animo
turbato, poiché è naturalissimo che chi non
crede a nulla di tutto ciò a cui credono
gli altri, creda a simili esseri misteriosi, cosí
come accade spesso nella vita che chi non
teme nulla né in cielo né in terra, teme i
ragni. Qua sorridi, pensi che sono caduto
in trappola, che ho davvero creduto che tu
credessi quello che eri più lontano dal
credere di chiunque. E giustissimo, poiché le
tue dissertazioni finiscono sempre in
assoluto scetticismo, ma per quanto
intelligente calcolatore tu sia, non puoi
proprio negare che tu, per un attimo, scaldi
te stesso al calore malaticcio che emana
da queste esaltazioni. Forse la tua
intenzione è quella di ingannare la gente,
ma vi è un momento in cui tu, anche
senza rendertene conto, inganni te stesso.
Quello che dico dei tuoi studi vale anche
per tutte le tue azioni. Tu sei nell'attimo, e
nell'attimo sei di una grandezza
soprannaturale; vi sprofondi con tutta la tua anima,
anche coll'energia della volontà, poiché
nell'attimo hai il tuo essere assolutamente
in tuo potere. Chi ti vede solo in un
istante come questo, è assai facile che venga
ingannato, mentre chi attende l'istante
che segue, potrà facilmente trionfare su te.
Forse ricordi ancora la nota favola di
Museo intorno ai tre valletti di Rolando. Uno
di essi, da una vecchia strega che
andarono a trovare in un bosco, ebbe in dono un
ditale che lo rendeva invisibile. Per
mezzo di esso penetrò nella camera della bella
principessa Urraca e le dichiarò il suo
amore, facendole grande impressione, poiché
essa non vedeva mai nessuno e perciò presumeva
che chi la onorasse del suo amore
fosse almeno un principe azzurro. Pertanto
essa pretese da lui che si rivelasse. Qui
stava il difficile; non appena egli si
fosse mostrato, l'incanto sarebbe svanito;
eppure non avrebbe potuto avere nessuna
gioia dal suo amore se non si fosse potuto
manifestare a lei. Ho proprio la favola di
Museo alla mano e ne voglio trascrivere
un piccolo passo, che ti prego di leggere
attentamente per il tuo vero bene. « Egli
acconsenti di mala voglia a mostrarsi e la
fantasia della principessa si figurava
l'immagine dell'uomo bellissimo ch'essa
con vivissima attesa aspettava di scorgere.
Ma quale contrasto v'era tra l'originale e
l'ideale! Dinnanzi le stava un volto
comune, uno dei soliti uomini la cui
fisonomia non rivelava né lo sguardo del genio
né uno spirito sentimentale! » Quello che
tu desideri ottenere dai contatti colla
gente, lo otterrai certo, perché sei più
intelligente di quel valletto e comprendi facilmente
che non ti conviene manifestarti. Quando
hai fatto brillare davanti agli
occhi di qualcuno una figura ideale — e
devo ammettere che ti sai mostrare ideale
sotto qualunque aspetto — ti ritiri
prudentemente, divertito di averlo gabbato.
Realizzi il tuo scopo, ma interrompi anche
la coesione della tua vita : hai ottenuto
un momento di più che ancora una volta ti
costringe a ricominciare da capo.
In senso teorico hai finito col mondo; la
finitezza non può esistere per il tuo
pensiero; anche praticamente, in un certo
senso, hai finito col mondo, cioè in senso
estetico. Ciononostante non hai nessuna
concezione della vita. Hai qualche cosa
che assomiglia ad una concezione, ed è
questa che dà alla tua vita una certa
tranquillità, che però non va confusa con
una confidente e consolante fiducia nella vita. La tranquillità l'hai solo in
confronto a chi va ancora a caccia delle chimere del piacere, per mare
pauperiem fugiens, per saxa, per ignes1. Riguardo al godimento
stai in un atteggiamento di orgoglio assolutamente aristocratico. Questo
è assai logico, poiché hai chiuso la
partita con ogni finitezza. Eppure non sai
rinunciare ad essa. Sei soddisfatto nei
confronti di coloro che vanno a caccia di
soddisfazioni, ma quello per cui tu sei
soddisfatto è l'assoluta insoddisfazione. Non
ti turba vedere tutti gli splendori del
mondo, perché col pensiero sei sopra ad essi;.
se te li offrissero diresti come sempre: «
Si, una giornatina la potrei dedicare a
queste cose ». Non ti preoccupa non esser
diventato milionario, e se te lo offrissero
probabilmente risponderesti: «Si, sarebbe
abbastanza interessante l'esserlo stato, e
un mesetto lo potrei occupare così ».
Anche se ti offrissero l'amore della più bella
fanciulla risponderesti: « Si, per un
mezz'annetto potrebbe andar bene ». Io non
voglio ora unirmi alle critiche che sento
spesso fare sul tuo conto, che sei insaziabile;
preferisco dire: in un certo senso hai
ragione; nulla di finito, infatti, nemmeno
l'intero mondo può soddisfare l'animo
umano, che sente il bisogno dell'eterno. Se ti
si potesse offrire onore e gloria,
l'ammirazione dei contemporanei — anche se
questo forse è il tuo debole —
risponderesti: « Si, per un breve periodo potrebbe
anche andare bene ». Ma tu, a dir la
verità, non hai siffatti desideri, non muoveresti
un passo per soddisfarli. Se la fama
avesse per te un significato, dovresti
riconoscerla come vera; ma persino le più
elevate doti spirituali ti sembrano pur
sempre qualche cosa di effimero. La tua
polemica perciò si esprime ancor più
profondamente quando tu, nella tua
amarezza interiore contro tutta la vita, desideri
essere il più sciocco di tutti gli uomini,
e d'esser nondimeno ammirato e adorato dai
contemporanei come il più saggio di tutti,
poiché questo sarebbe un vero sarcasmo
su tutta l'esistenza, assai più profondo
che se il superiore davvero fosse onorato
come tale. Perciò, tu non aspiri a nulla,
non desideri nulla; l'unica cosa che potresti
desiderare è una bacchetta magica che ti
potesse dare tutto, e poi la useresti per
pulire la pipa. È così che sei finito per
la vita e « non hai bisogno di fare
testamento, perché non lasci nulla dopo di
te ».
Ma su questo vertice non ti puoi
mantenere, perché il tuo pensiero ti ha bensí tolto
tutto, ma non ti ha dato nulla in cambio.
Nell'attimo seguente una cosuccia
insignificante ti afferra. La consideri
con tutta la signorilità e l'orgoglio del tuo
pensiero presuntuoso, la disprezzi come un
giocattolo meschino che ti ha quasi
stancato già prima di prenderlo in mano,
ma pure ti occupa, anche se non è l'oggetto
in sé che ti occupa — e questo non è mai —
ma pure ti occupa tanto che ti
abbassi fino ad esso. A questo riguardo,
non appena hai da fare colla gente, il tuo
essere mostra un alto grado di slealtà, di
cui però eticamente non ti si può
incolpare, perché tu stai al di fuori
delle determinazioni etiche. Fortunatamente per
gli altri, partecipi assai poco ai loro
fatti, e perciò la gente se ne accorge poco.
Spesso vieni a trovarmi, e sai d'esser
sempre benvenuto, ma sai anche che non mi
verrebbe mai in mente di invitarti a
prender parte a qualcosa, nemmeno a delle
inezie. Non andrei nemmeno a fare una gita
nei boschi con te, non perché tu non
sappia essere allegro e di compagnia, ma
perché la tua partecipazione è sempre
falsa, perché, se tu ti rallegri
veramente, si può star certi che non è per le cose che
rallegrano noi o per la gita, ma per
qualche cosa che hai « in mente »; e se non ti
rallegri, non è perché accadono delle cose
spiacevoli che ti mettono di cattivo
umore, — questo potrebbe succedere anche a
noi altri, — ma perché tu, già dal
momento in cui sali in carrozza, hai colto
la nullità di questo divertimento. Te lo
perdono volentieri, perché il tuo spirito
è sempre troppo mosso, ed è vero quello
che spesso dici di te stesso, che sei come
una puerpera, e quando si è in questo
stato non c'è da meravigliarsi se si è un
po' diversi dagli altri.
Pure, non si può schernire lo spirito,
esso si vendica su di te, ti lega colle catene
della malinconia. Mio giovane amico, qui
comincerebbe la via che conduce a 1 Cit. da Orazio, Epist. I,. 1, 46. (N. d.
T.)
diventare un Nerone, se nel tuo animo non
vi fosse una sincera serietà, se nel tuo
pensiero non vi fosse una innata
profondità, se nel tuo spirito non vi fosse della
magnanimità, — e se tu fossi diventato
imperatore di Roma. Pure, tu vai per un'altra
strada. Poi ti appare una concezione di
vita che sembra l'unica che possa
soddisfarti, quella cioè di sprofondare la
tua anima nella malinconia e nella
tristezza. Però il tuo pensiero è troppo
sano perché questa concezione di vita possa
sopportar la sua prova: perché, per una tristezza
estetica di questo genere,
l'esistenza è vana, come per ogni altra
concezione di vita estetica; e se l'uomo non
può soffrire più profondamente, dico il
vero quando dico che la sofferenza finisce
non meno della gioia, poiché tutto ciò che
è soltanto finito perisce. Molti trovano
che sia una consolazione che la sofferenza
passi; a me pare sconfortante quanto il
dire che passa la gioia. Cosí il tuo
pensiero annulla di nuovo anche questa
concezione di vita. Quando si è annullata
la sofferenza, si tiene la gioia; ma invece
della sofferenza tu scegli una gioia che è
un cattivo sostituto della sofferenza. La
gioia che hai scelto è il riso della
disperazione. Tu ritorni di nuovo alla vita; sotto
questo aspetto l'esistenza assume un nuovo
interesse per te. Come tu provi una gran
gioia nel parlare ai bambini in modo che
quello che tu dici sia compreso da loro
con chiarezza, facilità e naturalezza,
mentre per te significa qualche cosa di ben diverso,
cosí tu provi gioia nell'ingannare la
gente col tuo riso. Quando riesci a far
ridere, giubilare e cantare per opera tua,
trionfi sul mondo, dici a te stesso: « se
sapeste di cosa ridete! ». …
Guarda, mio giovane amico, questa vita è
disperazione. Nascondilo agli altri, ma a
te stesso non lo puoi nascondere : è disperazione.
Sei troppo frivolo per disperare, e
troppo malinconico per non venir a
contatto colla disperazione. Sei come una
partoriente, eppure continui a
procrastinare il momento e rimani sempre colle
doglie. Se una donna, nel momento delle
doglie, fosse colta dal dubbio di poter
partorire un mostro o se volesse ragionare
con se stessa cosa è che deve veramente
partorire, essa avrebbe una certa
somiglianza con te. Il suo tentativo di fermare il
corso della natura sarebbe infruttuoso, ma
il tuo è possibile; poiché quello che
l'uomo partorisce in senso spirituale è il
nisus formativus della volontà, ed esso è in
potere dell'uomo. Cosa temi dunque? Tu non
devi partorire un altro uomo, devi
solo partorire te stesso. Eppure, lo so,
in ciò è una serietà che scuote tutta l'anima;
divenir coscienti di se stessi nel proprio
eterno valore è il momento più importante
di tutta la vita. È come se tu venissi
preso e legato e non potessi mai più svincolarti,
né nel tempo né nell'eternità; è come se
tu perdessi te stesso, come se tu cessassi di
essere; è come se tu nel momento seguente
dovessi pentirtene, ma non potessi più
tornare indietro. È un momento
terribilmente serio e importante quello in cui ci si
lega per l'eternità a una potenza eterna,
in cui si accetta se stesso come colui il cui
ricordo non sarà mai cancellato in nessun
tempo, in cui, in senso eterno ed
inalterabile, si diventa coscienti di se
stessi come quello che si è. Eppure, si può
farne a meno! Ecco, qui, v'è un aut-aut.
Lascia che ti parli come non ti parlerei mai
se qualcun altro ci ascoltasse, perché in
un certo senso io non ho il diritto di farlo e
perché parlo piuttosto solo del futuro. Se
non vuoi scegliere, se vuoi continuare a
divertire la tua anima colla frivolezza e
colla vanità delle spiritosaggini, fallo pure;
abbandona la tua casa, emigra, va a
Parigi, datti al giornalismo, fa la corte al
sorriso di donne sdolcinate, rinfresca il
loro sangue ardente colla frescura delle tue
battute di spirito, fa che l'orgoglioso
compito della tua vita sia di scacciare la noia
delle donne senza cuore o gli oscuri
pensieri dei gaudenti smidollati; dimentica di
essere stato un fanciullo, un fanciullo
devoto, innocente, sii sordo a ogni voce più
elevata nel tuo petto, assopisci la tua
vita nella brillante meschinità delle serate di
gala, dimentica che in te abita uno
spirito immortale, dissipa la tua anima fino
all'estremo; e quando poi le battute di
spirito taceranno, rimane ancora acqua nella
Senna, polvere da sparo nelle botteghe e
neppure la compagnia di viaggio ti
mancherà. Ma se non puoi farlo, se non
vuoi farlo — e né lo puoi né lo vuoi fare — allora tirati su, soffoca ogni
pensiero ribelle che osi l'alto tradimento contro il tuo
essere migliore, disprezza ogni meschinità
che ti invidia le tue doti di spirito perché le desidera per sé, per farne un
uso ancor peggiore; disprezza l'ipocrita profondità
che sopporta di mala voglia il peso della
vita e pretende ancora di essere onorata
per questo; ma non disprezzare la vita,
onora ogni sforzo lodevole, ogni modesta
attività, che umile si nasconde; e abbi,
sopratutto, un po' più di rispetto per la
donna; credimi, è proprio da lei che viene
la salvezza, come è certo che la
perdizione viene dall'uomo. Sono un
marito, e quindi parte in causa; ma è mia
ferma convinzione che se alcune donne
hanno gettato l'uomo nella corruzione, esse
hanno anche lealmente ed onestamente
cercato di rimediare e continuano a farlo;
poiché di cento uomini che si sviano nel
mondo, novantanove vengono salvati dalle
donne, uno solo vien salvato da immediata
grazia divina. È dell'uomo sviarli in un
modo o nell'altro; eppure anch'egli deve
tornare a riposarsi nella pace pura e
innocente dell'immediatezza, che è
caratteristica della donna. Se qualche volta la
donna lo allontana, essa compensa
largamente il danno recato.
Cosa ti rimane dunque da fare? Un altro
forse ti consiglierebbe: « sposati ed avrai
altro da pensare! ». È vero; ma bisogna
chiedersi se la cosa ti giova. Qualunque sia
il modo in cui tu giudichi l'altro sesso,
so che sei troppo cavalleresco per sposarti
per questa sola ragione. Inoltre se non
puoi tenere a freno te stesso, difficilmente
troverai qualcun altro che sia in grado di
farlo. O ti si potrebbe anche consigliare: «
cerca una posizione, gettati nella vita
degli affari, lavora; questa è la cosa migliore,
ti distrarrà, facendoti dimenticare la tua
malinconia ». Forse ti riuscirebbe di
arrivare al punto di credere d'averla
dimenticata; ma non l'hai dimenticata;
improvvisamente proromperà più terribile
che mai; e forse allora sarà in grado di
fare quello che non ha saputo fare finora
: prenderti di sorpresa. Inoltre: qualunque
cosa tu pensi della vita e del lavoro, tu
sei troppo cavalleresco con te stesso per
sceglierti una posizione per questa
ragione; sarebbe una specie di falsità come sarebbe
una falsità quella di sposarsi per questa
ragione. Allora che ti rimane da fare?
Ho una risposta sola : « dispera! ».
Io sono un marito, la mia anima è
attaccata fermamente e irremovibilmente a mia
moglie, ai miei figli, a questa vita di
cui loderò sempre la bellezza. E se dico,
dispera, non sono un giovane esaltato che
ti vuole gettare nel vortice delle passioni,
né un demone sarcastico che beffa i
naufraghi con questo conforto. Non lodo la
disperazione come una consolazione, o come
uno stato in cui tu debba rimanere.
Essa è una missione per la quale occorre
tutta la forza, la serietà e la coerenza
dell'anima ed è la mia convinzione, la mia
vittoria sul mondo, che, chi non abbia
assaporato l'amarezza della disperazione,
non ha compreso il significato della vita,
anche se la sua vita è stata quanto mai
bella e quanto mai ricca di gioie. Tu non
commetti nessun tradimento verso quel
mondo nel quale vivi, non sei perso, per
esso, anche se l'hai superato colla
disperazione; così anch'io confido di essere un
buon marito nonostante che abbia disperato
io pure.
Quando considero la tua vita in questo
modo ti stimo felice; poiché in verità è della
massima importanza che un uomo nel momento
della disperazione non sbagli nel
considerare la vita; commettere uno sbaglio
è altrettanto pericoloso per lui come
per la partoriente. Colui che dispera per
qualche cosa di particolare, corre il
pericolo che la sua disperazione non sia
vera e profonda, che sia un disappunto, un
dolore per il particolare. Non devi
disperare cosí, poiché non sei stato defraudato di
nulla di particolare, tu hai ancora tutto.
Se chi dispera si inganna, se crede che
l'infelicità stia nel molteplice al di
fuori di lui, la sua disperazione non è vera e lo
condurrà ad odiare il mondo, non ad
amarlo; poiché come è vero che il mondo per
te è ora un peso, perché è come se volesse
essere per te qualche cosa di diverso da
quello che può essere, cosí è anche vero
che quando tu nella disperazione hai
trovato te stesso, l'amerai, perché è
quello che è. Se è colpa, peccato o una cattiva
coscienza che conduce l'uomo alla
disperazione, forse egli avrà delle difficoltà a
ritrovare la sua gioia. Disperati dunque,
con tutta la tua anima e con tutto il tuo
spirito; più rinvii, più dure saranno le
condizioni, e l'esigenza rimane sempre la
stessa. ...
Scegli dunque la disperazione, poiché la
disperazione stessa è una scelta. Si può
dubitare senza scegliere il dubbio, non si
può disperare senza scegliere la
disperazione. E mentre si dispera, si
sceglie di nuovo. E cosa si sceglie? Si sceglie
se stessi, non nella propria immediatezza,
non come questo individuo casuale, ma
si sceglie se stessi nel proprio eterno
valore.
Mi sforzerò di spiegare meglio questo
punto riguardo a te. Nella nuova filosofia si
è parlato, più che a sufficienza, del
fatto che tutta la speculazione comincia col
dubbio; d'altra parte io, quando
occasionalmente mi son potuto occupare di queste
meditazioni, ho inutilmente cercato degli
schiarimenti per sapere in che cosa il
dubbio sia diverso dalla disperazione. Qui
cercherò di mettere in evidenza questa di
differenza, sperando che essa giovi ad
orientarti in senso teorico e pratico. Son ben
lontano dal credere di avere un vero estro
filosofico, non ho il tuo virtuosismo nello
scherzare colle categorie, ma quello che
in senso più profondo è il significato della
vita, potrà certo esser compreso anche da
chi è più ingenuo. Il dubbio è la
disperazione del pensiero, la disperazione
è il dubbio della personalità; e per questo
tengo tanto alla determinazione della
scelta, che è diventata il mio motto, il nerbo
della mia concezione di vita; e ho una
concezione di vita, anche se non pretendo
affatto di avere un sistema. Il dubbio è
il movimento interno del pensiero stesso, e
nel mio dubbio mi comporto più impersonalmente
che posso. Supposto che il
pensiero, quando il dubbio si completa,
trovi l'assoluto e si riposi in lui, esso riposa
in lui non in seguito ad una scelta ma in
seguito alla stessa necessità per cui
dubitava; poiché il dubbio stesso è una
determinazione di necessità, e così pure il
riposo. Questo è il sublime del dubbio:
ciò per cui esso tanto spesso è stato vantato
e lodato da gente che non capisce nemmeno
quello che dice. Ma proprio il fatto che
sia una determinazione di necessità
dimostra che non tutta la personalità è
compresa nel movimento. Dice perciò
qualche cosa di molto vero chi dice: crederei
volentieri, ma non posso, bisogna che
dubiti. Perciò si vede anche spesso che chi
dubita può tuttavia possedere in sé un
valore positivo, che sta fuori di ogni rapporto
col suo pensiero; questi può, ad es.,
essere una persona coscienziosissima, che non
dubita affatto del valore del dovere come
regola della sua azione e i cui sentimenti
di umana simpatia non sono affatto toccati
dal dubbio. D'altra parte si vedono,
specialmente ai nostri giorni, persone che
hanno la disperazione in cuore, anche se
hanno vinto il dubbio. Questo mi fu palese
specialmente nel considerare alcuni dei
filosofi tedeschi. Il loro pensiero è
tranquillo, il pensiero logico oggettivo si è acquietato
nella sua corrispondente oggettività;
eppure essi sono disperati anche se si
distraggono colla speculazione oggettiva.
L'uomo infatti può distrarsi in molti
modi, e non vi è un narcotico migliore
della speculazione astratta, perché ciò che in
essa è necessario è di mantenersi più
impersonali che sia possibile. Il dubbio e la
disperazione stanno dunque di casa in due
sfere completamente diverse; sono corde
assai diverse dell'anima che vengono messe
in movimento. Ma questa conclusione
non mi soddisfa affatto, perché il dubbio
e la disperazione vengono in questo modo
coordinati, e questo non deve avvenire. La
disperazione è un'espressione molto più
profonda e completa, il suo movimento è
molto più ampio di quello del dubbio. La
disperazione è l'espressione di tutta la
personalità, il dubbio solo del pensiero. La
presunta obiettività del dubbio, che lo
rende tanto aristocratico, è proprio
un'espressione della sua imperfezione. Il
dubbio sta perciò nella differenza, la disperazione
nell'assoluto. Per dubitare occorre del
talento, ma per disperare non ne
occorre affatto. Ma il talento come tale è
una differenza, e quello che per farsi
valere esige una differenza, non sarà mai
l'assoluto; perché l'assoluto può solo
essere l'assoluto per l'assoluto. L'uomo
più insignificante, meno intelligente può
disperare, una fanciulla, che è tutto meno
che un pensatore, può disperare, mentre
ognuno capisce facilmente quanto sia
sciocco dire che essi sono dei dubbiosi. Se il
dubbio di un uomo si acquieta, e egli però
dispera e rimane in questo stato, questo
significa che egli non vuole la
disperazione in senso più profondo. Non si può
assolutamente disperare senza volerlo; ma
per disperare per davvero si deve per
davvero volere la disperazione; ma quando
la si vuole veramente, allora per dav14
vero si è fuori dalla disperazione; quando
veramente si ha scelto la disperazione, si
ha scelto per davvero quello che la
disperazione sceglie: si ha scelto se stessi nel
proprio valore eterno. Solo nella
disperazione la personalità è acquietata; non con
necessità (perché non dispero mai
necessariamente), ma con libertà, e solo così
vien conquistato l'assoluto. A questo
riguardo, penso che la nostra epoca farà un
progresso, se posso permettermi una
opinione sulla nostra epoca, dato che la
conosco solo dalla lettura dei giornali e
da qualche libro o dai miei colloqui con te.
Non è lontano il giorno in cui, forse a
caro prezzo, si esperimenterà che il vero
punto di partenza per trovare l'assoluto
non è il dubbio ma la disperazione.
Pure, ritorno alla mia categoria (non sono
un logico, e ho solo una categoria, ma ti
assicuro che è la scelta del mio cuore e
del mio pensiero, la delizia della mia anima
e la mia beatitudine) : ritorno
all'importanza dello scegliere. Quando dunque scelgo
in modo assoluto, scelgo la disperazione,
e nella disperazione scelgo l'assoluto
poiché io stesso sono l'assoluto; io pongo
l'assoluto e sono l'assoluto stesso; ma
come perfettamente identico ad esso devo
dire: io scelgo l'assoluto che sceglie me,
io pongo l'assoluto che pone me; poiché se
non ricordo che quest'altra espressione è
altrettanto assoluta, la mia categoria
dello scegliere è falsa, perché è proprio
l'identità di ambedue. Quello che scelgo
non lo pongo, perché se non fosse posto
non lo potrei scegliere; eppure, se non lo
ponessi nell'atto della scelta, non
sceglierei realmente. Esso è, poiché se
non fosse, non lo potrei scegliere; non è,
perché diventa solo in quanto lo scelgo :
altrimenti la mia scelta sarebbe illusione.
Ma che cosa è dunque che scelgo? E questa
cosa o è quell'altra? No, perché io
scelgo in modo assoluto, e scelgo in modo
assoluto proprio in quanto ho scelto di
non scegliere questa o quella cosa. Io
scelgo l'assoluto. Ma cos'è l'assoluto? Sono
io stesso nel mio eterno valore. Altro all'infuori
di me stesso non potrò mai
scegliere come assoluto; poiché se scelgo
qualche cosa d'altro lo scelgo come una
cosa finita, e perciò non lo scelgo in
modo assoluto. ...
Ma cosa è questo me stesso? Se volessi
parlare di un primo momento, di una sua
prima espressione, la mia risposta sarebbe
: è la cosa più astratta di tutte, che nello
stesso tempo in sé è la più concreta — è
la libertà. Lasciami introdurre una piccola
osservazione psicologica. Si sente spesso
la gente esprimere la propria
insoddisfazione e lamentarsi della vita;
spesso la si sente desiderare qualche cosa.
Immagina ora un povero diavolo (lasciamo
da parte i desideri capricciosi che qui
non hanno nulla da insegnarci, perché sono
completamente immersi nel casuale).
Ecco i suoi desideri : avessi lo spirito
del tale, od il talento del talaltro, ecc., anzi
per arrivare al massimo: avessi la
fermezza di quel tale. Simili desideri si sentono
pronunciare assai spesso, ma hai mai
sentito che alcuno desiderasse seriamente di
poter diventare un altro? Ne è anzi
talmente lontano che è proprio caratteristico di
quelle che si chiamano individualità
infelici di aggrapparsi tenacissimamente a se
stesse, tanto che, nonostante tutte le
loro sofferenze, per nessuna ragione al mondo
vorrebbero essere degli altri. Ciò ha il
suo motivo nel fatto che queste individualità
sono molto vicine alla verità e sentono
l'eterno valore della personalità, non nella
sua benedizione, ma nel suo tormento.
Anche se devono rinunciare alla gioia,
preferiscono tuttavia rimanere se stessi.
Ma anche colui che ha molti desideri
intende sempre rimanere se stesso, anche
se le circostanze mutano. Dunque in lui
vi è qualche cosa di assoluto in rapporto
a tutto il resto, qualche cosa per cui egli è
quello che è, anche se il cambiamento sopraggiunto
col realizzarsi del suo
desiderio sia stato il più grande
immaginabile. L'espressione più astratta di questo «
se stesso » che lo rende quello che è non
è altro che la libertà. Per questa via si
potrebbe realmente giungere ad una
plausibilissima dimostrazione dell'eterno
valore della personalità. Perfino un
suicida propriamente non vuole sbarazzarsi di
se stesso; quello che lui desidera è solo
un'altra forma di se stesso. Perciò si potrà
anche trovare un suicida che sia convinto
al massimo grado dell'immortalità
dell'anima. Ma il suo essere è così
accecato che con questo passo egli crede di
trovare la forma assoluta per il suo
spirito.
Pure, la ragione per cui ad un individuo
può parere che egli si possa costantemente
trasformare, pur rimanendo sempre se
stesso, come se il suo essere più profondo
fosse una grandezza algebrica che potesse
indicare quello che si vuole, è che egli si
trova in una posizione falsa, che non ha
scelto se stesso e non ne ha una idea;
eppure anche nella sua incomprensione vi è
un riconoscimento dell'eterno valore
della personalità. Per chi invece si trova
in una posizione giusta le cose vanno
diversamente. Egli sceglie se stesso, non
in senso finito, poiché allora questo «io»
diventerebbe una cosa finita che si
mescolerebbe colle altre cose finite, ma in senso
assoluto: eppure egli sceglie se stesso e
non un altro. Questo « io », che egli così
sceglie, è infinitamente concreto, poiché
è lui stesso; eppure è assolutamente
diverso dal suo «io» precedente, poiché
egli l'ha scelto in modo assoluto. Questo «
io » non esisteva prima, poiché venne
creato colla scelta; eppure esisteva poiché
era « lui stesso ».
La scelta qui rende i due movimenti
dialettici in una volta: quello che vien scelto
non esiste e vien creato dalla scelta; quello
che vien scelto esiste, altrimenti non
sarebbe una scelta. Infatti, se quello che
io scelgo non esistesse ma divenisse in
modo assoluto colla scelta, non
sceglierei, ma creerei; ma io non creo me stesso,
scelgo me stesso. Mentre perciò la natura
è creata dal nulla, mentre io stesso come
personalità immediata sono creato dal
nulla, come spirito libero sono nato dal
principio fondamentale della
contraddizione, nato per il fatto di aver scelto me
stesso.
Chi sceglie se stesso scopre che quell'io
che egli sceglie ha una infinita molteplicità
in sé. Esso ha una storia; una storia
nella quale egli riconosce la sua identità con se
stesso. Questa storia presenta diversi
aspetti, poiché in questa storia egli sta in
relazione con altri individui della stirpe
e con tutta la stirpe; e questa storia contiene
qualche cosa di doloroso. Eppure egli è
ciò che è solo attraverso questa storia.
Perciò ci vuole del coraggio per scegliere
se stesso; poiché, mentre pare che egli si
isoli più intensamente che mai, nello
stesso tempo egli si sprofonda più che mai in
quella radice per la quale è congiunto al
tutto. Questo lo preoccupa eppure deve
essere così: infatti quando l'ardore della
libertà si è risvegliato in lui (e si è
risvegliato nella scelta, così come esso
presuppone se stesso nella scelta), egli
sceglie se stesso e la lotta per questo
possesso come per la propria suprema
salvezza, e questa è la sua suprema
salvezza. Egli non può rinunciare a nulla di
tutto questo, né al dolore più forte, né
alle fatiche più gravi; eppure l'espressione di
questa lotta, di questa conquista è il
pentimento. Col pentimento ritorna in se
stesso, ritorna nella famiglia, ritorna
nella stirpe, finché trova se stesso in Dio.
Sceglie se stesso mentre si rinnega,
rinnega se stesso mentre si sceglie. Solo a
questa condizione egli può scegliere se
stesso; e questa è l'unica condizione che
egli vuole, perché solo così può scegliere
se stesso in modo assoluto. Cosa è mai
l'uomo senza amore? Ma vi sono molte
qualità di amore; amo mio padre
diversamente da mia madre, mia moglie
diversamente ancora, ed ogni diverso
amore ha una sua diversa espressione; ma
vi è anche un amore col quale amo Dio,
e questo ha un'espressione sola nella
lingua : il pentimento. Se non l'amo cosí, non
lo amo in modo assoluto con tutto il mio
essere più profondo. Ogni amore diverso
per l'assoluto è un malinteso. Quando io
tento di cogliere l'assoluto con la passione
del pensiero (anche questo è un amore per
l'assoluto, che io lodo), non è più
l'assoluto che io amo, non amo in modo assoluto.
Questo amore per Dio è infatti
necessario. Ma non appena amo liberamente,
e amo Dio, non posso far altro che
pentirmi. E se non vi fosse nessun'altra
ragione perché l'espressione del mio amore
per Dio fosse pentimento, basterebbe il
fatto che egli mi ha amato per primo. Ma
anche questa è una definizione imperfetta,
poiché solo quando scelgo me stesso
come colpevole scelgo me stesso in modo
assoluto, se la mia scelta deve essere una
scelta e non coincidere con una creazione.
Anche se fosse il peccato del padre ad
andare in eredità al figlio, egli si pente
anche di quello, perché soltanto così può
scegliere se stesso, scegliersi in modo
assoluto; e anche se le lacrime dovessero
quasi distruggerlo, egli continua a
pentirsi, poiché solo così sceglie se stesso. E come se il suo io fosse fuori
di lui e dovesse essere conquistato, il pentimento è il suo amore per esso,
perché lo sceglie in modo assoluto dalla mano del Dio eterno.
… Non si conviene amare una fanciulla come
se fosse la propria madre, e
la propria madre come fosse una fanciulla;
ogni amore ha la sua particolarità. L'amore per
Dio ha la sua assoluta particolarità e la
sua espressione è il pentimento. E, cosa è
mai ogni altro amore a paragone di questo?
Solo un balbettio infantile. Non sono
un giovane eccitato che cerchi di
raccomandare le sue teorie, sono un marito e
certo non tremo se mia moglie mi sente
dire che ogni amore a paragone col
pentimento è solo un balbettio; eppure so
di essere un buon marito, « io che come
marito ancora lotto sotto le vittoriose
bandiere del primo amore ». So che essa
condivide la mia convinzione, e per questo
l'amo ancor di più; e perciò non vorrei
essere amato da quella tale fanciulla,
perché essa non condivide la mia
convinzione. …
Nella scelta della disperazione scelgo
dunque « me stesso ». Mentre io dispero,
come dispero di ogni altra cosa, dispero
anche di me stesso; ma l'io di cui dispero è
una cosa finita, come ogni altra cosa
finita, e l'io che scelgo è l'io assoluto, o il mio
io secondo il suo valore assoluto. Questo
è il motivo profondo per cui io dicevo e
continuo a dire che l'aut-aut tra la vita
estetica e la vita etica non è un dilemma
perfetto, perché solo un termine può venir
scelto e l'altro sorge dal fatto di non
scegliere. ...
Dispera dunque, e la tua leggerezza non ti
farà più vagabondare come uno spirito
incostante, come un fantasma, tra le
rovine di un mondo che pure è perso per te;
dispera, e il tuo spirito non sospirerà
mai più nella malinconia, poiché il mondo diventerà nuovamente bello e pieno di
gioie per te, anche se lo vedrai con occhi diversi da prima, e il tuo spirito
divenuto libero si innalzerà fino al mondo della libertà.
Qui potrei interrompere; perché ti ho
condotto al punto che volevo; ormai dipende
da te. Vorrei che tu ti liberassi dalle
illusioni dell'estetica e dai sogni di una mezza
disperazione per risvegliarti alla serietà
dello spirito. Potrei interrompere, ma non
ne ho l'intenzione, poiché voglio farti
considerare la vita da questo punto di vista e
presentarti la concezione etica. Sono solo
cose modeste che ho da offrirti, in parte
perché il mio talento non è affatto
all'altezza del compito, in parte perché la
modestia è una delle principali qualità di
ogni etica, una qualità che è molto
appariscente per chi viene dall'abbondanza
dell'estetica. Qui vale il detto : nihil ad
ostentationem, omnia ad conscientiam. Se qui mi interrompessi, potrebbe essere
sospetto, anche per il motivo che
facilmente sembrerebbe che anch'io finisco in una
specie di quietismo, in cui la personalità
deve riposare, colla medesima necessità
del pensiero, nell'assoluto. Cosa
importerebbe allora aver conquistato se stesso,
cosa importerebbe aver ricevuta una spada
che può conquistar tutto il mondo,
quando non se ne vuol fare altro uso che
infilarla nel fodero? …
Avviciniamoci ora di più ad alcune delle
condizioni di vita, specialmente a quelle
in cui etica e estetica si toccano, per
riflettere se la considerazione etica ci derubi di
qualche bellezza, o se piuttosto non doni
a tutto una più alta beltà. Immagino perciò
un determinato individuo, un uomo
comunissimo, ma un uomo nella sua
particolare concretezza. Voglio proprio
essere prosaico. Quest'uomo deve mangiare
e bere, vestirsi, avere un'abitazione, in
breve, deve esistere. Forse si rivolgerà a un
esteta per poter sapere come si debba
comportare nella vita. E le informazioni non
gli mancheranno. Questi gli direbbe forse:
« Quando si è soli occorrono circa 3.000
talleri all'anno per vivere comodamente;
se si dispone di 4.000 talleri si adoperano
anche questi; se ci si vuole sposare
occorrono per lo meno 6.000 talleri. Il denaro è
e sarà sempre nervus rerum gerendarum,
la vera conditio sine qua non. È bello
leggere della parsimonia campestre, della
modestia idilliaca; questi scritti mi piacciono ma di questo modo di vivere ci
si stanca presto; e quelli che vivono in
questo modo, non godono la loro vita
nemmeno la metà di quelli che hanno del
denaro e se ne stanno con tutta comodità a
leggere i poemi degli scrittori. Il denaro
è e sarà sempre la condizione assoluta per
vivere. Non appena si è senza denaro, si
vien esclusi dal numero dei patrizi, e si
diventa e si rimane plebei. La condizione è
il denaro, ma non ne consegue affatto che
ognuno che abbia del denaro lo sappia
adoperare. Quelli che lo sanno fare sono i
veri ottimati tra i patrizi ». Ma
evidentemente il nostro eroe non è
soddisfatto di questa spiegazione; tutta la saggezza
degli altri non lo commuove, ed egli si
sente come un passero a un ballo di
gru. Se infatti egli dicesse all'esteta :
« questo va bene, ma io non ho né 3.000 né
6.000 talleri all'anno, non ho proprio
nulla, né capitale né rendita, nulla del tutto,
quasi nemmeno un cappello da mettere in
testa », questi scrollerebbe le spalle e
direbbe: « questo è un altro discorso, non
vi rimane altro da fare che mettervi a
lavorare ».
Se l'esteta fosse molto bonario, forse con
un cenno richiamerebbe il povero diavolo
e gli direbbe: « non voglio che vi diate
alla disperazione prima di aver tentato le
ultime risorse; vi sono alcuni mezzi di
salvezza che non bisogna lasciare intentati,
prima di dire addio per sempre alla gioia,
di fare i voti e di mettersi la camicia di
forza. Sposate una ragazza ricca, giocate
al lotto, andate nelle colonie, cercate in
due anni di accumulare del denaro, cercate
di attirarvi il favore di un vecchio
scapolo perché vi faccia suo erede. Per il
momento i nostri cammini sono divisi;
procuratevi il denaro ed in me troverete
sempre un amico che saprà dimenticare
che una volta eravate senza denaro ». Ma
in una concezione di vita come questa vi
è qualche cosa di terribilmente spietato;
è odioso spegnere a sangue freddo ogni
gioia di vivere in tutti coloro che non
hanno denaro. Ed è questo che fa l'uomo
avido di denaro, perché egli pensa che
senza denaro non vi sia nessuna gioia nella
vita. Se io ora ti volessi mettere in un
fascio con questi esteti, se ti accusassi di
nutrire o di esprimere simili pensieri, ti
farei un grave torto. Infatti il tuo cuore è
troppo buono per dar dimora a tali
bassezze, e la tua anima è troppo generosa per
esprimere questi pensieri, anche se tu li
avessi.
Non penso che chi non ha denaro abbia
bisogno di esser commiserato, ma mi pare
che il meno che si possa pretendere da chi
crede di essere favorito dalla fortuna, è
che non se ne inorgoglisca, e non senta il
desiderio di mortificare gli altri che non
sono stati altrettanto favoriti. Lascia
pure che l'uomo sia orgoglioso; in nome di
Dio, sarebbe meglio che non lo fosse, ma
lascia pure che lo sia; ma che non sia
orgoglioso del suo denaro, poiché non vi è
nulla che degrada tanto l'uomo. Ora tu
sei abituato ad avere del denaro e sai
bene cosa voglia dire. Tu non offendi
nessuno, in questo sei diverso da quegli
esteti. Aiuti volentieri dove puoi, anzi,
quando fai risaltare quanto sia miserevole
non avere del denaro, lo fai spinto da
simpatia. Il tuo scherno perciò non è
diretto agli uomini, ma all'esistenza in genere
nella quale è stato disposto che non tutti
abbiano del denaro. Tu dici : «
Innegabilmente Prometeo ed Epimeteo erano
molto intelligenti, ma è
incomprensibile che mentre rifornivano gli
uomini tanto abbondantemente, non sia
loro venuto in mente di fornirli di denaro
». Se tu fossi stato presente allora, e
avessi saputo quello che sai adesso, ti
saresti fatto avanti e avresti detto: «O buoni
Dei, vi ringraziamo per tutto questo, ma —
perdonatemi se parlo tanto francamente
con voi — non avete conoscenza del mondo;
perché l'uomo possa essere felice gli
manca ancora una cosa — ed è il denaro. A
che serve ch'egli sia stato creato per
comandare tutto il mondo, se non ha il
tempo di farlo per colpa delle preoccupazioni
materiali? Cosa significa mettere al mondo
una creatura razionale per poi
farla lavorare e sfacchinare? Che modo è
questo di trattare l'uomo?» Su questo
punto sei inesauribile. « La maggior parte
degli uomini », dici, « vive per avere il
pane quotidiano; quando l'ha avuto vive
per avere un buon pane quotidiano; e
quando ha ottenuto anche questo, muore. »
Con genuina commozione perciò lessi
qualche tempo fa nel giornale un annuncio
col quale una moglie annunciava la
morte di suo marito. Invece di lamentarsi
prolissamente sul doloroso fatto di aver perduto il migliore dei mariti e il
padre più affettuoso, si esprimeva molto brevemente: questa morte era tanto
dolorosa perché suo marito proprio da poco
tempo era riuscito a procurarsi una buona
posizione. In questo sta molto più di
quello che la vedova addolorata o il
solito lettore di annunci sul giornale vi veda.
Questa considerazione si lascia sviluppare
come una dimostrazione dell'immortalità
dell'uomo. La si potrebbe enunciare cosí :
la missione di ogni uomo è quella di trovare
un buon sostentamento. Se egli muore prima
di averlo trovato, non ha
realizzato la sua missione, e ognuno è
indotto a credere che egli, in un altro mondo,
debba realizzarla. Se egli invece
raggiunge una buona posizione, e realizza la sua
missione, la sua stessa missione non può
volere ch'egli muoia, ma anzi, che egli
viva e goda della sua buona posizione:
ergo l'uomo è immortale. Questa dimostrazione
la si potrebbe chiamare la dimostrazione
popolare o la dimostrazione
coll'argomento della posizione. Se questa
dimostrazione la si aggiunge a tutte le
precedenti, ogni dubbio assennato intorno
all'immortalità dovrebbe esser liquidato.
Questa dimostrazione la si può benissimo
mettere in relazione colle precedenti,
anzi, qui si mostra proprio nella sua
piena gloria, perché come conclusione si allaccia
alle altre e le dimostra. Le altre
dimostrazioni partono dal principio che
l'uomo è un essere ragionevole; se
qualcuno dovesse dubitarne, la dimostrazione
coll'argomento della posizione gli
verrebbe in aiuto e dimostrerebbe questo
postulato col seguente sillogismo: Dio dà
la ragione a colui al quale concede una
buona posizione; all'uomo cui concede una
buona posizione Dio dà, ergo, la
ragione. Tutto questo la vedova addolorata
l'ha sentito confusamente, ha sentito
quanto di profondamente tragico vi sia
nelle contraddizioni della vita. » Riguardo a
questo problema non sai far altro che
tirar fuori dello scherno. Probabilmente non
pensi nemmeno che la tua concezione possa
essere utile o istruttiva per qualcuno.
Ma neppure immagini che con queste tirate
tu possa fare del male. Un uomo infatti
che già sente disgusto abbastanza per
esser costretta a lavorare per vivere, sentendo
l'ardore non privo di spirito, col quale
tu difendi il suo segreto pensiero, ascoltando
il tuo scherno piccante, diventerebbe
ancora più impaziente, ancor più indignato.
Dovresti perciò star bene attento a quello
che dici.
Sulla via battuta fin qui il nostro eroe
cercherà invano dei consigli. Sentiamo ora
cosa gli risponderebbe un moralista. La
sua risposta sarebbe la seguente : è dovere
di ogni uomo lavorare per vivere. Se non
avesse altro da dire probabilmente
interloquiresti : « ecco le vecchie
chiacchiere intorno a l'eterno dovere; dappertutto
e sempre dovere! non ci si può immaginare
nulla di più noioso di questo letto di
Procuste che soffoca e opprime ogni forma
di vita ». Ricordati, di grazia, che il
nostro eroe non ha denaro, che
quell'esteta senza cuore non ne aveva da donargli, e
che anche tu non ne hai di troppo, da
potergli assicurare l'avvenire. Se egli dunque
non vuol mettersi a sedere a pensare cosa
avrebbe fatto se avesse avuto denaro,
bisogna che pensi a un'altra via d'uscita.
Osserva inoltre che l'uomo etico gli si
rivolge con tutta cortesia, non lo tratta
come una eccezione, non gli dice : « Dio
buono, dato che siete tanto sfortunato,
cercate di abituarvi ». Al contrario,
considera l'esteta un'eccezione, e
afferma: è dovere di ogni uomo lavorare per
vivere; se per un uomo questo non è
necessario, è un'eccezione, ma il fatto di
essere un'eccezione non è qualcosa di
grande ma una cosa meschina. Perciò quando
l'uomo vuol considerare la questione
eticamente, vedrà il fatto di avere del denaro
come un'umiliazione. Quando egli lo vede
in questo modo, egli non si ingannerà
circa i favori del destino. Egli si
umilierà dei favori ricevuti, e fatto questo, sarà
nuovamente elevato dal pensiero che
l'esser stato favorito gli impone un più alto
compito.
Quando l'individuo etico, presso il quale
il nostro eroe cercò degli schiarimenti, sa
personalmente quel che significhi lavorare
per vivere, le sue parole hanno un peso
anche maggiore. Sarebbe desiderabile che
gli uomini, a questo riguardo, avessero
maggior coraggio; la ragione per cui si
sente tanto spesso difendere ad alta voce la
spregevole opinione che il denaro sia la
cosa principale, risiede nel fatto che coloro
che devono lavorare mancano della forza
etica che occorre per riconoscere.
l'importanza del lavoro, mancano della
convinzione etica della sua importanza.
Quelli che nuocciono al matrimonio non
sono i seduttori, ma i mariti vili. Così
anche qui. Quei discorsi spregevoli non
fanno del male, ma fanno del male coloro
che, costretti a lavorare per vivere, un
momento riconoscono l'utilità del lavoro, e
poi, subito dopo, si lamentano, invidiano
la vita oziosa, sospirano e dicono : « la
cosa più bella però è di essere
indipendenti ». Che stima può avere per la vita un
giovane, quando sente gli anziani parlare
in questo modo! Anche qui hai
danneggiato te stesso con tutti i tuoi
esperimenti, perché sei venuto a sapere molte
cose che non sono affatto buone né
allegre. Tu sai molto bene tentare l'uomo per
fargli confessare che nel profondo del suo
cuore egli preferirebbe di non lavorare, e
così trionfi. …
Il dovere di lavorare per vivere esprime
l'universale umano, e lo esprime anche nel senso che è una manifestazione della
libertà. Proprio col lavoro l'uomo si rende
libero; col lavoro signoreggia la natura,
col lavoro mostra che sta più in alto della
natura.
Perde forse la vita la sua bellezza,
perché l'uomo deve lavorare per vivere? Sono ancora al vecchio punto: cosa si
intende per bellezza? È bello vedere che i gigli nei campi, benché non filino e
non tessano, sono vestiti più splendidamente di
Salomone in tutta la sua pompa; è bello
vedere gli uccelli trovare senza affanno il
loro nutrimento; è bello vedere Adamo ed
Eva nel paradiso, dove potevano avere
tutto quello che volevano; ma è più bello
ancora vedere un uomo che col suo
lavoro conquista quello che gli abbisogna.
E bello vedere la provvidenza che sazia
tutti e pensa a tutto; ma è più bello
ancora vedere un uomo che è, per così dire, la
propria provvidenza. In questo modo l'uomo
è più grande di ogni altra creatura, nel
provvedere a se stesso. E bello vedere un
uomo che ha dell'abbondanza di cui si è
provveduto da sé; ma è bello anche vedere
un uomo che opera il miracolo più
grande, di trasformare il poco in molto. E
una espressione della perfezione umana
che l'uomo sappia lavorare; ed è
un'espressione anche più alta, che egli debba
lavorare.
Se il nostro eroe vorrà adottare questa
concezione, egli non si sentirà indotto a
desiderare una sostanza acquistata
dormendo, non si sbaglierà sulle condizioni
della vita, sentirà la bellezza del
lavorare per vivere, sentirà in ciò la sua dignità di
uomo : non costituisce la grandezza della
pianta che essa non tessa, ma è la sua
imperfezione, che essa non possa tessere.
Egli non sentirà il desiderio di stringere
amicizia con quel ricco esteta. Mediterà
sulla vera grandezza e non si lascerà
impressionare dalle persone danarose. …
Allora forse il nostro eroe si deciderà a
lavorare, ma vorrebbe esser liberato dalle
preoccupazioni materiali. Io non ho mai
avuto preoccupazioni materiali; sebbene in
certo modo io debba lavorare per vivere,
ho sempre avuto dei proventi abbondanti;
perciò non posso parlare per esperienza,
ma ho sempre avuto gli occhi aperti per
quello che in questo v'è di triste, ma
anche gli occhi aperti per quello che v'è di
bello, di educativo, di nobilitante;
perché credo che non vi sia preoccupazione
altrettanto educativa. Ho conosciuto
uomini che io non chiamerei affatto vili o
effeminati; uomini che non pensano affatto
che la vita debba trascorrere senza
lotta, che sentono d'aver forza, coraggio
e voglia di lottare là dove altri
cederebbero; ma ho anche sentito che
dicono: purché Dio mi liberi da
preoccupazioni materiali! Non vi è nulla
che maggiormente soffochi ciò che di più
elevato è nell'uomo. In occasione di
questi discorsi ho spesso pensato (ciò che
anche la mia vita tanto spesso mi ha dato
occasione di riconoscere) che non vi è
nulla di così infido come il cuore umano.
Si ha il coraggio di arrischiarsi nelle lotte
più pericolose, ma non si vogliono
affrontare le preoccupazioni materiali; ciò
nonostante si pretende che sia merito più
grande vincere questa lotta piuttosto di
quella. Ma questo è troppo facile; si
sceglie una lotta più facile che agli occhi della
gente sembra più pericolosa; si fa credere
a se stessi che sia vero; si vince e si è un
eroe, e un eroe ben diverso da chi vince
in quell'altra lotta meschina, indegna di un
uomo. Davvero, quando oltre alle
preoccupazioni materiali si ha nel proprio intimo un nemico nascosto come
questo con cui lottare, non è meraviglia se si desidera
farla finita con questa lotta. Però
bisognerebbe essere tanto onesti verso se stessi da
confessare il motivo per cui si voleva
schivare questa lotta : che essa è molto più
dura di ogni altro combattimento; ma se è
così, anche la vittoria è molto più bella.
… La lotta per il sostentamento materiale
ha questo di sommamente educativo, che la
ricompensa è assai meschina, anzi, non
esiste; si lotta per procurarsi la possibilità
di poter continuare a lottare. Più è
grande, esteriore, la ricompensa della lotta, tanto
più il lottatore s'affida a tutte le
ambigue passioni che albergano in ogni uomo.
Ambizione, vanità, orgoglio, sono forze
che hanno una elasticità enorme e possono
spingere l'uomo lontano; chi lotta per le
preoccupazioni materiali vede presto che
queste passioni lo abbandonano, perché
come può credere che una lotta come la
sua possa interessare gli altri, o destare
la loro ammirazione? Se egli non possiede
altre forze è perduto. La ricompensa è
molto piccola; perché quando ha lavorato,
servito e faticato, sarà riuscito soltanto
a procacciarsi il necessario — il necessario
per mantenersi in vita, per poter di nuovo
lavorare e faticare. Ecco perché le
preoccupazioni materiali sono tanto
nobilitanti ed educative, perché non
permettono che l'uomo inganni se stesso. …
Dunque il nostro eroe ora è pronto a
lavorare, non perché per lui è una necessità,
ma perché egli la ritiene la cosa più
bella e perfetta. (Che egli giudichi a questo
modo perché dopo tutto, non può cambiare
la sua sorte, è uno degli equivoci
sciocchi e maligni, che pongono il valore
dell'uomo fuori di lui, nel casuale.) Ma
proprio perché vuol lavorare, il suo
lavoro potrà diventare un lavoro e non una
schiavitù. Egli perciò esige
un'espressione più alta per il suo lavoro, un'espressione
che indichi la relazione del suo lavoro
colla sua persona e con quella degli altri
uomini, un'espressione che caratterizzi il
lavoro come la sua gioia e, nello stesso
tempo, come la sua dignità. Qui è
necessaria un'altra, riflessione. Certo il nostro
giovane troverà che è al di sotto della
sua dignità rivolgersi all'esperto gentiluomo
dei 3.000 talleri : ma il nostro eroe non
è diverso dalla maggior parte degli uomini.
Egli è stato si preso per tempo, ma però
ha assaporato le prime dolcezze del vivere
estetico, ed egli è, come la maggior parte
degli uomini, ingrato. Cosí nonostante
che sia stato il moralista ad aiutarlo
nelle sue precedenti difficoltà, non è a lui che
si rivolge per primo. Forse, nel suo
intimo è fiducioso che il moralista, alla fin fine,
lo potrà aiutare di nuovo a tirarsi
d'impaccio; perché il nostro eroe non è poi tanto
meschino da non riconoscere di buon grado
che il moralista veramente l'ha aiutato
ad uscire dalle sue difficoltà, benché non
avesse del denaro da dargli. Egli, dunque,
si rivolge a un esteta un po' più umano.
Forse anche questi saprà esporgli qualche
cosa intorno all'importanza del lavoro:
senza lavoro alla fine la vita diventa noiosa.
« Il proprio lavoro però », egli osserva,
« non dev'essere lavoro nel senso più
stretto, ma deve sempre poter venire
considerato come piacere. Si scopre in sé
qualche talento aristocratico, col quale
distinguersi dalla massa. Questo lo si educa
non alla leggera (perché altrimenti ci si
stanca troppo presto), ma con ogni serietà
estetica. Così la vita acquista un nuovo
significato, perché uno ha trovato il proprio
lavoro, un lavoro che, a dir la verità, è
il proprio piacere. Colla propria
indipendenza lo si cura, perché esso,
indisturbato dalla vita, si possa sviluppare in
tutto il suo rigoglio. Questo talento
pertanto non lo si fa diventare un legno che ci
tiene a galla nel naufragio della vita, ma
un'ala colla quale ci si eleva sopra la terra;
non lo si fa diventare un robusto cavallo
da soma, ma un cavallo da parata. » Il
nostro eroe purtroppo, non ha nessun
talento aristocratico: è un uomo
comunissimo, come tutti gli altri. Allora
l'esteta non sa trovare nessun'altra via
d'uscita per lui che quella « di
accontentarsi di trovarsi coinvolto nel triviale
destino della massa di essere una macchina
da lavoro. Non si perda di coraggio;
anche questo ha la sua importanza ed è
molto dignitoso e lodevole. Divenga un
uomo bravo e laborioso, un membro utile
della società. Fin d'ora mi compiaccio di
vederla nel suo lavoro perché quanto più è
varia la vita, tanto più è interessante per
lo spettatore. E per questo che io e tutti
gli esteti detestiamo l'uniforme : sarebbe troppo noioso veder tutti vestiti
alla stessa maniera! Così se ognuno sceglie la sua
professione nella vita, questa diventa
tanto più bella per me e per i miei compagni
che per professione osserviamo la vita ».
Spero che il nostro eroe diventi un pò
impaziente a essere trattato in questo
modo, che si indigni della sfacciataggine di
una simile suddivisione degli uomini. Si
aggiunga poi che anche la concezione di
questo esteta presupponeva
quell'indipendenza che egli non ha.
Forse non si saprà ancora decidere a
rivolgersi al moralista e farà ancora un altro
tentativo. Incontra un tale che dice: «
bisogna lavorare per vivere, ormai la vita è
stata stabilita così ». Qui gli pare di
aver trovato quello che cerca, perché questa è
proprio anche la sua opinione. E farà
attenzione alle sue parole. Quello continua : «
Bisogna lavorare per vivere, ormai la vita
è stata stabilita così; questo è l'aspetto
banale dell'esistenza. Si dormono sette
ore al giorno, è tempo perso, ma dev'essere
così; si lavorano cinque ore al giorno, è
tempo perso, ma dev'essere così. Con
cinque ore di lavoro si ha di che
sostentarsi, e, risolto questo problema, si comincia
a vivere. E preferibile che il proprio
lavoro sia quanto mai noioso ed insignificante;
deve infatti solo bastare per il
sostentamento. Se si hanno delle doti speciali, non si
commetterà mai verso di queste il peccato
di farle divenir sorgente di lucro. No,
bisogna accarezzare il proprio talento, lo
abbiamo per noi stessi, esso ci dà più
gioie di quante un bambino ne dia alla
propria madre; lo si educa, lo si sviluppa
nelle dodici ore del giorno, si dorme per
7 ore, si è inumani per cinque; e così la
vita diventa abbastanza sopportabile, anzi
quasi bella; perché non saranno poi tanto
terribili quelle cinque ore di lavoro,
poiché, dato che i propri pensieri non sono mai
nel lavoro, si raccolgono le forze per
quell'occupazione che è il proprio piacere ».
Il nostro eroe è sempre allo stesso punto.
Non ha nessuna dote speciale per
riempire le 12 ore che è in casa; inoltre
ha già una concezione più bella del lavoro,
una concezione che non vuole abbandonare.
Allora forse si deciderà a cercar di
nuovo l'aiuto del moralista. Questi parla
brevemente : «è un dovere di ogni uomo
avere un mestiere». Di più non può dire.
L'etica come tale è sempre astratta; ma un
mestiere in abstracto non esiste
per tutti gli uomini; al contrario ogni uomo,
secondo la concezione etica ha un mestiere
particolare. Quale mestiere debba
scegliere il nostro eroe? Su questo il
moralista non lo può illuminare. Per far questo
è necessaria una conoscenza profonda
dell'estetica in tutta la sua personalità; e
anche se il moralista avesse questa
conoscenza si asterrebbe dallo scegliere per un
altro, poiché egli, a questo modo,
rinnegherebbe la sua concezione di vita. Il
moralista insegna soltanto che esiste una
vocazione per ognuno, e quando il nostro
eroe ha scelto la sua, egli gli raccomanda
di sceglierla eticamente. Quello che
l'esteta infatti diceva intorno ai talenti
aristocratici, è un parlare confuso e scettico
di quello che l'etica chiama mestiere. La
concezione dell'esteta vede la vita dal
punto di vista della differenza: alcuni
hanno talento, altri non l'hanno. Eppure
quello che li divide, a guardar bene, è un
più o un meno, una determinazione
quantitativa. Per questo è una
arbitrarietà, in questo più o meno, voler fermare un
punto nel quale il talento dovrebbe
cominciare a cessare; eppure il nerbo della loro
concezione di vita sta proprio in questa
arbitrarietà. La loro concezione di vita
perciò mette in tutta l'esistenza una
discordia, che essi non si sentono in grado di
togliere, mentre con leggerezza e
freddezza tentano di armarsi contro ad essa.
L'etica, al contrario, cerca di conciliare
l'uomo colla vita, poiché dice: ogni uomo
ha un mestiere. Essa non annulla le
differenze, ma dice: in tutte le differenze v'è un
universale, e in esso si fondano i vari
mestieri. Il talento più eminente è un
mestiere, e l'individuo che lo possiede
non può perder di vista la realtà, non può
porsi fuori dell'universale umano, perché
il suo talento è un mestiere. Anche
l'individuo più insignificante ha un
mestiere; egli non dev'essere espulso, non
dev'essere mandato a vivere tra le bestie,
non sta al di fuori dell'universale umano,
perché ha un mestiere.
Il principio etico, che ogni uomo ha un
mestiere esprime l'esistenza di un ordine
razionale delle cose in cui ognuno, se
vuole, riempie il suo posto in modo da
esprimere insieme l'universale umano e
l'individuale. Con questa considerazione è diventata meno bella la vita? No di
certo. Al posto di una aristocrazia il cui
significato è fondato arbitrariamente
sulla differenza casuale del talento, abbiamo
piuttosto un regno di Dei. In quale
concezione la vita ci mostra un aspetto più bello e più lieto?
Non appena il talento non è più concepito
come mestiere (se viene concepito come
mestiere, ogni uomo ha un mestiere) esso
diviene assolutamente egoistico. Perciò
ognuno che giustifica il suo modo di
vivere in virtù di un talento, difende, come
meglio può, un'esistenza da usurpatore.
Egli non ha un'espressione più alta per il
talento se non quella che è un talento.
Questo talento vuol dunque mettersi in
mostra come qualcosa di particolare, di
eccezionale. Ogni talento perciò propende
a divenire il centro dell'esistenza, e
ogni condizione deve esser utilizzata per
favorirlo; perché solo in questa selvaggia
corsa in avanti sta il vero godimento
estetico del talento. ...
Il nostro eroe cosí ha trovato quello che
cercava, un lavoro di cui vivere. Nello
stesso tempo questo lavoro ha acquistato
un significato più profondo per la sua
personalità: è il suo mestiere e il suo
perfezionamento soddisfa tutta la sua
personalità. Egli infine è entrato,
mediante il suo lavoro, in un rapporto ben più
importante cogli altri uomini; siccome il
suo lavoro è il suo mestiere, egli con
questo è messo sullo stesso gradino, in
quello che è essenziale, con tutti gli altri
uomini; egli così, col suo lavoro,
esercita il suo mestiere, come tutti gli altri. Egli
esige questo riconoscimento, altro non
esige, perché questo è l'assoluto. «Se il mio
mestiere è meschino » dice, « pure posso
essere fedele al mio mestiere, e così, per
l'essenziale, sono grande come il più
grande, senza per questo essere, anche un solo
istante, tanto sciocco da voler
dimenticare le differenze; io stesso lo sconterei più
degli altri, perché se le dimenticassi, vi
sarebbe un mestiere astratto per tutti, ma un
mestiere astratto non è un mestiere, e io
avrei di nuovo perduto tanto quanto i più
grandi. Se il mio mestiere è meschino,
pure posso essergli infedele, e se lo sono,
commetto un peccato altrettanto grande di
quello che commette l'uomo più grande.
Non sarò tanto sciocco da dimenticare le
differenze o da credere che la mia
infedeltà debba avere delle conseguenze
tanto corruttrici per il tutto come
l'infedeltà del più grande; finirei con
scordarlo, perché io stesso sarei quello che
con ciò perderebbe di più. »
La concezione etica, che ogni uomo ha un
mestiere, ha perciò due vantaggi nei
confronti della teoria estetica del
talento. Essa mostra che non vi è nulla di casuale
nell'esistenza, ma solo l'universale, e
quest'ultimo lo mostra nella sua vera bellezza.
Perché il talento è bello solo quando è
interpretato come mestiere, e la vita è bella
solo quando ognuno ha un mestiere. Siccome
le cose stanno cosí, ti pregherei di
non disdegnare una piccola osservazione
empirica, che tu in rapporto alla
concezione principale avrai la bontà di
considerare superflua. Quando qualcuno ha
un mestiere, è lieto di avere nella vita
una norma al di fuori di sé, che, senza
renderlo uno schiavo, pure
approssimativamente gli mostra quello che deve fare.
Egli sa come suddividere il suo tempo, sa
quando deve cominciare. Se una volta
non ha successo, spera di poter far meglio
un'altra volta, e la prossima volta non è
molto lontana nel tempo. Chi invece non ha
nessun mestiere, se vuole porsi un
compito, molto sovente deve lavorare ben
altrimenti. Non ha nessuna interruzione
nel lavoro, a meno che voglia
interrompersi da sé. Se non vi riesce, tutto va a
monte, e fa grandissima fatica a
ricominciare di nuovo, poiché gli manca
l'occasione. Allora è facilmente portato a
diventare un pedante, per non diventare
un fannullone. E assai comune accusare di
pedanteria le persone che hanno dei
compiti determinati, di regola persone del
genere non possono assolutamente
diventare pedanti. Chi invece non ha
compiti determinati, è portato a diventarlo,
per far da contrappeso alla troppo grande
libertà, nella quale facilmente si può
sperdere. Gli si perdona facilmente la sua
pedanteria, perché è segno di qualche
cosa di buono : ma d'altra parte deve
essere considerata una punizione, perché ha
voluto emanciparsi dall'universale. …
Ritorniamo al nostro eroe. E strano, ma né
tu, né io, né egli stesso, né il perspicace
esteta abbiamo osservato che il nostro
eroe possiede un talento straordinario. La
spiritualità nell'uomo può esser latente
per un lungo periodo, fino a che la sua
silenziosa crescita è giunta a un certo
punto in cui improvvisamente si annuncia in
tutto il suo rigoglio. L'esteta dirà: «
ormai è troppo tardi, ormai è rovinato, peccato
per lui! ». Il moralista invece direbbe:
«è stato proprio un bene, poiché ora che ha
capito il vero, il suo talento non potrà
più diventare una trappola davanti al suo
piede; vedrà che non occorre né
indipendenza né cinque ore di lavoro da schiavi
per lasciarlo crescere in pace, ma che il
suo talento è proprio il suo mestiere ».
Il nostro eroe lavora dunque per vivere;
questo lavoro è anche il suo piacere; egli
attua il suo mestiere, compie il suo
lavoro, e, per dirla in parole che a te fan orrore,
ha di che sostentarsi. Non perdere la
pazienza: invece dei doni alati della poesia
egli ha ottenuto un buon stipendio con cui
vivere dignitosamente. E poi? Sorridi;
pensi che io abbia ancora qualche cosa da
dire; inorridisci già temendo la mia
prosaicità ed esclami : « ora non rimane
altro che farlo sposare; ecco, prego, fategli
subito le pubblicazioni, io non avrò nulla
da obiettare al suo ed al tuo pio proposito.
È incredibile quale logica assennata vi
sia nella esistenza: di che vivere e una
moglie; perfino quel poeta ci canta a
chiare note che dopo il pane quotidiano ci
vuole la moglie. Voglio protestare per una
cosa sola, che tu chiami eroe il tuo
cliente. Sono stato molto docile e
compiacente, non l'ho voluto condannare
irrevocabilmente, ho sempre sperato in
lui, ma ora mi devi proprio scusare se me
ne vado per la mia strada e non ho più
voglia di ascoltarti. Ho ogni stima per
l'uomo che si guadagna da vivere e per il
marito, ma non chiamarlo eroe, e
speriamo che nemmeno lui pretenda di
esserlo ». Con ciò vorresti dire che per
poter esser chiamato eroe sia necessario
qualche cosa di straordinario. In questo
caso hai veramente delle magnifiche
probabilità. Supponiamo che ci voglia molto
coraggio per fare le cose più comuni (chi
mostra molto coraggio è un eroe, lo
sappiamo). Perché uno possa essere
chiamato un eroe, non bisogna tanto riflettere a
quello che fa quanto al modo in cui lo fa.
Uno può conquistare regni e paesi senza
essere un eroe, un altro invece nel
signoreggiare il suo carattere può rivelarsi un
eroe. Uno può mostrare coraggio facendo
cose straordinarie, un altro facendo cose
comuni. Ciò che importa è il modo in cui
agisce. Non vorrai negare che il nostro
eroe ha mostrato finora una certa
inclinazione per fare cose straordinarie; anzi non
oso ancora garantire del tutto per lui. Su
questo, probabilmente, hai fondato la tua
speranza che egli divenga un vero eroe;
per questo io ho temuto che egli divenga
un buffone. Io ho mostrato per lui la
stessa indulgenza tua, fin dal principio ho
sperato in lui, l'ho chiamato eroe benché
parecchie volte avesse dato segno di
volersi rendere indegno di questo titolo.
Perciò se riesco a farlo sposare, lo lascio
tranquillamente scappar dalle mie mani e
lo affido contento a quelle di sua moglie.
A causa della sua precedente
insubordinazione egli si è qualificato in modo da
essere messo sotto particolare sorveglianza.
Questo lavoro lo assumerà sua moglie,
e tutto andrà bene; poiché ogni volta che
si sentirà tentato ad essere una persona
straordinaria sua moglie immediatamente lo
orienterà di nuovo, e cosí egli, in tutta
calma, meriterà il nome di eroe, e la sua
vita non sarà senza prodezze. E cosí io non
ho più altro da fare con lui; a meno che
egli non si sentisse attratto verso di me,
cosí come anch'io mi sentirei attratto
verso di lui, se egli persegue nel suo eroico
cammino. Così in me vedrà un amico, e la
nostra relazione avrà il suo significato.
Egli si saprà rassegnare quando tu ti
ritirerai da lui, tanto più che facilmente
potrebbe diventargli un po' sospettoso, il
tuo compiacimento e il tuo
interessamento. A questo riguardo gli
faccio i miei auguri ed auguro la medesima
fortuna ad ogni marito.
Ma siamo ancora ben lontani da quella
conclusione. Tu puoi ancora sperare un
pochino e io, per parte mia, devo ancora
temere un pochino. Il nostro eroe infatti è
un uomo come tutti gli altri, e ha perciò
una certa tendenza per lo straordinario;
nello stesso tempo è un po' ingrato, e
perciò vorrà di nuovo cercare la sua fortuna
presso gli esteti, prima di cercar rifugio
presso il moralista. Egli sa, naturalmente, abbellire la sua ingratitudine;
poiché, egli dice : « il moralista veramente mi tolse dal mio imbarazzo; la
concezione che vede il senso della vita nell'agire la devo a lui e mi soddisfa
pienamente; la sua serietà mi eleva. Invece per quel che riguarda
l'amore, mi piacerebbe godere la mia
libertà, seguire del tutto gli impulsi del mio
cuore; all'amore non piace la grave
serietà, esso esige la grazia e la leggerezza
dell'esteta ».
Vedi, ho ancora parecchi guai da
sormontare con lui. Pare quasi che non abbia
capito quanto precede. Egli continua a
credere che l'etica stia al di fuori
dell'estetica, e questo, nonostante che
egli stesso debba confessare che è per la
concezione etica che la vita acquista la
sua bellezza. Ma stiamo a vedere! ed ora
soffia un po' nel fuoco, così a me non
mancheranno le deviazioni.
Benché tu non abbia mai risposto a una mia
lettera precedente, né verbalmente né
per iscritto, credo che ricorderai il suo
contenuto. Cercai di mostrare che il
matrimonio, proprio per il suo carattere
etico, è l'espressione estetica più esatta
dell'amore. Probabilmente mi farai credito
se io spero di poter persuadere il nostro
eroe con assai minor fatica di quella che
impiegai per renderti comprensibile questa
mia concezione. Egli si è rivolto agli
esteti e li ha poi abbandonati; da loro ha
imparato non quello che deve fare, ma
piuttosto quello che non deve fare. È stato
per breve tempo testimone dell'astuzia di
un seduttore, ha ascoltato i suoi viscidi
discorsi, ma ha imparato a disprezzare la
sua arte, ha imparato a indovinare i suoi
pensieri, a vedere che è un bugiardo, un
bugiardo quando finge amore, quando si
diletta di sentimenti nei quali forse una
volta c'era della verità, quando
appartenevano a un'altra; egli è due volte
mentitore, verso quella alla quale vuol far
credere di nutrire questi sentimenti, e
verso quella alla quale appartengono di
diritto; ed è un bugiardo quando fa
credere a se stesso che nel suo piacere vi sia
qualche cosa di bello. Ha imparato a
disprezzare l'astuto scherno che dell'amore
vuol fare un gioco da bambini, che fa solo
ridere. …
Per breve tempo si è lasciato cullare
dalla sfiducia nella vita, che gli vuol insegnare
che tutto è vanità, che il tempo cambia
ogni cosa, e che non bisogna fidarsi di
costruire in nessun luogo, e perciò non
far mai dei piani per tutta la vita. La pigrizia
e la viltà in lui trovarono questa
saggezza accettabilissima : è un abito comodo con
cui rivestirsi, e non disdicevole agli
occhi degli uomini. Ma quando l'ha considerata
più a fondo, vi ha visto dentro
l'ipocrisia, la frenesia del piacere nelle vesti
dell'umiltà, la bestia da preda vestita da
pecora, e ha imparato a disprezzarla. Ha
compreso che è offensivo, e perciò non
bello, voler amare una persona seguendo le
forze oscure nel proprio essere, e non
seguendo la coscienza; voler amare in modo
che si possa pensare la possibilità della
fine di questo amore, e che poi si osi dire:
io non ci posso fare nulla, i sentimenti
non sono in potere dell'uomo. Ha capito che
è offensivo, e perciò brutto, voler amare
con una parte dell'anima, e non con tutta
l'anima; far del proprio amore un momento,
e ciononostante prendere tutto l'amore
di un altro; voler essere in un certo
grado, un mistero e un segreto. Ha compreso
che sarebbe brutto se avesse cento braccia
per poterne in una volta abbracciare
molte; egli ha un petto solo e desidera
abbracciare solo una donna. Ha compreso
che sarebbe un'offesa volersi legare a
un'altra persona come ci si lega alle cose
finite e casuali, condizionatamente,
perché si possa, qualora si mostrassero delle
difficoltà, togliersi d'impiccio. Egli non
crede che sia possibile che colei ch'egli
ama possa cambiarsi se non in meglio; e se
questo dovesse succedere, egli crede
nella potenza della relazione perché tutto
ritorni ad essere come prima. Riconosce
che quello che l'amore esige è come la
tassa del tempio, un'imposta sacra che si
paga con una moneta siffatta che tutta la
ricchezza del mondo non basta a far da
contrappeso se il conio è falso.
Come vedi, il nostro eroe è sulla buona
strada. Ha perso la fede nella indurita
assennatezza degli esteti e non crede più
al mito degli oscuri sentimenti, che
sarebbero troppo delicati per venir
tradotti in dovere. Si è accontentato della
spiegazione datagli dal moralista, che è
dovere di ogni uomo sposarsi; e ha
compreso bene, che colui che non si sposa,
non è colpevole se non in quanto rifiuta liberamente il matrimonio; in questo
caso egli pecca contro ciò che è universalmente
umano, che anche per lui costituisce un
compito da tradurre in realtà; e ha
compreso che l'universale si realizza nel
matrimonio. Il moralista non può portarlo
oltre, perché l'etica, come dicemmo, è
sempre astratta, e può indicargli solo
l'universale. Cosí non gli può affatto
dire con chi si debba sposare. Per far ciò
dovrebbe avere una esatta conoscenza di
tutta l'estetica in lui; ma il moralista non
l'ha, e, anche se l'avesse, si guarderebbe
bene dal distruggere le proprie teorie
coll'assumersi lui la scelta. Perciò
quando ha scelto, l'etica sanzionerà la scelta e
darà al suo amore la consacrazione più
alta. In un certo grado può essergli d'aiuto
anche nello scegliere, poiché lo libererà
dalla superstizione della casualità (una
scelta soltanto estetica è propriamente
una scelta infinita e quindi casuale).
Inconsciamente l'etica è d'aiuto ad ogni
uomo, ma siccome agisce inconsciamente,
l'aiuto dell'etica prende l'aspetto di una
svalutazione, quasi esprimesse solo la
meschinità della vita, mentre è un
elevamento, che mette in valore la divinità della vita.
« Un uomo con questi ottimi principi »
dici, « lo si potrà certo lasciar andare per
conto suo; da lui non ci si può più
attendere nulla di grande. » Anch'io sono di
questa opinione, e spero che i suoi
principi siano tanto solidi da non venir scossi
dal tuo scherno. Però vi è ancora una
pericolosa scogliera intorno alla quale
dobbiamo navigare, prima di essere in
porto. Il nostro eroe infatti ha sentito un
uomo del cui giudizio e del cui sapere
egli ha grande stima, dire: siccome col
matrimonio ci si lega per tutta la vita ad
una persona, bisogna esser molto prudenti
nella scelta; bisogna cercare una ragazza
fuori dell'ordinario, che proprio per le sue
doti straordinarie ci dia affidamento per
tutto il nostro avvenire. Questo
ragionamento ha fatto il suo effetto. Non
ti vien voglia di sperare ancora un po' per
il nostro eroe? Io per conto mio temo per
lui.
Esaminiamo la cosa fino in fondo. Tu credi
che nel solitario silenzio del bosco abiti
una ninfa, un essere, una fanciulla.
Orbene, questa ninfa, questa fanciulla, questo
essere abbandona la sua solitudine ed
appare qui a Kopenhagen. .. Quando essa è
apparsa, il nostro eroe è diventato il
fortunato al quale essa ha donato il proprio
amore. Dobbiamo trovarci d'accordo su
questo? Io non ho nulla da obiettare,
perché sono già sposato. Tu invece forse
ti sentirai un poco offeso perché un uomo
tanto comune è stato preferito a te. Ma
siccome ti interessi anche del mio cliente, e
questa è l'unica via che gli rimanga per
diventar un eroe ai tuoi occhi, gli concedi il
tuo consenso. Vediamo ora se il suo amore,
il suo matrimonio diventano anch'essi
una cosa bella. L'essenza del suo amore e
del suo matrimonio sta nel fatto che la
fanciulla è l'unica in tutto il mondo.
L'essenza sta dunque nella sua eccezionalità;
felicità pari alla sua non la si può
trovare al mondo, e proprio in questo sta la sua
felicità. Egli è tentato a non volersi
affatto sposare con lei: non sarebbe una
profanazione di questo amore così
eccezionale dargli un'espressione cosí comune e
volgare come il matrimonio? Non sarebbe
impudente esigere che due amanti come
questi debbano entrare nella grande
compagnia del matrimonio, di modo che, in un
certo senso, non vi sarebbe altro da dire
di loro, se non quello che si dice di ogni
coppia di sposi, cioè che sono sposati?
Questo probabilmente lo troverai molto ben
detto, e l'unica obiezione che avresti da
fare sarebbe che è ingiusto che un pezzente
come il mio eroe debba portar via una
fanciulla come quella; se egli invece fosse
stato un uomo straordinario, come sei per
esempio tu, o un uomo straordinario
quanto lo è lei, tutto sarebbe a posto, e
la loro relazione amorosa sarebbe la più
perfetta che si possa pensare.
Il nostro eroe si è messo in una
situazione critica. Intorno alla fanciulla vi è un
parere solo : è una fanciulla
straordinaria. Ma però, il nostro eroe ha egli stesso
riconosciuto la bellezza del matrimonio.
Cosa ha dunque da obiettare al
matrimonio? Lo deruba forse di qualche
cosa? Toglie bellezza a lei? Toglie
qualche differenza tra lei e le altre
donne? Niente affatto. Ma gli mostra tutto
questo come casualità fin che non si è
sposati. Solo quando si scorge anche
nell'eccezione l'espressione
dell'universale, se ne prende saldamente possesso. L'etica gli insegna che la relazione è
l'assoluto. La relazione è infatti l'universale.
Gli toglie la gioia vanitosa di essere lo
straordinario, per dargli la vera gioia di essere l'universale. Lo mette in
armonia con tutta l'esistenza; gli insegna a rallegrarsi di essa. Come
eccezione, egli è in conflitto con l'esistenza : se la sua
felicità è quella di essere fuori
dell'universale, egli deve divenir cosciente della
propria esistenza come di un tormento per
l'universale — e deve in verità essere
una sfortuna essere tanto fortunato che la
propria fortuna, vista propriamente, è
diversa da quella di tutti gli altri. Come
eccezione egli acquista la bellezza casuale
e perde la vera bellezza. Egli lo
comprenderà e ritornerà al postulato etico, che è
dovere di ogni uomo lavorare e sposarsi; e
vedrà così che non solo ha la verità
dalla sua, ma anche la bellezza. Lascia
dunque che egli abbia quella meraviglia;
non verrà ingannato dalle differenze. Si
rallegrerà intimamente per la bellezza, per
la grazia, per la ricchezza dello spirito,
e per il calore dei sentimenti che essa
possiede, sentirà di essere felice, ma
essenzialmente, dirà, non sono diverso da
qualunque altro marito; « perché la
relazione è l'assoluto ». Supponiamo che abbia
una fanciulla meno dotata; sarà ugualmente
contento della sua fortuna, perché dirà:
« anche se essa sta molto al di sotto di
tante altre, essenzialmente mi rende
altrettanto felice, poiché la relazione è
l'assoluto ». Egli non vuol disconoscere l'importanza
della differenza. Come ha compreso che non
esiste un mestiere astratto,
ma che ognuno ha il suo, cosí comprenderà
che non esiste nessun matrimonio
astratto. Il moralista gli dice soltanto
che si deve sposare, non gli può dire con chi.
Il moralista gli indica l'universale nella
differenza; egli accoglie la differenza
nell'universale.
La concezione etica del matrimonio ha
perciò diversi vantaggi di fronte ad ogni
visione estetica dell'amore. Essa illumina
l'universale non il casuale. Non mostra
come una coppia di persone eccezionali
possano diventar felici in virtù della loro
eccezionalità, ma come lo può diventare
ogni coppia di sposi. Vede la relazione
come l'assoluto e non cerca nella
differenza una garanzia, ma la concepisce come
un compito. Vede la relazione come
l'assoluto e perciò vede l'amore secondo la sua
vera bellezza, cioè secondo la sua
libertà, e cosí comprende anche la bellezza storica.
Il nostro eroe vive dunque del suo lavoro;
il suo lavoro è anche il suo mestiere,
perciò lavora con piacere; il suo mestiere
lo mette in relazione con altre persone, e
mentre compie il suo lavoro, compie quello
che gli potrebbe desiderare di compiere
nel mondo. È sposato, soddisfatto della
sua casa, ed il tempo passa benissimo per
lui, egli non capisce come il tempo possa
essere un peso per l'uomo, o possa
diventare un nemico della sua felicità,
anzi, il tempo gli sembra che sia una vera
benedizione. A questo riguardo egli
confessa di dover moltissimo a sua moglie. E
vero, credo di aver dimenticato di
raccontarlo, è stata un equivoco la storia della
ninfa della foresta; egli non fu il
fortunato prescelto, dovette accontentarsi di una
fanciulla come sono le fanciulle di
solito, nello stesso senso in cui anch'egli è un
uomo come tutti gli altri. Pertanto egli è
molto contento ugualmente, anzi una volta
mi confessò che crede che sia stata una
fortuna non aver sposato quella meraviglia;
il suo compito forse sarebbe stato troppo
grande per lui; dove tutto è già perfetto
prima di cominciare, è tanto facile
combinare dei guai. Ora invece è pieno di
coraggio, di fiducia e di speranza, è
addirittura entusiasta, e mi dice con entusiasmo: è la relazione che è
l'assoluto; egli è convinto sopratutto che la relazione avrà il potere di
sviluppare in questa comune fanciulla tutto quello che vi
è di bello e di grande; sua moglie con
tutta modestia è dello stesso parere. Proprio, mio giovane amico, le cose di
questo mondo sono ben strane; io non credevo proprio che vi fosse al mondo una
meraviglia come quella di cui parli tu, ed ora
quasi mi vergogno di non aver voluto
credere, poiché questa comune fanciulla, colla sua grande fede, è una
meraviglia, e la sua fede è più preziosa di tutto l'oro del mondo. Riguardo a
una sola cosa rimango il vecchio incredulo, non credo cioè che una meraviglia
come questa si possa trovare nella solitudine delle foreste.
Il mio eroe, — o vuoi negargli ancora il
diritto a questo nome? Non ti pare che il
coraggio che osa credere alla
trasformazione di una semplice fanciulla in una
meraviglia, sia un coraggio eroico? —
ringrazia specialmente sua moglie perché il
tempo ha preso un significato tanto bello
per lui, e anche questo egli lo attribuisce,
in un certo grado, al matrimonio, ed in
questo siamo completamente d'accordo noi
due mariti, lui ed io. Se avesse avuto
quella ninfa dei boschi e non avesse osato
sposarla, avrebbe temuto che il loro amore
divampasse in pochi e rari momenti
belli, ai quali sarebbero però seguiti dei
fiacchi intervalli. Forse avrebbero
desiderato vedersi solo quando la vista
reciproca avrebbe potuto diventare
veramente significativa; se questo qualche
volta non si fosse verificato, egli teme
che tutta la relazione, poco a poco, si
sarebbe dileguata nel nulla. Invece il modesto
matrimonio, che fa loro dovere di vedersi
giornalmente, sian essi ricchi o poveri, ha
avvolto tutta la relazione di una intimità
e cordialità che lo rendono felice. Il
prosaico matrimonio ha nascosto nel suo
meschino incognito un poeta, che non
solo illumina la vita in certe occasioni,
ma che è sempre alla mano e colle sue fini
note echeggia delicatamente anche nelle
ore più squallide.
A questo riguardo, io condivido pienamente
le idee del mio eroe intorno al
matrimonio. Risultano bene evidenti i suoi
vantaggi, non solo nei confronti del
celibato, ma anche nei confronti di ogni
relazione soltanto erotica. Quest'ultimo
punto l'ha messo in luce in questo momento
il mio nuovo amico, perciò io mi
limito solo a commentare con due parole il
primo punto. Per quanto intelligenti,
attivi, entusiasti di un'idea si possa
essere, giungono pure dei momenti in cui il
tempo pare lungo. Tu schernisci molto
spesso l'altro sesso; ti ho pregato sovente di
farne a meno; considera pure una fanciulla
come un essere quanto mai imperfetto;
mi piacerebbe dirti: mio bravo sapientone,
va dalla formica e diventa saggio,
impara da una fanciulla a far passare il
tempo, perché essa ha un virtuosismo innato
per questo. Essa forse non ha una
concezione del lavoro duro e continuo come
l'uomo, ma non è mai disoccupata, è sempre
affaccendata e non si annoia mai. Ne
posso parlare per esperienza. A volte mi
accade (ora però più raramente, perché
ritengo dovere di un marito sforzarsi di
essere, per quanto possibile, dell'età della
moglie), a volte mi accade di starmene a
oziare incantato. Ho finito il mio lavoro,
non ho voglia di nessuna distrazione, uno
sfondo melanconico nel mio
temperamento ha il sopravvento su me;
divento di molti anni più vecchio di quel
che sono, divento quasi estraneo alla vita
familiare, vedo bene che essa è bella, ma
la vedo con occhi diversi dal solito; è
come se io fossi un vecchio e mia moglie una
mia sorella più giovane, sposata
felicemente, nella casa della quale io sono un
ospite. In momenti come questi le ore
quasi cominciano a parermi assai lunghe. Se
mia moglie fosse un uomo, forse accadrebbe
a lei quello che accade a me, e forse ci
fermeremmo tutti e due (il fermarsi di un
orologio !); ma essa è una donna, ed in
buoni rapporti col tempo. È una perfezione
della donna, questo segreto rapporto in
cui essa si trova col tempo, o è
un'imperfezione? E perché essa è un essere più
terreno dell'uomo, o perché ha più
dell'eternità in sé? Rispondimi, tu che sei una
testa filosofica. …
Quando sono nel mio studio, quando mi
sento stanco, quando il tempo comincia a
pesarmi, sguscio in salotto, mi siedo in
un angolo, non dico una parola per timore
di disturbarla nel suo lavoro, poiché
benché questo sembri un gioco, procede con
una dignità ed una convenienza che incutono
rispetto, ed essa è ben lontana
dall'essere quello che tu dici della
signora Hansen, cioè una trottola, che gira
intorno e che col suo rumore amplifica nel
salotto la musica coniugale. …
La donna ha sopratutto un altro talento
innato, una dote originaria : un assoluto
virtuosismo per dar senso al finito.
Quando fu creato l'uomo, eccolo signore e
padrone di tutta la natura; tutto lo
splendore e la magnificenza della natura, tutta la
ricchezza delle cose finite non
attendevano che il suo cenno, ma egli non sapeva
cosa dovesse fare di tutto questo. Le
guardava, ma era come se tutto sparisse allo sguardo dello spirito, era come se
muovendosi con un solo passo dovesse passar oltre a tutto. Così egli stava,
figura imponente, pensieroso, sprofondato in sé, eppure comico, poiché fa
ridere questo uomo così ricco che non sa come usare la sua ricchezza; ma è
anche tragico non poter usare ciò che si ha. Allora fu creata la donna. Essa
non fu imbarazzata, seppe subito come affrontare questo problema; senza far
difficoltà, senza preparativi, essa fu subito pronta per cominciare. Questa
fu la prima consolazione che fu donata
all'uomo. Essa si avvicinò all'uomo, felice
come un bambino, umile come un bambino,
triste come un bambino. Voleva soltanto
essere un conforto per lui, lenire la sua
nostalgia, una nostalgia che essa non
capiva, che essa neppure pensava di
colmare; voleva solo fargli passare il tempo.
Ed ecco che il suo umile conforto divenne
la gioia più ricca della vita, il suo
innocente passatempo la bellezza più dolce
della vita, il suo gioco infantile divenne
il significato più profondo della vita. La
donna capisce il finito, lo comprende fin
nelle radici : per questo essa è
adorabile, e tale, a guardar bene, è ogni donna;
per questo è graziosa, e nessun uomo lo è;
per questo è felice, come nessun
uomo può o deve essere; per questo è in
armonia coll'esistenza, come nessun
uomo può o deve essere. Perciò si può dire
che la sua vita è più felice di quella
dell'uomo, poiché colui che spiega qualche
cosa sarà più perfetto di colui che va
in cerca di una spiegazione. La donna
spiega le cose finite, l'uomo va a caccia di
quelle infinite. Cosí deve essere, e
ognuno ha il suo dolore; la donna partorisce
con dolore, ma l'uomo concepisce le idee
con dolore; la donna non conosce il
terrore del dubbio o le pene della
disperazione, essa non sta al di fuori delle
idee, ma le riceve di seconda mano. Ma
siccome la donna cosí spiega la
finitezza, essa è la vita più profonda
dell'uomo, una vita che deve esser nascosta
e segreta, come è sempre la vita delle
radici. Ecco perché odio quelle orribili
chiacchiere sull'emancipazione della
donna. Dio non permetta che ciò avvenga
mai. Non ti posso dire quale dolore mi
rechi questo pensiero quando penetra
nel mio animo, e nemmeno che appassionata
amarezza, che odio io nutra per
tutti coloro che ardiscono pronunciare
queste cose. Mi consolo vedendo che i
difensori di questa sapienza non sono
astuti come serpi, ma solo comuni
imbecilli, le cui vuote chiacchiere non
possono far del male. Perché se il serpe
potesse inocularle questo veleno, se la
potesse tentare con questo frutto
apparentemente attraente, se questa
epidemia dilagasse, se penetrasse fino a colei
che io amo, fino a mia moglie, mia gioia,
mio rifugio, radice della mia vita, il
mio coraggio sarebbe spezzato, la passione
per la libertà sarebbe infiacchita nel
mio animo; e so cosa farei allora, mi
siederei sulla piazza a piangere, a piangere
come quell'artista il cui capolavoro era
stato distrutto, e che non sapeva ricordare
cosa rappresentasse. Ma questo non
succederà, non può e non deve succedere;
lascia che gli animi cattivi tentino,
lascia che lo facciano quegli stupidi che non
hanno nessuna idea di cosa sia un uomo, né
della sua grandezza né della sua
miseria, nessuna intuizione della perfezione
che la donna realizza proprio nella
sua imperfezione! …
Intanto io me ne sto a predicare e
dimentico quello di cui dovrei veramente parlare,
dimentico che è con te che devo parlare.
Scusami; ti avevo completamente
dimenticato a causa del mio nuovo amico.
Vedi, con lui parlo volentieri di queste
cose; perché egli non è uno schernitore ed
è un marito, e solo chi ha occhi per la
bellezza del matrimonio capisce la verità
delle mie asserzioni.
Ora ritorno al nostro eroe. Credo che
meriti questo titolo, però per l'avvenire non
voglio più adoperarlo per lui; preferisco
un'altra denominazione che mi è più cara,
e con tutto il cuore lo chiamo mio amico,
come con gioia io mi chiamo amico suo.
Vedi, la sua vita l'ha provveduto di
«quell'articolo superfluo che si chiama un
amico ». Tu credevi forse che avrei
passato sotto silenzio l'amicizia, perché non ha
nessuna importanza etica, ma cade
completamente sotto determinazioni estetiche.
Forse ti meraviglierà che io, volendone
parlare, la menzioni solo ora : poiché
l'amicizia è il primo sogno della
gioventù; è proprio nella giovinezza che l'anima la
ricerca, nella sua tenerezza e nel suo
entusiasmo. Sarebbe perciò stato più giusto parlare dell'amicizia prima di
permettere al mio amico di entrare nella condizione sacra del matrimonio.
Potrei rispondere che, riguardo al mio amico, le cose stavano in un modo tanto
strano che veramente egli, prima di sposarsi, non si era sentito
attratto da nessuno al punto da chiamare
amicizia quella relazione; potrei
aggiungere che questo mi è stato caro,
perché volevo trattare dell'amicizia per
ultimo, perché non credo che l'etica in
essa abbia lo stesso valore come nel
matrimonio; e proprio in questo vedo la
sua imperfezione. Questa risposta potrebbe
parere insufficiente, perché si potrebbe
pensare che il mio amico fosse casualmente
anormale; per questo devo soffermarmi un
po' più diffusamente su questo
argomento. Tu che sei un osservatore,
confermerai la mia osservazione che le
individualità si differenziano in modo
caratteristico a seconda del periodo in cui
cadono le loro amicizie, se nella
primissima giovinezza o soltanto nell'età più
avanzata. Le nature più incostanti non
hanno difficoltà a trovarsi a loro agio in se
stesse. Il loro io è, sin dal principio,
moneta corrente, e subito avviene quella
circolazione che si chiama amicizia. Le
nature più profonde non hanno tanta
facilità a trovare se stesse e, fintanto
che non hanno trovato il loro io, non possono
desiderare che qualcuno offra loro
un'amicizia che non possono ricambiare. Queste
nature in parte sono sprofondate in loro
stesse, in parte sono osservatrici; ma un
osservatore non è un amico. In questo modo
si potrebbe spiegare come le cose sono
andate per il mio amico. Non vi sarebbe
nulla di anormale, e non sarebbe nemmeno
un cattivo segno. Però s'è sposato. Ora ci
chiediamo se non è una cosa anormale
che l'amicizia sia apparsa soltanto dopo;
poiché in quanto precede fummo
d'accordo nel ritenere che è giusto che
l'amicizia possa subentrare nell'età più matura;
ma non parlammo della sua relazione col
matrimonio. Approfittiamo ancora
una volta delle tue e delle mie
osservazioni. Dobbiamo accogliere nel nostro studio
anche la relazione coll'altro sesso. A
quelli che cercano la relazione d'amicizia
nell'età molto precoce, sovente accade
che, quando comincia a farsi valere l'amore,
l'amicizia impallidisce completamente.
Trovano che l'amicizia è una forma più imperfetta,
rompono i rapporti precedenti e raccolgono
tutta la loro anima esclusivamente nel matrimonio. Il contrario accade ad altri.
Coloro che gustarono troppo presto le dolcezze dell'amore, forse ebbero una
concezione errata dell'altro
sesso, e forse divennero ingiusti. Colla
loro leggerezza forse acquistarono amare
esperienze, forse cedettero a sentimenti
in loro che poi si mostrarono incostanti; o cedettero a sentimenti negli altri
che scomparvero come un sogno. Così abbandonarono l'amore che era per essi,
insieme, troppo e troppo poco, perché
erano venuti in contatto colla dialettica
dell'amore senza poterla sciogliere.
Scelsero perciò l'amicizia. Ambedue queste
formazioni devono esser considerate
anormali. Il mio amico non è in nessuno di
questi due casi. Egli non ha fatto
giovanili tentativi nell'amicizia prima di
imparare a conoscere l'amore, ma non ha
neppure fatto del male a se stesso, col
godere troppo presto il frutto acerbo
dell'amore. Nel suo amore trovò la
soddisfazione più profonda e completa; ma
proprio perché egli stesso aveva raggiunto
una quiete cosí completa, gli apparve la
possibilità di altre relazioni che, in un
modo diverso, potevano ricevere un
significato profondo e bello per lui;
poiché a chi ha, verrà dato, e avrà in
sovrabbondanza. A questo riguardo, egli di
solito ricorda che vi sono degli alberi in
cui il fiore viene dopo il frutto oppure è
anche contemporaneo ad esso. Egli
paragona la sua vita a queste piante.
Ma proprio perché nel matrimonio, e per
esso, egli imparò a vedere la bellezza
dell'amicizia, non ha dubitato nemmeno un
attimo su come bisogna considerare
l'amicizia, e ha capito che questa perde
la sua importanza quando non la si
considera eticamente. Se le sue precedenti
esperienze avevano quasi
completamente annientata la sua fede negli
esteti, il matrimonio ne ha estirpato
anche l'ultima traccia nel suo animo. Egli
perciò non ha sentito nessun bisogno di
lasciarsi sedurre dai miraggi
dell'estetismo, ma si è subito acquietato nella
concezione dell'etica.
Se il mio amico non fosse stato di questo
avviso, avrei provato piacere di mandarlo
da te per punizione; quello che tu dici
dell'amicizia è talmente contorto che
probabilmente gli avresti fatto girare la
testa. Ti accade coll'amicizia quello che ti
accade con tutto. La tua anima manca
talmente di concentrazione etica, che si
possono aver da te, intorno alla stessa
questione, opposte spiegazioni, e le tue
osservazioni dimostrano perfettamente
l'esattezza del detto che sentimentalismo e
mancanza di cuore sono una cosa sola. La
tua concezione dell'amicizia si può
paragonare a una lettera magica : chi la
vuole adoperare deve diventar pazzo come
chi la cede, e fino ad un certo punto
bisogna supporre che lo sia. Se ti si sente
declamare quel che ti passa per il
cervello, sulla divina gioia di amare i giovani,
sulla bellezza dell'accordo delle anime
che si incontrano, si è quasi tentati a temere
che la tua sentimentalità ti costi la tua
giovane vita. In altri momenti parli di nuovo
come un vecchio praticante che abbia
imparato abbastanza a conoscere il vuoto e la
vacuità del mondo. «Un amico », dici
allora, «è una cosa misteriosa, lo si vede,
come una nebbia, solo a distanza, poiché
soltanto quando si è infelici si comprende
di aver avuto un amico. » È facile vedere
che base di un simile giudizio
sull'amicizia è una esigenza ben diversa
da quella che avevi prima. Prima parlavi
dell'amicizia intellettuale, della
bellezza dell'amore spirituale, di una comune
passione per le idee : ora parli di
un'amicizia pratica nelle cose di questo mondo, di
una reciproca assistenza nelle difficoltà
della vita terrena. In entrambe queste
esigenze vi è qualche cosa di vero, ma se
non si può trovare il loro punto di unione,
si è costretti a concludere con te che
l'amicizia è un non senso. Questo è sempre il
risultato al quale arrivi, sia che tu
consideri singolarmente i diversi aspetti
dell'amicizia, sia che tu provi la loro reciproca
esclusione.
Condizione assoluta per l'amicizia è
l'unità della concezione di vita. Quando essa
esiste, non ci si sente tentati a voler
giustificare la propria amicizia con sentimenti
oscuri e con inspiegabili simpatie. E non
succederà che l'amicizia sia, come il
tempo, mutevole di giorno in giorno. Non
si vuole disconoscere l'importanza
dell'inspiegabile simpatia; infatti in
senso rigoroso non si è amici di chiunque
condivida la nostra concezione di vita. Ma
non ci si deve nemmeno limitare alla
mera simpatia in tutto il suo mistero. Una
vera amicizia esige sempre la coscienza,
ed è questo che la mette a un piano ben
più alto dell'esaltazione.
La concezione di vita in cui si è concordi
deve essere però una concezione positiva.
Così il mio amico ed io abbiamo in comune
una concezione positiva. Perciò,
quando ci vediamo, non ci accade quello
che accadeva a quegli auguri che si
mettevano a ridere, quando si
incontravano; noi ci guardiamo con serietà negli
occhi. Era giustissimo che gli auguri
ridessero, perché la concezione di vita che
avevano in comune era negativa. Questo lo
comprendi molto bene, perché è uno
dei tuoi desideri esaltati di trovare
un'anima in armonia alla tua colla quale ridere di
tutto; «perché è terribile e angoscioso
nella vita, che quasi nessuno si accorga di
quanto è penoso stare al mondo; e di
questi pochi solo pochissimi sanno mantenersi
di buon umore e ridere di tutto ». Se non
riesci ad appagare la tua aspirazione, ti sai
rassegnare: « Il vero pessimista riconosce
come conseguenza di tutta quanta la sua
visione della vita, che egli, solo con se
stesso, può ridere del mondo; se trovasse
compagnia, il mondo non sarebbe poi tanto
brutto ». Con questo ragionamento il
tuo pensiero è messo in gran movimento, e
non conosce limiti. Pensi che «perfino
il ridere è solo un'espressione imperfetta
del vero scherno sulla vita. L'irrisione più
completa dovrebbe avvenire in serietà.
Sarebbe lo scherno più perfetto del mondo
se chi ha esposto la verità più profonda
non fosse un esaltato, ma uno scettico. E
non sarebbe nemmeno assurdo : nessuno sa
esporre verità positive con tanto garbo
come lo scettico, solo che egli stesso non
vi crede. Se fosse un ipocrita ad esporle,
finirebbe collo schernire se stesso; ma se
è uno scettico, che forse desidererebbe
credere a quello che espone, lo scherno è
assolutamente obiettivo : l'esistenza
schernirebbe attraverso se stessa. Egli
espone una dottrina che potrebbe spiegare
tutto, l'intero genere umano ci si
potrebbe affidare; ma questa dottrina non può
spiegare il proprio creatore. Se un uomo
fosse tanto furbo da poter nascondere di esser pazzo, potrebbe far impazzire
tutto il mondo ». Ecco, quando si ha una concezione di vita come questa, è
difficile trovare un amico che la condivida. …
L'amicizia dunque esige una concezione di
vita positiva. Ma non si può pensare una concezione positiva della vita che non
abbia un momento etico in sé. Ai nostri giorni si trovano spesso delle persone
che hanno adottato un sistema in cui l'etica non si trova affatto. Lascia che
abbiano anche dieci sistemi, ma non hanno una concezione di vita. …
Se si considera l'amicizia eticamente,
essa acquista nello stesso tempo bellezza e significato. Devo citare
un'autorità per me contro te? Orbene, come concepiva l'amicizia Aristotele? La
fece punto di partenza per tutta la concezione etica della
vita, poiché coll'amicizia, dice, si
amplifica il concetto del diritto, cosicché
amicizia e diritto van per la stessa
strada. Egli fonda così il concetto del diritto
sull'idea dell'amicizia. La sua concezione
è così, in un certo senso, più perfetta di
quella moderna che fonda il diritto sul
dovere, su di un astratto come l'imperativo
categorico; egli lo fonda sulla società.
Da questo è facile vedere che l'idea dello
Stato diventa per lui il valore più alto;
ma questo è un lato imperfetto della sua concezione.
Però non mi azzarderò ad entrare in
ricerche così sottili come lo studio del rapporto
tra la concezione etica aristotelica e
quella kantiana. Citai Aristotele soltanto per
ricordarti che anch'egli capiva che
l'amicizia contribuisce a realizzare una visione
etica della realtà.
Chi considera l'amicizia eticamente, la
considera dunque come un dovere. Potrei
perciò dire che è dovere di ognuno avere
un amico. Però preferisco adoperare
un'altra espressione, che mette in
evidenza i comuni aspetti etici nell'amicizia e nel
matrimonio, e insieme fa rilevare
nettamente la differenza che passa tra etica e
estetica : è dovere di ogni uomo
manifestarsi. La Scrittura dice che ad ogni uomo
tocca morire e poi apparire in giudizio,
dove tutto diventerà manifesto. L'etica dice
che il significato della vita e della
realtà è che l'uomo diventi manifesto. Se egli non
lo diventa, il suo manifestarsi apparirà
come un castigo. L'esteta invece non vuol
dar importanza alla realtà; egli rimane
costantemente nascosto, poiché per quanto
spesso e intensamente egli si dedichi al
mondo, non lo fa mai totalmente, rimane
sempre qualche cosa che egli tiene
indietro; se lo facesse totalmente, sarebbe in un
atteggiamento etico. Pure il voler giocare
a nascondersi si sconta sempre e nel
modo più naturale, col diventar misteriosi
a se stessi. E per questo che tutti i
mistici, quando non riconoscono l'esigenza
che la realtà pone di diventar manifesti,
si incontrano con difficoltà e tribolazioni
quali nessun altro conosce. E come se
scoprissero un mondo completamente
diverso, come se il loro essere fosse
sdoppiato. Chi non vuol combattere con le
realtà, deve combattere coi fantasmi.
Con questo ho finito per questa volta. Non
è mai stata mia intenzione esporti una
dottrina del dovere. Volevo solo mostrarti
come l'etica, nei diversi casi, non toglie
affatto alla vita la sua bellezza, ma
gliela dona. Dona pace, sicurezza, fiducia nella
vita, perché ci grida costantemente: quod
petis, hic est2. Salva da ogni
fantasticheria che voglia indebolire
l'anima, e le dona salute e forza. Le insegna a
non sopravalutare il casuale e a non
idolatrare la felicità. Insegna ad esser contenti
nella felicità, e, con una saggezza che
l'esteta non conosce, insegna ad esser
contenti nell'infelicità.
Considera ciò che ho scritto come
insignificante, come delle note marginali agli
elementi dell'arte di vivere; non importa.
Ma ciò che ti ho scritto ha ugualmente
un'autorità, che spero vorrai rispettare.
O forse ti pare che io me la sia voluta
accaparrare ingiustamente? Che io abbia
fatto valere, senza tatto, la mia posizione
borghese in questa faccenda? Che mi sia
eretto giudice, mentre non son che una
parte? Rinuncio volentieri ad ogni
pretesa; di fronte a te non rappresento nemmeno
2 Cit. da
Orazio, Epist. I, n, 29. (N. d. T.)
una parte. Riconosco di buon grado che
l'estetica potrebbe benissimo darti la
procura per agire per conto suo, ma io
sono ben lontano dal sentirmi così importante
da agire quale procuratore per l'etica. Io
non sono che un testimone e solo in
questo senso attribuisco a questa lettera
una certa autorità; poiché chi parla di
quello che ha esperimentato può sempre
parlare con autorità. Sono solo un
testimone, e qui hai la mia testimonianza
in ottima forma.
Esercito la professione di assessore in
tribunale, sono contento del mio mestiere,
credo che corrisponda alle mie facoltà ed
a tutta la mia personalità, so che esige
tutte le mie forze. Cerco di perfezionarmi
sempre più, e, mentre lo faccio, sento
anche che mi evolvo sempre più. Amo mia
moglie, sono felice nella mia casa;
ascolto le nenie che mia moglie canta alla
culla, e il suo canto mi pare più bello di
ogni canto, senza per questo credere che
essa sia una cantante; sento gli strilli del
piccolo che al mio orecchio non sono
disarmoniosi; vedo il suo fratellino maggiore
che cresce e progredisce e guardo contento
e fiducioso verso il suo avvenire; non
sono impaziente, perché ho tempo da
attendere, e questa stessa attesa è una gioia
per me. La mia opera ha importanza per me
stesso e credo che, in un certo senso,
l'abbia anche per altri, anche se non ne
posso determinare e misurare esattamente la
portata. Provo gioia perché la vita
personale degli altri ha importanza per me, e
spero e desidero che anche la mia ne possa
avere per coloro i quali simpatizzano
con tutta la mia concezione di vita. Amo
la mia patria natale, e non posso
immaginare di potermi trovare bene in
nessun altro paese. Amo la mia lingua, che
libera il mio pensiero, trovo che quello
che posso avere da dire nel mondo lo posso
esprimere magnificamente con essa. In
questo modo la vita ha significato per me,
tanto da sentirmene contento e
soddisfatto. Nello stesso tempo vivo una vita più
alta, e quando a volte accade che io
respiri questa vita più alta nel respiro della mia
vita terrena e familiare, mi stimo beato,
e si fondono per me l'arte e la grazia. E così
che io amo l'esistenza, perché è bella e
ne spero una ancor più bella.
Ecco la mia spiegazione come testimone. Se
dovesse sorgermi un dubbio se ho
fatto bene a darla, sarebbe per riguardo a
te: perché temo quasi che ti possa far
male sentire che la vita nella sua
semplicità possa esser tanto bella. Accetta però la
mia testimonianza, lascia che ti cagioni
un po' di dolore, ma lascia anche che ti
cagioni della gioia; ha una certa qualità
di cui purtroppo è priva la tua vita : la
fedeltà. Su di essa puoi costruire
confidente.
S. Kierkegaard, Aut-Aut, Arnaldo
Mondadori, Milano, 2008. Estratti pag. 56-65, 71-101,
160- 209
Diario del seduttore (1843)3
Non posso celarlo a me stesso: a mala pena
domino l'ansia che in questo attimo
m'assale, allorché, spinto dal mio
interesse, mi risolvo a trascrivere accuratamente
la copia affrettata che, a gran precipizio
e con molto affanno, riuscii a
procurarmi allora. L'episodio, oggi come
allora, mi si presenta innanzi
egualmente angoscioso ma anche altrettanto
pieno di rimproveri. Contrariamente
al solito, egli non aveva chiusa a chiave
la sua scrivania, il cui intero contenuto
in tal modo giaceva a mia disposizione, e
inutilmente ora cercherei di giustificare
il mio contegno ricordando a me stesso che
io non aprii nessun cassetto. Un
cassetto era aperto.
Dentro c'era un mucchio di fogli sparsi e,
sopra questo, stava poggiato un
volume in quarto, elegantemente rilegato.
Sulla pagina su cui s'apriva era
attaccato un pezzo di carta bianca, sul
quale di proprio pugno egli aveva scritto:
Commentarius perpetuità n. 4. Sarebbe pertanto inutile illudersi che
se il
libro non fosse stato aperto su quella
pagina e il titolo non fosse stato così allettante
io non avrei ceduto alla tentazione, o
almeno avrei cercato di resistervi. Il titolo
in sé era già strano, e se non proprio per
se stesso almeno per quel luogo. Da una
fuggevole occhiata ai fogli sparsi appresi
che essi non contenevano altro che
allusioni a episodi erotici, qualche
accenno a relazioni personali e abbozzi di
lettere di natura privatissima, di cui in
séguito imparai a conoscere l'artificiosa,
calcolata negligenza. Se ora, dopo che ho
penetrato l'intimo tenebroso di
quell'uomo corrotto, rievoco l'istante in
cui, la mente tesa e gli occhi ben
aperti, m'avvicinai a quel cassetto, provo
un'impressione simile a quella che deve
provare un questurino allorché penetra nel
covo di un falsario e, rovistando tra
le sue cose, scopre in un cassetto un
mucchio di fogli sparsi e di bozze di
stampa: su una c'è un pezzetto di
arabesco, su un'altra un monogramma, su una
terza una filigrana a rovescio; ha così la
prova evidente di trovarsi sulla pista
giusta, e dentro di lui alla gioia della
scoperta si mescola un senso di
ammirazione per lo studio e la diligenza
impiegati in quel falso. Per me,
invece, era ben diverso, che non ero
abituato a indagare delitti e, in quel caso,
neppure ero munito d'un mandato
poliziesco. Avrei desiderato che in tutto il suo
peso mi si fosse palesata la verità: che
mi stavo cioè avviando per una strada
affatto illegale; ma in quel momento, come
generalmente succede, mi sentivo
non meno povero di pensieri che di parole.
Spesso noi veniamo sopraffatti da
un'impressione, finché la riflessione di
nuovo non ci libera e, mutevole e solerte
nella sua azione, riesce a penetrare
l'imponderabile incognito. Ebbene,
malgrado che la mia facoltà, di riflettere
sia fortemente sviluppata, sulle prime
io rimasi profondamente costernato.
Ricordo benissimo: impallidii, e quasi fui
sul punto di cadere privo di sensi. E
quale angoscia me ne derivò! Se lui fosse
rincasato e m'avesse trovato svenuto, con
il cassetto in mano... una cattiva
coscienza è pur capace di rendere la vita
interessante!
… Il titolo del libro, di per sé, non mi
aveva grandemente impressionato.
Pensai che si trattasse di una raccolta di
estratti, la qual cosa mi pareva
abbastanza naturale dato che lo sapevo
così assiduo nei suoi studi. Ma il
contenuto era ben altra cosa. Si trattava,
né più né meno, di un diario, e
diligentemente redatto per giunta. Benché
io non ritenga, per come
precedentemente ebbi a conoscerlo, che la
sua vita avesse gran bisogno di un
commentario, tuttavia non potrei negare,
dopo l'occhiata che v'ho data ora, che il
titolo fosse scelto con molto gusto e
appropriatezza, con una obiettività superiore
e davvero estetica, nei confronti propri e
della situazione. Quel titolo è in
3 Benché in seguito il testo sia stato pubblicato separatamente, in
origine costituiva una parte di Aut-Aut.
perfetta armonia con il contenuto del
libro. La sua vita, infatti, fu costantemente
ispirata al di vivere poeticamente. Dotato
di una sensibilità sviluppatissima,
continuamente egli riusciva a ritrarre
poeticamente la propria esperienza. …
Io conobbi quella fanciulla della cui
storia principalmente tratta il diario. Se
altre ancora ne abbia sedotte, ignoro; ciò
potrebbe risultare in seguito dalle sue
carte. Sembra pertanto che in questo caso
egli fosse stato sollecitato a tenere
tutt'altro comportamento, il che sarebbe
abbastanza caratteristico in lui dato che,
dopo tutto, egli era troppo spiritualmente
dotato per essere un seduttore nella
comune accezione della parola. Dal diario
stesso si ricava che sempre gli
appartenne una certa ricercatezza: non
bramava, ad esempio, nient'altro che
un saluto, se il saluto era quanto di
meglio offriva la vittima designata, e a
nessun prezzo avrebbe accettato di più.
Avvalendosi delle sue doti naturali, egli
sapeva circuire una fanciulla fino al
punto da legarla a sé, senza curarsi poi di
possederla in senso stretto. Immagino che
sapesse spingere una fanciulla fino al
punto da essere poi sicuro che tutto ella
avrebbe sacrificato per lui. Giunto a
tanto, troncava ogni cosa, senza che da
parte sua fosse occorsa la benché minima
pressione, senza che un solo accenno fosse
stato fatto all'amore, senza neppure
una dichiarazione o una promessa. Eppure a
tanto era arrivato; e dalla
consapevolezza di ciò una doppia amarezza
derivava alla infelice, perché ella
non aveva la minima cosa a cui richiamarsi
e perché vagava tra disparatissimi
stati d'animo, in una terribile ridda
infernale. Semmai, perdonando a lui, a se
stessa faceva rimproveri, tosto lui dopo
rimproverava, e allora, giacché la
relazione aveva avuto realtà soltanto in
senso improprio, continuamente
doveva combattere col dubbio che tutto non
fosse stato altro che pura
immaginazione. E neppure poteva confidarsi
con qualcuno, poiché in effetti
non aveva alcunché da confidare. Qualora s'abbia
sognato si può raccontare ad
altri il proprio sogno, ma quel che ella
aveva da raccontare non era un sogno: era
realtà; e pertanto, appena voleva
riferirlo ad altri per alleggerire il suo cuore
afflitto, tutto ritornava nel nulla. E
questo ella lo avvertiva benissimo da sé. Se
tutto ciò nessuno poteva comprendere,
tanto meno lei stessa vi riusciva, malgrado
che la opprimesse col peso angoscioso del
dubbio. Le sue vittime, quindi,
erano d'un tipo tutto particolare. Non si
trattava affatto di fanciulle infelici che
scacciate, o nell'idea di essere scacciate
dalla società, in preda all'angoscia,
quando il cuore trabocca, s'affannano
disperatamente, abbandonandosi all'odio o
al perdono. Nessun cambiamento notevole
avveniva in esse, continuavano a
mantenere, stimate come sempre, le
abituali relazioni; eppure un mutamento,
oscuro a loro stesse e incomprensibile
agli altri, era in esse avvenuto. La loro vita
non era, come quella delle sedotte,
schiantata, spezzata: esse erano state
soltanto piegate nel loro intimo. Perdute
agli altri, invano cercavano di
ritrovare se stesse. E come si sarebbe
potuto dire che il suo cammino attraverso
la vita non lasciava traccia alcuna
(giacché i suoi passi erano a tal punto
regolati che poteva controllarne ogni
impronta, ed io riesco ad immaginare
l'infinita diligenza che egli impiegava in
questo), altrettanto vero era che
nessuna vittima cadeva al suo passaggio.
Aveva una vita spirituale troppo
sviluppata per essere un seduttore dei
soliti. Nondimeno, egli assumeva talvolta
un corpo panasiatico, divenendo allora
affatto sensuale. Per di più, la sua storia
con Cordella è a tal punto complicata che
perfino gli fu possibile d'apparire
lui come il sedotto e la stessa infelice
Cordella poteva talvolta abbandonarsi a
un simile dubbio, giacché anche nel suo
caso egli seppe rendere le proprie
tracce talmente incerte che qualsiasi
prova era impossibile. Egli si serviva degli
individui soltanto come incitamento per
gettarli poi via da sé, così, come gli
alberi si scrollano delle foglie: lui
ringiovaniva, le foglie appassivano.
Ma nel suo intimo egli come giudicava
tutto questo? Come ha indotto altri a
smarrirsi così, io credo, egli stesso
finirà con lo smarrirsi. Non ha sconvolto gli altri
solo esteriormente, ma nel profondo del
proprio intimo. Guidare un viandante che
sia incerto della strada su un falso
sentiero, ovvero lasciare uno nel proprio errore, è azione abbastanza torbida,
ma non tanto come il guidare un uomo a sperdersi in se stesso. Al viandante
smarrito è pur sempre di conforto il paesaggio
che muta continuamente intorno a lui, e a
ogni svolta nasce pur sempre la
speranza di trovare finalmente una via
d'uscita; ma colui che s'è smarrito in se
stesso non ha un si grande spazio entro
cui aggirarsi. Comprende subito di trovarsi
in un labirinto da cui non potrà mai più
uscire. Questo, io credo, potrà anche
a lui capitare una volta o l'altra, ma il
suo caso allora sarà ben più orribile.
Nulla so immaginare di più penoso d'un
ingegno intrigante che smarrisca il suo
orientamento e che, allorché la coscienza
gli si ridesta, per cercare di venire a
capo di quello smarrimento rivolga contro
se stesso tutto il suo acume.
Inutilmente la sua tana di volpe possiede
molte uscite! Nell'attimo stesso in. cui
la sua anima angosciata già crede di vedervi
piovere dentro la luce del giorno,
s'accorge che quella è una nuova entrata
e, quale fiera atterrita, cerca sempre
uscite, e trova solo entrate che lo
riconducono a se stesso. Un uomo simile
non bisognerebbe sempre chiamarlo
delinquente, che molto spesso egli è
ingannato dai suoi stessi intrighi e
quindi incorre in un castigo ben più
tremendo che non un delinquente vero,
giacché: che cos'è il tormento
dell'espiazione in confronto a questo
cosciente delirio? Il suo castigo ha un
carattere puramente estetico, perché
perfino il risveglio della coscienza è per lui
un termine troppo etico. La coscienza gli
appare solo sotto forma di una
superiore conoscenza che si esterna come
inquietudine e nemmeno propriamente lo
accusa, ma lo tien desto e nessun riposo
concede alla sua sterile irrequietezza. E
tuttavia non è nemmeno un pazzo, giacché
l'infinita molteplicità dei suoi
pensieri non ancora s'è pietrificata
nell'eternità della pazzia.
Anche la povera Cordella difficilmente
riuscirà a trovare pace. Ella gli perdona
dal profondo del cuore, eppure non trova
requie, perché il dubbio torna a ridestarsi
in lei: fu lei che ruppe il fidanzamento,
fu lei stessa la cagione della propria
infelicità, fu il suo orgoglio che bramò
l'insolito. Prova allora rimorso, ma lo
stesso non ha requie perché subito la sua
coscienza le dice che lei è innocente:
fu lui che, conscio del proprio inganno,
suggerì quella condotta alla sua
anima. Infine odia, il suo cuore trova
sollievo nella meditazione, ma ella non
trova requie, perché torna a farsi
rimproveri: rimproveri per averlo odiato e per
aver ella stessa peccato, rimproveri
perché ella, per quanto ingannata
dall'astuzia di lui, rimane pur sempre
colpevole. Grave è per lei l'inganno
subito da lui, ma ancora più grave,
oseremmo dire, fu la riflessione che egli
destò in lei, lo sviluppo estetico che
egli le diede, tale che non più ormai ella sa
porgere umilmente l'orecchio a una sola
voce, ma più discorsi in una volta riesce
ad ascoltare.
Quando i ricordi si ridestano nella sua
anima, colpa e peccato ella dimentica,
e riandando agli attimi felici si lascia
stordire da una esaltazione innaturale. In
simili momenti ella non solo lo ricorda,
ma lo rievoca con una clair voyamee
che dimostra fino a qual punto ella fu
plasmata. In tali istanti non scorge più in lui
il criminale, ma neppure l'uomo nobile:
ella lo percepisce solo esteticamente.
Una volta mi scrisse un biglietto in cui
così si pronunciava sul conto di lui:
“Talvolta egli era così spirituale che io
come donna mi sentivo annichilita,
tal'altra così impetuoso e appassionato e
seducente che io quasi tremavo innanzi
a lui. Talvolta sembrava che gli fossi
sconosciuta, tal'altra tutto s'abbandonava a
me; se mai poi lo cingevo con le mie
braccia, allora improvvisamente tutto
svaniva e io non abbracciavo che nuvole.
Conoscevo questa espressione già
prima di conoscere lui ma egli m'insegnò a
comprenderla, e ogni volta che
l'adopero sempre penso a lui che, credo,
riesce a conoscere ogni mio
pensiero. Io ho amato sempre la musica,
egli era un incomparabile strumento,
sempre accordato e d'una ricchezza di toni
quale nessun altro strumento ha. Tutti
i sentimenti e tutti gli stati d'animo
erano fusi in lui; nessun pensiero era troppo
elevato per lui, nessuno troppo disperato.
Sapeva infuriare come un temporale
d'autunno, ma sapeva anche sussurrare
impercettibilmente. Non una sola mia
parola era priva d'effetto per lui, e pure non
saprei dire se alle mie parole non ne
mancò, perché mi era impossibile sapere
quale effetto avrebbero sortito. Con un
indescrivibile, eppur misterioso e beato
senso d'angoscia, io ascoltavo quella
musica che io stessa evocavo e pure non
evocavo. Una musica, con la cui dolce
armonia egli sempre sapeva trascinarmi”.
Se questo è terribile per lei, ancora più
terribile sarà per lui l'espiazione; lo
posso arguire dall'ansia che mi afferra e
che a malapena riesco a dominare ogni
qualvolta che vado pensando a tutto ciò.
Anch'io vengo trascinato in quel regno
delle nebbie, in quel mondo di sogni dove
ad ogni istante perfino la propria ombra
suscita terrore. Inutilmente cerco di
liberarmene: lo inseguo come un
minaccioso figuro, come un muto
accusatore.
Quale stranezza! Su tutto egli ha disteso
il velo del più profondo mistero,
eppure un segreto rimane, ancor più
profondo, ed è che io sono iniziato a questo
suo segreto. Si, vi fui iniziato nella
maniera più illecita.
Dimenticare tutto è impossibile. Talvolta
ho perfino pensato di parlarne con lui. Ma
quale sollievo ne trarrei? O mi farebbe
una quantità di domande, sostenendo poi
che il Diario fu un suo tentativo poetico,
oppure mi ingiungerebbe di tacere, e
questo non potrei negarglielo, considerato
il modo con cui fui iniziato al suo
segreto. Niente comporta tanta seduzione e
tanta maledizione quanto un segreto.
…
Amo Cordella?4 sì! Sinceramente? sì! Lealmente? sì!... In senso estetico, e Ciò significa
pure qualche cosa. Quale giovamento ne avrebbe tratto questa fanciulla se fosse
caduta tra le braccia di un qualsiasi marito fedele? Che cosa ne
sarebbe stato di lei? Nulla. Si dice che
al mondo c’è bisogno di qualcosa di più
della lealtà per vivere; io direi: c'è
bisogno di qualcosa di più della lealtà per
amare siffatta fanciulla. Questo di più
l'ho io: è la falsità. Eppure io l'amo
lealmente. Con severità e moderazione,
vigilo su me stesso affinché tutto quel
che è in lei, tutta la sua ricca e divina
natura, possa mostrarsi. Io sono uno dei
pochi che possa riuscirci; ella è una
delle poche che lo merita. Non siamo, per
questo, fatti l'uno per l'altra? …
In tal modo io constato, quanto più
considero la cosa, che la mia pratica è in
perfetta armonia con la mia teoria. Il
convincimento cioè che la donna
essenzialmente esista per un altro essere
ha sempre informata la mia pratica.
Donde l'infinita importanza che in questi
casi acquista l'attimo; giacché
l'esistere per gli altri è sempre
questione di attimo. Molto o poco tempo potrà
trascorrere prima che l'attimo giunga, ma
allorché è giunto, quello che
originariamente era un essere che esisteva
per gli altri, assume una natura relativa,
per cui cessa di essere. So bene che gli
ammogliati favellano di una loro teoria, che
la donna cioè anche in un altro senso sia
un essere che esiste per gli altri,
essendo per essi tutto per tutta la vita.
Bisogna pur essere indulgenti con gli
ammogliati. In verità, io credo che questa
teoria siano essi stessi a suggerirsela a
vicenda. In generale, in questa vita,
ogni condizione ha certi usi convenzionali
e, specialmente, certe menzogne
convenzionali. Tra le quali va contata
anche questa barbosa teoria. Intendersi
dell'attimo è tutt'altro che facile, e
colui che lo fraintende ne ricava
naturalmente noia, per tutta la vita.
L'attimo è bello, e nell'attimo la donna è tutto, e
di conseguenze io non me ne intendo. Tra
queste, invece, s'annovera anche
quella d'aver figli. Ora io immagino
d'essere un pensatore abbastanza
4 Siamo qui ormai verso la fine del rapporto tra i due
conseguente, ma anche se divenissi pazzo
furioso non sono uomo da badare alle conseguenze, non le capisco affatto, sono
cose adatte a un ammogliato. Ieri Cordella ed io facemmo visita a una famiglia
che sta in villeggiatura. La brigata si trattenne per lo più nel giardino, dove
si passò il tempo con ogni specie di
esercizi fisici. Tra l'altro, si giocò
anche ai cerchi. Profittai dell'occasione che
un altro signore, il quale aveva giocato
con Cordella, andasse via, per sostituirlo.
Qual tesoro di grazia ella non dispiegò,
resa ancora più seducente e
incantevole dallo sforzo del gioco! Quale
soave armonia nel contrasto dei suoi
movimenti! Com'era leggera quasi danzasse
sul prato e quanto energica, pur
senza bisogno d'impegnarsi a resistere!
insidiosa, fino a sfidare l'equilibrio!
Come era ditirambico il suo portamento,
com'era provocatore il suo sguardo! Il
gioco naturalmente aveva per me un
interesse tutto particolare. Cordella, invece,
sembrava non badarvi. Ma un cerchio che
gettai a un'altra giocatrice fu per lei
una folgore. Una luce più intensa illuminò
da quel momento la situazione,
conferendo ad essa un più profondo
significato, ed ella fu animata da una
maggiore energia. Trattenni entrambi i
cerchi sulle mie mazze, mi fermai un
attimo scambiando qualche parola con gli
astanti.
Ella comprese questa pausa. Tornai a
lanciare i cerchi. Subito ella li afferrò entrambi sulle sue mazze. Quindi,
quasi inavvertitamente, li rilanciò ambedue troppo lontano, sicché mi fu
impossibile afferrarli.
Questo lancio fu accompagnato da uno
sguardo pieno di infinita temerarietà. Si racconta che a un soldato francese,
il quale prendeva parte alla campagna di Russia, dovesse essere amputata una
gamba affetta di cancrena. Nell'attimo
stesso in cui la dolorosa operazione fu
portata a termine, egli afferrò pel piede la gamba amputata e la lanciò
lontano, gridando: « Vive l’empereur! ». Con un aria simile ella lanciò
lontano, più bella che mai l'avessi vista prima, ambedue i cerchi, quasi
dicesse a se stessa: « Viva l'amore! ». Pertanto non ritenni opportuno di
lasciarle prendere il sopravvento in tale stato d'animo, né di abbandonarvela,
per timore di quel languore che sovente s'accompagna ad esso. Mi mantenni
perciò abbastanza calmo e la costrinsi, aiutato in ciò dalla presenza di
spettatori, a continuare il gioco, come se nulla avessi notato. …
Come m'avvince Cordella! Eppure il tempo
lesto trascorre, e l'anima mia chiede sempre di ringiovanire. Già quasi odo il
canto lontano del gallo. Forse anch'ella lo ode, ma crederà che sia il mattino
che esso annunzia... Perché mai una
fanciulla è tanto bella? e perché così
breve è la durata della sua bellezza? Questi
pensieri potrebbero indurmi alla
malinconia, sebbene non mi riguardino affatto.
Godiamo, senza indugi!
Di solito, la gente che di siffatte
meditazioni fa professione non gode affatto. Al tempo stesso, non può essere
dannoso che la mente indugi su un tale pensiero; giacché questo affanno, non di
per sé ma per apporto altrui, rende di solito un
uomo virilmente più bello.
Un affanno che piombi, buio come un velo
di nebbia e illusorio, sulla possanza
maschile, anch'esso appartiene all'erotica
mascolina. Ad esso, nella donna,
corrisponde una certa malinconia... Non
appena una fanciulla si è concessa
completamente, tutto è finito. Ancora oggi
io mi accosto a una giovanetta con
una certa ansia, col cuore in palpiti, che
avverto l'eterna potenza che si cela nel
suo essere. Nei confronti di una donna ciò
non m'è mai capitato. E nulla è
quella briciola di resistenza che
artatamente questa cerca di opporre. Sarebbe come
dire che il cappuccio di una donna
maritata incuta maggior rispetto che non
la testa scoperta di una verginella.
Perciò Diana è stata sempre il mio ideale.
Quella pura verginità, quell'assoluto
ritegno, m'han sempre avvinto. E mentre
ella ha sempre occupata la mia attenzione,
io al tempo stesso l'ho considerata
di cattivo occhio. In altri termini,
ritengo che di fatto ella per nulla abbia meritati tutti quegli elogi alla sua
verginità di cui ha fatto raccolta. Ella sapeva cioè che il suo gioco nella
vita è riposto nella sua verginità, donde la gran cura che ne
ha avuto. Ne consegue che in un cantuccio
del mondo, in cui si respirava aria
filologica, ho sentito bisbigliare del
fatto che ella abbia avuto un ammonimento
nei gran dolori spaventevoli che sua madre
ebbe a soffrire nel partorirla. Questo
l'avrebbe intimorita, e in ciò non posso
disapprovare Diana, direi piuttosto con
Euripide: preferirei andar tre volte in
guerra, anziché partorire una volta sola. Di
Diana, in verità, io non potrei
innamorarmi, ma non nego che darei molto per
un colloquio con lei, per quel che io
chiamerei un onesto scambio di vedute.
Ella dovrebbe convenire appunto in ogni
sorta di raggiri. È chiaro che in un modo o
nell'altro la mia buona Diana ha una certa
dose di cognizioni che la rendono
di gran lunga meno ingenua di Venere. Io
non mi piglierei la briga di spiarla al
bagno, niente affatto, piuttosto la
spierei attraverso le mie domande. Se mi
recassi a un appuntamento, in cui temessi
per la mia vittoria, mi terrei allora ben
preparato e armato; metterei in moto, in
un colloquio con lei, tutte le malizie dell'erotica.
Io ho spesso meditato su quale sia la
situazione, quale sia l'attimo che debba
pur ritenersi come il più seducente. La
risposta naturalmente dipende da ciò che si
desidera, da come lo si desidera e dal
grado di sviluppo a cui si è giunti. Io
propendo per il giorno delle nozze, e
specialmente per un ben determinato
momento. Quando ella è leggiadramente
vestita da sposa e tutta la sua
magnificenza impallidisce al confronto con
la sua bellezza ed ella stessa a sua
volta impallidisce, quando il sangue si
arresta, quando il seno rimane immobile,
quando il piede vacilla, quando la
donzella trema, quando il frutto matura,
quando il cielo la esalta, quando la
serietà le dà forza, quando la promessa la
sorregge, quando la preghiera la benedice,
quando il mirto le cinge il capo, quando
il cuore palpita, quando l'occhio
s'abbassa a terra, quando ella si rifugia in se
stessa, quando ella non è più di questo
mondo per appartenervi abbastanza,
quando il seno le si agita, quando la
figura è scossa da sospiri, quando la voce
vien meno, quando la lacrima trema, quando
l'enigma non ancora è chiarito,
quando lo sposo attende... questo è il
momento. Tosto si compie. Solo un passo
rimane ancora da fare; ma può essere
benissimo un passo falso. Questo attimo
può perfino rendere interessante una
fanciulla insignificante. Tutto deve essere
tenuto pronto, se nell'attimo in cui gli
estremi si toccano manca qualche cosa,
specialmente uno dei principali estremi,
la situazione perde parte della sua
seduzione. C'è una nota incisione in rame.
Rappresenta una penitente. Il suo
aspetto è così giovanile e innocente, che
quasi ci si trova in imbarazzo, per lei
e per il confessore, riguardo a quel che
ella può avere da confessare. Ella
solleva d'un tanto il velo sulla fronte e
guarda fuori nel mondo, quasi cercasse
qualcosa che ella possa avere
l'opportunità di fare oggetto di confessione, e si
comprende che questa non è niente altro
che una doverosa attenzione verso... il
confessore. La situazione è davvero
seducente e, poiché del quadretto ella è
l'unica figura, nulla s'opporrebbe a
immaginare la chiesa in cui la scena si
svolge tanto spaziosa da potervi
senz'altro sermoneggiare più e svariati
predicatori insieme. La situazione è
davvero seducente, e non avrei nulla in
contrario a lasciarmi collocare sullo
sfondo, specialmente se anche la fanciulla,
a sua volta, nulla avesse in contrario. …
Nei miei rapporti con Cordella sono stato
dunque fedele ai miei doveri? Voglio
dire, ai miei doveri verso l'Estetica?
giacché quel che mi rende forte è che io ho
sempre l'Idea dalla mia parte. È un
segreto come quello del capelli di Sansone,
che nessuna Dalila dovrà strapparmi. Si
trattasse semplicemente d'ingannare una
fanciulla, non ne avrei la costanza; ma il
fatto che l'Idea mi accompagni nelle
mie mosse, che io agisca al suo servizio e
al suo servizio mi consacri, m'infonde
rigore verso me stesso e forza d'astenermi
dai piaceri proibiti. È stato sempre tenuto presente l'interessante? Sì, posso
affermarlo liberamente e apertamente in questo mio segreto dialogo.
L'interessante di questo fidanzamento fu appunto che
esso non diede luogo a quel che
d'abitudine s'intende per interessante. Esso
mantenne l'interessante appunto perché
l'apparenza esteriore era in
contraddizione con la vita interiore.
Fosse stato segreto il mio legame con lei,
sarebbe stato interessante solo alla prima
potenza. È invece interessante alla
seconda potenza, e perciò appunto
rappresenta per lei anzitutto l'interessante.
Il fidanzamento viene sciolto, ma perché
sarà lei stessa a scioglierlo per
prendere il volo verso una sfera più alta.
Così dev'essere; questa, cioè, è la
forma dell'interessante che più
l'avvincerà.
16 settembre
II legame è infranto; appassionata, forte,
ardita, divina, ella s'innalza a volo come
un uccello a cui ora, per la prima volta,
sia consentito di spiegare le ali. Vola,
uccello, vola! In verità, se questo volo
regale fosse una separazione da me,
illimitato e profondo sarebbe il mio
dolore. Come se l'amata di Pigmalione di
nuovo fosse tramutata in sasso, così
sarebbe per me. Lieve io l'ho resa, lieve
come un pensiero: e ora questo pensiero
non più dovrebbe appartenermi! Ci
sarebbe da impazzire. Un attimo prima, non
me ne sarei preoccupato; un attimo
dopo, non me ne sarei afflitto; ma ora...
quest'attimo è per me un'eternità! Ma
ella non vola lontano da me. E allora:
vola, uccello, vola! levati altero sulle
tue ali, scivola via attraverso il morbido
regno dell'aria, presto io sarò da te,
presto mi nasconderò insieme con te nella
profonda solitudine!
La zia rimase alquanto sorpresa a questa
notizia. D'altronde ella è troppo onesta
per pensare di costringere Cordella,
sebbene io, in parte per intontirla, in parte per
raggirare un poco Cordella, abbia fatto
qualche tentativo perché s'interessi di
me. Del resto, ella mi si mostra molto
solidale e neppure sospetta quanto
fondatamente io possa deprecare ogni
solidarietà.
Ella ha avuto dalla zia il permesso di
trascorrere qualche pò di tempo in
campagna, e si recherà quindi presso una
famiglia di conoscenti. Ciò viene
molto a proposito, perché così ella non
s'abbandonerà subito all'esuberanza del
suo nuovo stato d'animo. Ancora per
qualche tempo, sarà trattenuta da ogni specie
di esaltazione al riguardo. Io mi manterrò
in vago contatto con lei per mezzo di
lettere, in modo che i nostri rapporti
torneranno a rinverdire. Ora, a tutti i costi
ella deve essere resa forte; specialmente
sarà meglio permetterle che si lasci
andare un pò a un eccentrico disprezzo per
gli uomini e per la vita in genere.
Quando il giorno della sua partenza sarà
giunto, le comparirà innanzi, in veste di
cocchiere, un giovane fidato. Ad esso si
unirà fuori porta il mio fedelissimo
servo. L'accompagnerà fino a destinazione
e rimarrà presso di lei per
assisterla e servirla in caso di bisogno.
Non conosco nessuno che meglio di
Gianni si presti a essere mandato laggiù.
Io stesso ho poi preparato là ogni cosa col
miglior gusto possibile. Nulla manca, che
possa in qualche modo servire a far
esultare l'anima di lei e ad acquietarla
nel più voluttuoso benessere. …
La primavera è certo la stagione più bella
per innamorarsi, l'autunno la più bella
per appagare i propri desideri.
All'autunno s'accompagna una mestizia che ben
s'adatta alla commozione cui ci si
abbandona al pensiero dell'appagamento
d'un desiderio.
Oggi mi sono recato di persona in
campagna, dove per alcuni giorni Cordella
troverà l'ambiente che s'armonizzi alla
sua anima. Non desidero neppure
essere partecipe della sua sorpresa e del
suo gaudio, siffatte debolezze erotiche
solo fiaccherebbero la sua anima. Se
invece si troverà sola, si abbandonerà ai
sogni, ovunque vedrà illusioni, cenni, un
mondo incantato; ma tutto
perderebbe ogni importanza se io mi
trovassi al suo fianco, lei sarebbe indotta a dimenticare che per noi è giunto
il momento in cui tutto ciò, goduto in comunione, tornerà ad avere importanza.
Questo ambiente non deve irretire la sua
anima come un narcotico, ma anzi
deve aiutarla di continuo a elevarsi,
mentre ella lo considererà uno scherzo privo di
significato in confronto a ciò che dovrà
venire. Io stesso baderò, in questi giorni
che ancora mancano, a visitare più di
frequente quei luoghi per mantenermi in
egual stato d'animo. …
Certe volte, quando non posso trovarmi
personalmente, come vorrei, presso di
lei, mi ha turbato il pensiero che per
qualche momento possa esserle capitato di
pensare all'avvenire. Finora non le è mai
capitato, giacché troppo bene ho
saputo stordirla esteticamente. Nulla può
pensarsi di più antierotico di questi
discorsi sull'avvenire, la cui vera
origine è nella mancanza assoluta di argomenti
con cui occupare il tempo presente. Pur di
starle vicino, non mi preoccupo di
queste cose, infatti so ben spingerla a
dimenticare e il tempo e l'eternità.
Se, in un rapporto con l'anima di una
fanciulla, non si sanno disporre a tal
punto le cose, allora non bisognerebbe
impegnarsi in un tentativo di seduzione,
giacché, nel caso, sarà difficile evitare
due scogli : le domande sull'avvenire e
la catechizzazione sulla fede. …
Ora credo che tutto sia pronto per
accogliere lei; non le mancherà l'occasione
per ammirare la mia memoria; ma, meglio,
non avrà tempo per ammirarla. Nulla è
stato dimenticato che possa avere qualche
importanza per lei, e invece nulla
è stato disposto che anche minimamente
possa ricordare direttamente me,
essendo io, invisibile, presente
dappertutto. Nondimeno, l'effetto dipenderà in gran
parte da come lei arriverà a vedere tutto
fin dal primo momento. A tal fine il
mio servitore ha ricevuto precise
istruzioni, ed egli, per una sua certa saggezza, è
un esperto virtuoso in materia. Quando
riceve ordini in proposito, casualmente o
negligentemente sa trarre le sue
deduzioni, sa essere discreto: in breve, egli per
me è impagabile. La situazione è quale
ella meglio non potrebbe augurarsi. …
24 settembre
La notte è tranquilla mancano tre quarti
alla mezzanotte; fuori porta, il
cacciatore suona il suo saluto ai campi,
che riecheggia dai contrafforti; rientra tra
le mura, torna a soffiare nel suo corno:
ora l'eco giunge da più lontano ancora...
Tutto dorme in pace, tranne l'amore. Orsù,
destatevi, forze misteriose
dell'amore, raccoglietevi in questo mio
petto! La notte è silente: un uccello
solitario rompe questo silenzio col suo
grido e il suo battito d'ali, rasentando i
campi rugiadosi, giù verso il ciglio degli
spalti; anch'esso s'affretta a un
convegno d'amore. Com'è cupa tutta la
natura! Io traggo auspici dal volo degli
uccelli, dai loro gridi, dal rutilante
guizzo dei pesci sulla superficie del lago, dal
loro rituffarsi negli abissi, da un
abbaiare di cani, dal lontano rumore di una
carrozza, dal suono di un passo che
riecheggi lontano da qui. Non vedo fantasmi,
in quest'ora della notte, non quel che è
stato vedo, ma quel che sarà, nel seno del
lago, nel bacio della rugiada, nella
nebbia che si distende sulla terra a
coprirne il fecondo amplesso. Tutto è
Immagine, e io stesso sono il mio stesso
mito, giacché non è un mito che mi
affretti a questo convegno? Chi io sia, non
conta. Tutto il caduco e il mortale è
dimenticato, solo l'eterno rimane, la potenza
dell'amore, la sua urgente brama, la sua
beatitudine... Com'è intenta l'anima
mia, quale arco teso! E come son pronti i
pensieri, quali saette nella mia
faretra, non avvelenati, ma pur capaci di
mescolarsi al sangue! Com'è gagliarda
l'anima mia, sana, lieta, presente come un
dio... Ella era bella di natura. Io ti
ringrazio, natura meravigliosa! Come una
madre tu hai vegliato su di lei.
Grazie per la tua attenzione! Ella era
illibata. Io vi ringrazio, uomini, al quali ella
lo deve. Il suo sviluppo fu opera mia:
presto ne godrò i frutti... Che cosa non ho io
concentrato in questo istante che ora
s'avvicina! Morte e dannazione, se
fallissi l'intento!... Ancora non vedo la
mia carrozza... Sento uno schiocco di
frusta. È lui, il mio cocchiere... Sferza!
per la vita e per la morte! Crollino pure i
cavalli, ma non un secondo prima che
saremo giunti a destinazione!
25 settembre
Perché non può una notte simile durare più
a lungo? Se Elettra potette dimenticare,
perché in tal caso non può dunque il sole
provare compassione? .Ormai tutto è
finito, e io chiedo di non vederla mai
più. Allorché una fanciulla ha tutto donato, è
franta, tutto ha perduto; perché se
nell'uomo l'innocenza è un momento negativo,
nella donna è l'essenza della vita. Ora
ogni resistenza è impossibile, e solo
finché c'è è bello amare; quando è
cessata, amare diviene abitudine e debolezza.
Non desidero ricordare questa mia
relazione con lei; ella ha perduto ogni
profumo, e son passati i tempi in cui una
fanciulla, dal dolore per l'infedeltà
dell'amante, era tramutata in eliotropio.
Non prenderò neppure commiato da lei;
nulla m'è più fastidioso di lagrime e
suppliche di femmine, che tutto travolgono e
pur nulla in fondo significano. L'ho
amata, si, ma d'ora innanzi ella non può più
occupare l'anima mia. Se fossi un dio
farei per lei quel che Nettuno fece per una
ninfa, la tramuterei in un uomo.
Valeva davvero la pena di sapere se si era
in grado o no di raggirare una fanciulla
al punto che si potesse infonderle tanto
orgoglio da immaginarsi d'essere lei a
stancarsi della relazione. Potrebbe essere
una farsa davvero interessante, che di
per se stessa potrebbe anche avere un
certo interesse psicologico e, da questo
punto di vista, ci arricchirebbe di molte
osservazioni erotiche.
S. Kierkegaard, Diario del seduttore,
Fabbri, 1982. Estratti pag. 12-22, 101, 150-164-120
La malattia mortale (1849)
Parte prima: La malattia mortale è la
disperazione
1) La disperazione per il terrestre o per
qualcosa di terrestre
2) La disperazione dell'eterno o per se
stesso
1) La disperazione per il terrestre o per
qualcosa di terrestre
Questa è l'immediatezza pura, o
l'immediatezza che contiene una riflessione quantitativa. Qui non c'è alcuna
consapevolezza infinita del proprio io, di ciò che è disperazione o del proprio
stato di disperazione; la disperazione non è altro che patire, soccombere sotto
la pressione esteriore, e non proviene in nessun modo
dall'interno, in forma di azione. … L'uomo
immediato (in quanto può esserci, nella realtà, immediatezza senza riflessione
alcuna) è determinato soltanto come nel cerchio della temporalità e mondanità,
in una concessione immediata con l'altro offrendo soltanto un'apparenza
illusoria che ci sia dentro qualcosa di eterno. Così l'io dipende immediatamente
dall'altro, desiderando, appetendo, godendo ecc., ma passivo; persino appetendo
quest'io è un dativo, come il bambino quando dice: dammi. La sua dialettica è:
il piacevole e lo spiacevole; i suoi concetti: felicità, infelicità, destino.
Ora, a quest'io immediato, capita, accade
(cade su di lui) qualche cosa che lo porta alla disperazione; in un altro modo
non ci può arrivare perché non ha in sé alcuna riflessione; quindi, ciò che lo
porta alla disperazione deve venir da fuori, e la disperazione è meramente un
patire. Ciò in cui si è concentrata la vita dell'immediato oppure, in quanto
egli ha pure in sé un po' di riflessione, la parte
della sua vita alla quale è
particolarmente attaccato, gli viene tolta «da un colpo del
destino», in modo che egli, come si dice,
diventa infelice, cioè l'immediatezza in
lui viene talmente schiacciata che non si
può riprodurre; e allora egli si dispera. …
Dunque, egli si dispera, vale a dire: con
una strana inversione e incompleta
mistificazione riguardo a se stesso, egli
chiama questo stato disperazione. Ma
disperarsi è perdere l'eterno — e non è
questa la perdita di cui egli parla, non se la
sogna nemmeno. La perdita del terrestre
come tale non è la disperazione, oppure è
questa di cui egli parla e che chiama
disperazione. Ciò che egli dice è, in un certo
senso, vero; solo che non è vero in quel
modo in cui l'intende lui. La sua posizione
è inversa, e ciò che egli dice va inteso
all'inverso: lo si vede stare li e indicare ciò
che non è disperazione, dichiarando di
essere disperato, e intanto effettivamente la
disperazione gli si avvicina da dietro, a
sua insaputa. È come se uno, volgendo le
spalle al municipio, stendesse la mano in
avanti dicendo: ecco il municipio.
L'uomo ha ragione: eccolo qua, quando si
volta indietro. Egli non è disperato, non
è vero che lo sia; eppure ha ragione
quando lo dice. Si chiama disperato, dunque; si
considera come morto, come un'ombra di se
stesso. Però non è morto; è rimasta, se
si vuol dire così, un po' di vita nel suo
corpo. Se a un tratto tutto, cioè tutte le cose
esteriori cambiassero e si realizzasse il
suo desiderio, allora la vita ritornerebbe in
lui: l'immediatezza si rialza ed egli
comincia a vivere di nuovo. Ma questo è l'unico
modo in cui l'immediato sappia combattere,
l'unica cosa che sappia: disperarsi e
svenire — eppure egli non sa affatto che
cosa sia disperazione. Egli si dispera e
sviene, e poi rimane là, tutto immobile,
come se fosse morto, un gioco di prestigio
come quello di «fare il morto»; infatti,
l'immediato fa come certe specie inferiori di
animali che non hanno altre armi o mezzi
di difesa che stare immobili e far finta di
essere morti. Intanto passa il tempo. Se
viene un aiuto dall'esterno la vita ritorna nell'uomo
disperato: egli comincia dove aveva
smesso; non era un io e un io non è diventato,
ma continua a vivere, determinato in modo
meramente immediato. Se l'aiuto
dall'esteriorità non viene, allora, il più
delle volte, nella realtà succede
qualcos'altro. E allora la vita ritorna
nel corpo stesso; ma egli dice che «non diventa
mai più se stesso», ora comincia a
intendersi un po' della vita, impara a
scimmiottare gli altri uomini, osservando
come fanno a maneggiare la vita, e
finisce per vivere come vivono loro. Nel
mondo cristiano egli è pure cristiano, va
in chiesa ogni domenica, ascolta e
comprende il pastore; oh, sì, loro si comprendono:
quando muore, il pastore, per dieci
talleri, lo introduce nell'eternità —
ma un io non era e un io non è diventato.
Questa forma di disperazione è:
disperatamente non voler essere se stesso, o, in una
forma più bassa, disperatamente non voler
essere un io, o nella forma più bassa di
tutte: disperatamente voler essere un
altro, diverso da se stesso, augurarsi un nuovo
io. L'immediatezza, in fondo, non ha
nessuno; essa non conosce se stessa, non può
perciò neanche riconoscere se stessa e si
perde spesso nelle avventure. Quando
l'immediato si dispera, non è nemmeno
sufficientemente io per desiderare o per
sognare di essere diventato ciò che non è
diventato. L'immediato si aiuta in altro
modo: desidera di essere un altro. Di ciò
ci si può facilmente convincere
osservando degli uomini immediati; nel
momento della disperazione non c'è nessun
desiderio che in loro sorga così presto,
come quello di essere diventato un altro o di
diventare un altro. A ogni modo non si può
mai fare a meno di sorridere di un tale
individuo disperato che, umanamente
parlando, pur essendo disperato, è tanto
innocente. Di solito un tale disperato è
infinitamente comico. Si immagini un io (e
dopo Dio non esiste niente di così eterno
come un io) e poi si pensi che a un io
venga in mente che non si potrebbe fare in
modo che egli diventasse un altro,
diverso da se stesso. Eppure un tale
disperato, il cui unico desiderio è la più assurda
di tutte le trasformazioni assurde, gode
l'illusione che il cambiamento si possa
effettuare con la stessa facilità con la
quale si cambia un vestito. Perché
l'immediato non conosce se stesso; egli
conosce se stesso, in un senso strettamente
letterale, soltanto dal vestito; conosce
(ecco di nuovo l'infinita comicità) l'esigenza
dell'io dall'esteriorità. Non si trova
così facilmente uno scambio più ridicolo perché
l'io è proprio ciò che, è infinitamente
diverso dall'esteriorità. Quando l'immediato,
essendo cambiato per lui tutto il mondo
esteriore, si è disperato, egli fa un passo
più avanti: gli viene l'idea — che poi
diventa un desiderio — : come sarebbe se io
diventassi un altro, mi prendessi un nuovo
io? Già, se diventassi un altro,
quest'altro riconoscerebbe se stesso? Si
racconta di un contadino il quale, arrivato
scalzo nella capitale, aveva fatto tanti
quattrini da potersi comprare un paio di calze
e di scarpe, e gliene avanzavano
abbastanza per prendere la sbornia. Si racconta
che egli quando, ubriacatosi, voleva
andare a casa, rimase in mezzo alla strada
maestra e si addormentò. Allora venne una
vettura e il vetturino lo chiamò per
dirgli che si spostasse, altrimenti gli
sarebbe passato sopra le gambe. Il contadino
ubriaco si svegliò, si guardò le gambe e,
non riconoscendole per via delle calze e
scarpe, rispose: «Passate pure, non sono
mie le gambe». Così l'immediato, quando
si dispera, è impossibile rappresentarlo
nel suo vero aspetto se non come figura
comica e, per dirla verità, è già una
specie di gioco di destrezza parlare in questo
gergo dell'io e della disperazione.
Quando si suppone che l'immediatezza abbia
una riflessione interiore, la
disperazione si modifica alquanto; nasce
una maggior consapevolezza del proprio
io e, di conseguenza, di ciò che è la
disperazione, e che ogni stato è disperazione;
se un tal uomo dice di essere disperato,
le sue parole acquistano senso: ma la
disperazione è essenzialmente quella della
debolezza, è un patire; la sua forma è:
disperatamente non voler essere se stesso.
Il progresso, di fronte alla pura
immediatezza, si mostra subito nel fatto che non
sempre la disperazione nasce da un colpo, da
qualcosa che accade, ma può essere
causata anche dalla stessa riflessione
interiore, in modo che la disperazione, se avviene così, non è soltanto patire
e soccombere al mondo esteriore, ma, fino a un certo punto, attività dell'io,
azione. Qui c'è un certo grado di riflessione interiore; in un certo grado,
dunque, l'uomo si rende conto del proprio io; e da questo certo
grado di riflessione interiore comincia il
processo di separazione nel quale l'io si
accorge di se stesso come essenzialmente
diverso dal mondo esteriore e dalla sua
influenza sull'io. Ma soltanto fino a un
certo punto. Ora l'io, quando, con un certo
grado di riflessione interiore, comincia a
identificarsi con l'io, si imbatte forse in
questa o quell'altra difficoltà nella
composizione dell'io, nella necessità dell'io.
Infatti, come nessun corpo umano è
perfetto, così neanche nessun io. Oppure gli
succede qualche cosa che interrompe
l'immediatezza in lui più profondamente di
quanto egli aveva fatto con la riflessione
interiore, oppure la sua fantasia scopre
una possibilità che, se si avverasse,
condurrebbe a una rottura con l'immediatezza.
Così egli si dispera. La sua disperazione
è quella della debolezza, è il patire dell'io
in contrasto alla disperazione che è
affermazione dell'io; ma con l'aiuto della
relativa riflessione interiore che ha,
egli, diverso di nuovo dall'uomo meramente
immediato, fa un tentativo di difendere il
suo io. Comprende che è uno
spostamento lasciare andare l'io; non
rimane così colpito, come l'immediato, quasi
avesse un colpo apoplettico; per mezzo
della riflessione, comprende che ci sono
molte cose che può perdere senza perdere
l'io; è capace di fare concessioni, e
perché? Perché egli, fino a un certo
punto, ha separato il suo io dal mondo
esteriore, perché si è fatto un'idea
oscura che ci deve essere nell'io persino qualcosa
di eterno. Ma la sua lotta è inutile; la
difficoltà in cui si è imbattuto richiede una
rottura totale con l'immediatezza e per
questa egli non ha né la riflessione sull'io, né
la riflessione etica; non ha
consapevolezza alcuna di un io che si conquista
mediante l'infinita astrazione da tutte le
cose esteriori, di quell'io che, in contrasto
all'io vestito dell'immediatezza, è nudo e
astratto, la prima forma dell'io infinito è la
forza motrice in tutto quel processo in
cui un io si identifica illimitatamente col suo
io reale, accettandone tutte le difficoltà
e tutti i vantaggi.
Dunque egli si dispera, e la sua
disperazione è: non voler essere se stesso. Ma
certamente non gli viene in mente l'idea
ridicola di voler essere un altro; egli
mantiene il rapporto col suo io essendovi
legato, fino a questo punto, dalla riflessione.
Gli succede, riguardo all'io, ciò che può
accadere a un uomo riguardo alla
sua casa (il comico è, in questo paragone,
che l'io veramente non si disinteressa mai
di se stesso, come un uomo può
disinteressarsi della sua casa): gli diventa schifosa
perché è piena di fumo, o perde la forza
di attrattiva per una ragione qualunque;
allora egli esce, ma non lascia la casa
definitivamente, non va a prenderne in affitto
una nuova, ma considera sempre come casa
sua la vecchia, sperando che
quell'inconveniente passi. Così si
comporta l'uomo che si dispera. Finché perdura la
difficoltà, egli, come si dice in un modo
particolarmente espressivo, non osa
rientrare in se stesso, non vuole essere
se stesso; ma questo passerà; le cose forse
cambieranno, quella possibilità oscura si
dimenticherà. Frattanto egli torna talvolta
a se stesso, quasi come ospite, per vedere
se non è ancora avvenuto il
cambiamento. E appena è avvenuto si
stabilisce di nuovo in casa sua, «è di nuovo
se stesso»; ma questo vuol dire soltanto
che egli ricomincia dove si era fermato,
che era un io fino a un certo punto e non
lo è diventato di più. Ma se non avviene
cambiamento alcuno, egli si aiuta in
un'altra maniera, lasciando la via diretta verso
l'interno per la quale avrebbe dovuto
proseguire per diventare in verità un io. Tutto
il problema dell'io nel senso più profondo
si riduce a una specie di porta finta nel
fondo della sua anima, dietro alla quale
non c'è niente. Egli prende possesso di ciò
che, nel suo linguaggio, si chiama il suo
io, vale a dire, tutte le facoltà, tutti i talenti
ecc., che gli sono stati dati; di tutto
ciò egli prende possesso, ma rivolto verso
l'esteriore, verso la vita, come si suol
dire, la vita reale, attiva, evitando con grande
precauzione quel po' di riflessione
interiore che ha perché teme che venga a galla di
nuovo quella cosa nel fondo della sua
anima. Così riesce a poco a poco a
dimenticarsene; col passare degli anni gli
sembra quasi ridicola, soprattutto se si
trova in buona compagnia di uomini valenti
e attivi che hanno senso e capacità per la vita reale! Che bella cosa! ora,
come si legge nei romanzi, egli vive da parecchi
anni in un matrimonio felice, un uomo
attivo e intraprendente, padre di famiglia e
cittadino, forse persino un grand'uomo; a
casa sua la servitù lo chiama «lui», in
città ha il suo posto fra i notabili; si
presenta come persona di autorità, o con l'autorità
di una persona, vale a dire egli è, a
giudicare dall'apparenza, una persona. Nel
mondo cristiano è cristiano (perfettamente
nello stesso senso in cui nel mondo
pagano sarebbe stato pagano o, in Olanda,
olandese), uno dei cristiani colti. Si è
spesso occupato della questione dell'immortalità
e più d'una volta ha domandato al
pastore se c'era una tale immortalità, se
realmente ci si sarebbe riconosciuti;
questione che certamente deve essere per
lui di un interesse speciale, dato che egli
non ha nessun io.
È impossibile rappresentare questa specie
di disperazione nel suo vero aspetto
senza un'aggiunta di satira. Il comico è
che egli dice di essere stato disperato; il
terribile è che il suo stato, dopo aver
superato, come crede lui, la disperazione, è
proprio disperazione. È infinitamente
comico che alla base di quella accortezza di
vita tanto esaltata nel mondo, alla base
di tutta quell'abbondanza satanica di buoni
consigli e raggiri astuti, di quei modi di
lasciar passare il tempo, di rassegnarsi al
proprio destino, di far cadere in oblio,
alla base di tutto ciò, inteso idealmente, stia
una completa stupidità che ignora dov'è
veramente il pericolo, qual è il vero
pericolo. Ma questa stupidità etica è, di
nuovo, il terribile.
La disperazione per il terrestre o per
qualcosa di terrestre è la specie più comune di
disperazione, soprattutto nella forma
seconda, come immediatezza con una
quantitativa riflessione interiore. Più la
disperazione viene penetrata dalla
riflessione, più di rado si vede, o esiste
nel mondo. Questo dimostra che la maggior
parte degli uomini non si sono neanche
molto approfonditi nella disperazione, ma
non dimostra affatto che non siano
disperati. Sono pochissimi gli uomini che
vivono, sia pure soltanto in un modo
relativo, sotto la determinazione dello spirito,
anzi non sono nemmeno molti quelli che
tentano questa vita, e di coloro che lo
fanno, i più ne desistono presto. Non
hanno imparato né a temere né a dovere,
indifferenti, infinitamente indifferenti,
di fronte a qualunque cosa accada. Perciò
non possono sopportare ciò che già a loro
stessi sembra una contraddizione; la
quale poi, riflettendosi nel mondo
esterno, si dimostra molto, molto più stridente:
ché preoccuparsi della propria anima e
voler essere spirito sembra nel mondo un
perditempo, anzi un perditempo ingiustificabile
che, se fosse possibile, dovrebbe
essere punito dalla legge e in ogni modo
viene punito con disprezzo e derisione,
come una specie di tradimento contro gli
uomini, come una follia ostinata che in
modo insensato impiega il tempo in nulla.
Così c'è nella loro vita un momento —
ahimè! è il loro tempo migliore in cui
cominciano a prendere la via verso l'interno.
Ma appena si avvicinano alle prime
difficoltà, eccoli cambiare direzione: sembra
loro che questa via conduca in un deserto
desolato, allora si incamminano verso il
pascolo e presto dimenticano quel loro
tempo migliore, ahimè, lo dimenticano
come se fosse stato roba da bambini. Sono
anche cristiani — rassicurati dai pastori
riguardo alla loro salvezza.
Come si è detto, questa disperazione è la
più comune, è tanto comune che soltanto
da questo fatto si può spiegare
quell'opinione, diffusa quasi come una moneta
corrente, che la disperazione sia una
caratteristica della giovinezza, si presenti
soltanto nell'età giovanile ma non si
trovi nell'uomo posato, arrivato agli anni della
maturità. Questo è uno smarrimento
disperato, o piuttosto un errore disperato, a cui
sfugge — e, ciò che è peggio, gli sfugge
che quello che gli sfugge è quasi il meglio
che si possa dire — che la maggior parte
degli uomini, essenzialmente considerati,
in fondo non riescono, in tutta la loro
vita, a diventare più di quello che erano
nell'infanzia e nella giovinezza:
immediatezza con l'aggiunta di una piccola dose di
riflessione interiore. No, la disperazione
non è davvero qualcosa che si trova
soltanto nei giovani, qualcosa da cui si
esce senz'altro crescendo «come si esce,
crescendo, dall'illusione». Al contrario,
si incontrano molto spesso uomini e donne
e vecchi che hanno illusioni bambinesche
come qualsiasi giovane. Ma non ci si accorge che l'illusione ha essenzialmente
due forme: quella della speranza e quella del ricordo. La giovinezza ha
l'illusione della speranza, la persona anziana quella del ricordo; ma appunto
perché è in illusione, essa ha l'idea assolutamente
unilaterale che l'illusione sia soltanto
speranza. E si capisce che l'illusione della
speranza non turba l'anziano; però lo
turba, fra le altre, forse anche questa, piuttosto
comica: di guardare, da un presunto punto
di vista superiore, senza illusione,
l'illusione del giovane. Il giovane è in
illusione sperando lo straordinario dalla vita
o da se stesso; in compenso, nella persona
anziana si trovano spesso illusioni
riguardo al modo in cui ricorda la sua
giovinezza. Una donna anziana che crede di
aver rinunziato a tutte le illusioni, si
vede spesso, più di una giovinetta, vivere in
un'illusione fantastica riguardo al modo
in cui si ricorda di se stessa come giovinetta:
come era felice allora, come era bella
ecc. Questo fuimus, che si sente così
spesso da una persona anziana, è
un'illusione altrettanto grande quanto quella del
giovane, rivolta al futuro; tutti e due
sono bugiardi o poeti. Ma ben diversa è la
disperazione che si manifesta nell'erronea
convinzione che la disperazione
appartenga soltanto alla giovinezza. Prima
di tutto è una grande stoltezza, e
significa proprio non comprendere che cosa
è spirito e disconoscere che l'uomo è
spirito e non solo una creatura
animalesca, pensare che la fede e la sapienza
vengano senz'altro con gli anni, come i
denti, la barba ecc. No, a qualunque cosa
l'uomo possa senz'altro arrivare,
qualunque cosa possa accadergli, una cosa è certa:
fede e sapienza non si acquistano
fatalmente. Ma la cosa sta così: con gli anni,
l'uomo, in un senso spirituale, non arriva
«senz'altro» a niente (questa categoria è
proprio il contrario più spiccato dello
spirito); invece è molto facile perdere
senz'altro qualche cosa con gli anni:
forse si perde con gli anni quel pò di passione,
di sentimento, di fantasia, quel pò di
inferiorità che si aveva, e si arriva senz'altro
(qui, infatti, si arriva senz'altro) a
comprendere la vita secondo la determinazione
della trivialità. Questo stato
«migliorato», che veramente è venuto con gli anni,
l'uomo lo considera disperatamente come un
bene, accertandosi facilmente (e in un
certo senso satirico niente è più certo)
che ora non gli potrà mai più venire in mente
di disperarsi — no, egli si è assicurato:
egli è disperato, disperato senza spirito.
Infatti, perché Socrate amava i giovani se
non perché conosceva l'uomo?
E se non avviene che l'uomo, con gli anni,
si abbandona alla forma più triviale
della disperazione, non ne risulta
certamente in nessun modo che la disperazione
sia soltanto della giovinezza. Se un uomo
con gli anni giunge a uno sviluppo reale,
se matura in lui la consapevolezza
essenziale del proprio io, egli può forse
disperarsi in una forma più alta. E se con
gli anni non si sviluppa essenzialmente,
senza neanche abbandonarsi assolutamente
alla trivialità, cioè se continua quasi a
essere un giovane, pur essendo uomo, padre
e uomo canuto, conservando, dunque,
qualcosa del bene che è nei giovani,
allora sarà pure esposto alla disperazione del
giovane, alla disperazione per il
terrestre o per qualcosa di terrestre.
È vero che ci può essere una differenza
fra la disperazione di un tale anziano e
quella di un giovane; però non è
essenziale, bensì meramente casuale. Il giovane si
dispera per l'avvenire come per un
presente in futuro; c'è qualcosa nell'avvenire che
egli non vuole accettare, con cui non vuol
essere se stesso. L'anziano si dispera per
il passato come per un presente in
praeterito, che non vuole diventare sempre più
passato; perché non è tanto disperato che
gli riesca di dimenticarsene del tutto.
Questo passato è forse persino un fatto a
cui si vorrebbe attaccare il pentimento.
Ma perché venga fuori il pentimento,
l'uomo dovrebbe prima disperarsi
radicalmente, definitivamente, la vita
dello spirito dovrebbe prorompere dal fondo.
Ma, disperato com'è, non osa lasciare che
avvenga una tale decisione. Così rimane
dov'è, il tempo passa a meno che non
riesca, ancora più disperato, a guarire il male
con l'aiuto dell'oblio, così che egli,
invece di diventare un pentito, diventa il proprio
manutengolo! Ma essenzialmente la
disperazione di un tal giovane e di un tal
anziano è la stessa: non si arriva a una
metamorfosi nella quale prorompe la
consapevolezza dell'eterno, dell'io,
perché possa cominciare la lotta la quale o eleva
la disperazione a una forma più alta o
conduce alla fede.
2) La disperazione dell'eterno o per se
stesso
La disperazione per il terrestre o per
qualcosa di terrestre in quanto disperazione è
in fondo anche disperazione dell'eterno
per se stesso, perché questa è la formula per
ogni disperazione. Ma l'uomo in
disperazione, come è stato rappresentato nel
capitolo precedente, non si accorge di ciò
che, per così dire, succedeva dietro le sue
spalle; egli crede di disperarsi per
qualcosa di terrestre e parla continuamente di
quello per cui si dispera, oppure egli
dispera dell'eterno; perché il fatto che egli
attribuisce al terrestre tanta importanza,
oppure, più esplicitamente: che egli
attribuisca a qualcosa di terrestre tanta
importanza o, dopo aver fatto di qualcosa di
terrestre tutto il terrestre, attribuisca
al terrestre tanta importanza, questo significa
per l'appunto disperare dell'eterno.
Ora, questa forma di disperazione è un
progresso considerevole. Se quella
precedente era la disperazione della
debolezza, questa è la disperazione per la
propria debolezza. Si tratta, dunque, soltanto
di una differenza relativa; mentre
nella forma precedente si arriva fino alla
consapevolezza della debolezza, qui la
consapevolezza non si ferma a questo
punto, ma si eleva a potenza per diventare
una consapevolezza nuova che ha per
oggetto la propria debolezza. Il disperato
stesso comprende che è debolezza prendersi
tanto a cuore il terrestre, che è
debolezza disperarsi. Ma ora, invece di
volgere decisamente le spalle alla
disperazione per andare verso la fede,
umiliandosi davanti a Dio sotto la propria
debolezza, egli si sprofonda nella
disperazione e si dispera per la propria
debolezza. Così si inverte completamente
il suo punto di vista: egli acquista una
consapevolezza più chiara della sua
disperazione, si rende conto di disperare
dell'eterno, e si dispera per se stesso,
che possa essere così debole da attribuire al
terrestre tanta importanza, il che ora
diventa per lui l'espressione disperata del fatto
che egli ha perduto l'eterno e se stesso.
Qui si manifesta un movimento ascendente.
Dapprima nella consapevolezza del
proprio io; perché non è possibile
disperare dell'eterno senza avere l'idea che l'io
contenga qualcosa di eterno o che l'abbia
contenuto. E se ci si deve disperare per se
stesso, bisogna essere consapevole di
avere un io; ed è per questo che egli si
dispera, non per il terrestre o qualcosa
di terrestre, ma per se stesso. Inoltre, c'è qui
maggior consapevolezza di ciò che è
disperazione; perché disperazione è
precisamente aver perduto l'eterno e se
stesso. Naturalmente c'è anche maggior
consapevolezza del proprio stato di
disperazione. Poi la disperazione non è qui
soltanto un patire, ma un'azione. Infatti,
quando l'io si dispera perché gli viene tolto
il terrestre, è come se la disperazione
venisse dall'esterno, anche se in realtà
proviene sempre dall'io; ma quando l'io si
dispera per questa sua disperazione, la
nuova disperazione proviene dall'io
indirettamente, per via indiretta, come
reazione, a differenza dall'ostinazione,
che proviene dall'io per via diretta.
Finalmente abbiamo qui ancora un nuovo
progresso, sia pure in un altro senso.
Proprio perché questa disperazione è più
intensiva, è in un certo senso più vicina
alla salvezza. Una tale disperazione si
dimentica difficilmente, è troppo profonda;
ma in qualunque momento la disperazione si
tenga aperta, vi è anche la possibilità
della salvezza.
Ciononostante questa disperazione è da
classificarsi sotto la forma: disperatamente
non voler essere se stesso. Come un padre
che disereda un figlio, l'io non vuole
riconoscere se stesso dopo essere stato
così debole. Disperato, non può dimenticare
quella debolezza; odia in un certo modo se
stesso, non vuole, credendo, umiliarsi
sotto la sua debolezza per riconquistare
così se stesso, non vuole saper dire niente
di se stesso. Ma che si aiuti con l'oblio
non è neanche possibile, come non è
nemmeno possibile che, per mezzo
dell'oblio, si metta sotto la determinazione
dell'antispiritualità per essere uomo e.
cristiano come altri uomini e cristiani.
No, per fare questo l'io è troppo io. Come
succedeva spesso al padre che diseredava
il figlio: l'atto esteriore gli giovava
poco, non poteva con questo liberarsi del figlio,
almeno non nel pensiero, come così spesso
succede quando un amante maledice la persona odiata, cioè: amata — non gli
giova molto, si sente quasi legato di più — così succede all'io disperato
quando si vuoi liberare da se stesso.
Questa disperazione è di una qualità più
profonda di quella precedente e appartiene
alla forma di disperazione che si vede più
di rado nel mondo. Quella porta finta di
cui si parlava più sopra, dietro la quale
non c'era niente, è qui una porta reale, ma
accuratamente chiusa, e dietro a essa, per
così dire, siede l'io badando a se stesso,
impiegando il tempo nel non voler essere
se stesso, eppure abbastanza io per amare
se stesso. Questo atteggiamento si chiama
taciturnità. E da ora in poi avremo da
trattare della taciturnità che è proprio
il contrario dell'immediatezza e, fra l'altro,
nella sfera del pensiero, prova per questa
un grande disprezzo.
Ma un tale io non vive nella realtà, è
fuggito dalla realtà nel deserto, nel monastero,
nel manicomio? Non è un uomo vero e
proprio vestito come gli altri o coperto
come gli altri del solito mantello? Oh,
sì, certamente, perché no? Ma al segreto del
suo io non inizia nessuno, nessun'anima
viva, o perché non ne sente il bisogno o
perché ha imparato a vincerlo; senti un
po' come ne parla lui stesso: «Sono soltanto
gli uomini meramente immediati, i quali,
secondo la determinazione dello spirito,
sono all'incirca allo stesso punto del
bambino nella prima infanzia, quando, con la
massima disinvoltura, lascia andare da sé
tutto — sono soltanto gli uomini
meramente immediati che non possono tenere
per sé nulla. È quel genere di
immediatezza che spesso si chiama con
grande pretensione "verità, esser vero, un
uomo vero che è tutto e intero quello che
è", il che è così vero come è falsità che un
adulto, appena senta un bisogno fisico,
non ceda subito. Ciascun io, dotato di un
pochino di riflessione, deve avere un'idea
di come si possa dominare l'io». E il disperato
è abbastanza taciturno per poter tenere
lontano tutti gli estranei, cioè tutti,
dal segreto del suo io, mentre nel suo
aspetto esteriore è perfettamente «un uomo
vero e proprio», è una persona istruita,
uomo, padre di famiglia, persino un
funzionario straordinariamente valente, un
padre rispettabile, di maniere piacevoli,
molto gentile con la moglie, tutto
preoccupato per il bene dei figli. Ed è cristiano?
Oh, sì, è anche questo, ma evita il più
possibile di parlarne, anche se vede
volentieri, con un certo piacere
malinconico, che sua moglie, per edificarsi, si
occupa di cose religiose. In chiesa va
molto di rado perché gli sembra che la
maggior parte dei pastori, in fondo, non
sappiano di che cosa parlano. Forse fa
un'eccezione per un singolo pastore, di
cui ammette che sa di che cosa parla; ma
per un'altra ragione non desidera
ascoltarlo: per la paura che questo potrebbe avere
conseguenze troppo estese. Invece sente
non di rado il bisogno della solitudine, la
quale è per lui una necessità vitale,
talvolta come il respiro, in altri momenti come
il sonno. Che egli senta questa necessità
vitale più della maggior parte degli
uomini, è anche un segno che egli è una
natura più profonda. Il bisogno della
solitudine è sempre un segno che in un
uomo c'è dello spirito, e offre la misura per
determinare questo spirito. «Gli uomini
che non fanno altro che chiacchierare —
tutt'al più copie di uomini — sentono così
poco il bisogno della solitudine che,
come certi pappagalli, muoiono appena
devono, per un momento, star soli; come il
bimbo dev'essere ninnato, essi hanno
bisogno di essere calmati dalla ninna-nanna
della società, per poter mangiare, bere,
dormire, pregare, innamorarsi e via
dicendo». Ma tanto nell'antichità quanto
nel Medioevo ci si accorgeva di questo
bisogno di solitudine e si rispettava ciò
che significava; nella costante socievolezza
dei tempi nostri ci si spaventa tanto
della solitudine che (quale epigramma
eccellente!) non si sa adoperarla per
altro che come pena per i delinquenti. Ma
siccome è vero che nei tempi nostri è un
delitto avere spirito, è nell'ordine delle
cose che tali individui, amanti della
solitudine, siano classificati insieme ai
delinquenti.
Il disperato taciturno passa il tempo
attraverso ore che, anche se non vissute per
l'eternità, hanno pure a che fare con
l'eterno, occupandosi del rapporto del suo io
con se stesso, ma, in fondo, non va mai
avanti. Quando si è fatto questo, quando il
bisogno di solitudine è stato soddisfatto,
egli quasi va fuori — anche se entra in
casa o si occupa della moglie e dei
bambini. Ciò che lo fa diventare un marito così gentile e un padre così
premuroso è, oltre la sua bonarietà naturale e il suo senso del dovere, la
confessione della sua debolezza che egli, nel suo intimo taciturno, ha fatto a
se stesso.
Se fosse possibile che qualcuno venisse a
sapere ciò che egli chiude in se stesso, e poi gli dicesse: questo è orgoglio,
in fondo tu sei orgoglioso del tuo io, egli difficilmente lo ammetterebbe
davanti a un altro. Se fosse rimasto solo con se
stesso, confesserebbe forse che c'era
qualcosa di vero in quelle parole, ma la
passione con la quale il suo io ha
compreso la sua debolezza lo riporterebbe presto
all'illusione che non poteva assolutamente
essere orgoglio, essendo proprio la sua
debolezza la ragione per cui egli si
disperava, come se non fosse orgoglio dare così
enorme importanza alla debolezza, come se
non fosse per poter essere orgoglioso
del suo io che egli non può sopportare di
essere consapevole della sua debolezza.
Se gli si dicesse: «Questa è una
complicazione strana, un nodo singolare; perché, in fondo, tutto il male sta
nel modo in cui si è intricato il pensiero; per il resto il tuo stato è
perfettamente normale: è proprio questa la via che devi prendere, devi passare
attraverso la disperazione dell'io per giungere all'io. È giusto che sei
debole, ma non è questa la cosa per cui ti
devi disperare; l'io dev'essere spezzato per diventare se stesso»; se gli si
parlasse così, egli, in un momento libero di passione, lo comprenderebbe; ma
presto la passione gli farebbe smarrire la vista; e
così si volterebbe di nuovo nella
direzione falsa, dentro alla disperazione. Come si è detto, una tale
disperazione si trova nel mondo più di rado. Se essa non si ferma in questo
punto, dove non si fa altro che marciare sul posto, e se, d'altra parte, non
avviene uno sconvolgimento nell'anima del disperato, in seguito al quale egli
giunge per la via giusta alla fede: allora una tale disperazione o si eleverà a
potenza per diventare una forma più alta di disperazione, restando chiusa in se
stessa, o proromperà all'infuori e
annienterà l'involucro esterno in cui un tale
disperato è vissuto come in incognito.
Nell'ultimo caso un tale disperato si
precipiterà nella vita, si distrarrà forse
con grandi imprese, diventerà uno spirito
irrequieto, la cui esistenza lascerà
tracce visibili, uno spirito irrequieto che vuole
dimenticare; e siccome c'è troppo rumore
nel suo interno, ci vogliono mezzi forti.
Oppure cercherà oblio nella sensualità;
forse in una vita sfrenata; vuole
disperatamente tornare all'immediatezza,
ma sempre consapevole dell'io che non
vuole essere. Nel primo caso, quando la
disperazione si eleva a potenza, essa
diventa ostinazione, e ora diventa
manifesto quanta falsità era nel modo di
rappresentare la debolezza; si manifesta
la verità dialettica che la prima espressione
dell'ostinazione è appunto disperarsi per
la propria debolezza.
Ma ora guardiamo un pò, ancora una volta,
dentro all'anima del taciturno, il quale,
nella sua taciturnità, sta marciando sul
posto. Se questa taciturnità si mantiene
assoluta, il pericolo più grande per lui
diventerà il suicidio. Gli uomini quali sono
di solito non hanno naturalmente la minima
idea di ciò che un tale individuo
taciturno è capace di sopportare; se
venissero a saperlo, si stupirebbero. Ma così il
suicidio è il pericolo per l'uomo
assolutamente taciturno. Se invece egli parla con
un altro, se si apre davanti a un solo
uomo, la sua mente, con ogni probabilità, è
talmente rilassata, il suo animo tanto
abbattuto che la taciturnità non porterà al
suicidio. Una tale taciturnità, conosciuta
da un uomo, è di un tono intero più dolce
di quella assoluta. Quest'uomo
probabilmente si salverà dal suicidio. Può accadere
però che egli, proprio quando si è aperto
davanti a un altro, si dispera per questo,
che gli sembra dovesse essere suo dovere
preferire infinitamente di resistere nel
silenzio anziché far conoscere il suo
stato d'animo a un altro. Ci sono esempi per il
caso in cui un individuo taciturno sia portato
alla disperazione, appunto per aver
avuto un confidente. Allora ne può pure
risultare un suicidio.
S. Kierkegaard, La malattia mortale,
Arnaldo Mondadori, Milano, 2008. Estratti pag. 410-
30
Timore e tremore (1843)
Elogio d’Abramo
Problemata: Effusione preliminare
Problema I: Esiste una sospensione
teleologica della morale?
Elogio d’Abramo
… Ci furono uomini grandi per la loro
energia, per la saggezza, la speranza o
l'amore. Ma Abramo fu il più grande di
tutti: grande per l'energia la cui forza è
debolezza, grande per la saggezza il cui
segreto è follia, grande per la speranza la
cui forza è demenza, grande per l'amore
che è odio di se stesso. Fu per fede che
Abramo lasciò il paese dei suoi padri e fu
straniero in terra promessa. Lasciò una
cosa, la sua ragione terrestre, e un'altra
ne prese: la fede. Altrimenti, pensando all'assurdità
del suo viaggio, non sarebbe partito. Fu
per fede uno straniero in terra
promessa, ove nulla gli ricordava quel
ch'egli amava, mentre la novità di tutte le
cose gli poneva in cuore la tentazione di
un doloroso rimpianto. Eppure, era l'eletto
di Dio, in lui il Signore s'era
compiaciuto!
Certo, se fosse stato un diseredato, un
bandito dalla grazia divina, avrebbe meglio
compreso quella situazione, che sembrava
uno scherno su di lui e sulla sua fede.
… Fu per fede che Abramo ricevette la
promessa che tutte le nazioni della terra
sarebbero state benedette nella sua
posterità. I1 tempo passava, la possibilità
rimaneva, Abramo credeva. Il tempo passò,
la speranza diventò assurda, Abramo
credette. E pur esistito nel mondo colui
che ebbe una speranza. Il tempo passò, la
sera fu al suo declino e quell'uomo non
ebbe la viltà di rinnegare la sua speranza;
così, anch'egli non sarà mai dimenticato.
Poi conobbe la tristezza; e il dolore,
invece di deluderlo come la vita, fece per
lui quel che poté, e, nella sua dolcezza,
gli dette il possesso della sua speranza
ingannata. È umano conoscere la tristezza,
umano condividere la pena di chi è
afflitto, ma è cosa più grande credere, e più
confortevole e benefica cosa contemplare
chi crede. Abramo non ci ha lasciato
lamentazioni. Non ha contato tristemente i
giorni man mano che trascorrevano; non
ha guardato Sara con occhio inquieto per
vedere se gli anni incidevano rughe sul
suo volto; non ha fermato la corsa del
sole per impedire a Sara di invecchiare, e di
far invecchiare con essa la sua attesa;
per calmare la sua pena, non ha cantato a
Sara un triste cantico. Divenne vecchio, e
Sara fu schernita nel paese. Eppure era
l'eletto di Dio e l'erede della promessa,
secondo la quale tutte le nazioni della terra
sarebbero state benedette nella sua
posterità. Non sarebbe forse stato meglio ch'egli
non fosse l'eletto di Dio? Che cosa
significa dunque esser l'eletto di Dio? Significa
vedersi rifiutare nella primavera della
vita quello che è il desiderio della
giovinezza, per esser esaudito in
vecchiaia dopo grandi difficoltà. Ma Abramo
credette e serbò fermamente la promessa,
cui avrebbe rinunciato se avesse dubitato.
Avrebbe detto a Dio, allora: « Forse non è
nella tua volontà che questo mio
desiderio si realizzi. Rinuncio dunque al
mio desiderio, all'unico mio desiderio, nel
quale riponevo la mia felicità. La mia
anima è onesta e non nasconde nessun astio
segreto per il tuo rifiuto ». Non sarebbe
stato dimenticato. Avrebbe salvato molti
col suo esempio ma non sarebbe diventato
il padre della fede; perché è grande cosa
rinunciare al proprio desiderio più caro,
ma è cosa più grande serbarlo dopo averlo
abbandonato. Grande cosa è cogliere
l'eterno, ma è più grande riavere il transeunte,
dopo averne fatto rinuncia.
Poi i tempi furono compiuti. Se Abramo non
avesse creduto, sicuramente Sara
sarebbe morta di dolore; e lui, roso dalla
tristezza, non avrebbe compreso
l'esaudimento, ma ne avrebbe sorriso come
di un sogno giovanile. Ma Abramo credette, e perciò rimase giovane. Perché chi
spera sempre il meglio invecchia tradito dalla vita; e chi si dispone sempre al
peggio è presto consunto; ma chi crede
serba una eterna giovinezza. Sia benedetta
questa storia! Perché Sara, benché
anziana d'età, fu abbastanza giovane per
desiderare le gioie della maternità; e
Abramo, malgrado i suoi capelli grigi, fu
abbastanza giovane per desiderare d'esser
padre. A prima vista, il miracolo consiste
nel fatto che l'evento accadde secondo la
loro speranza; ma, in senso profondo, il
prodigio della fede consiste nel fatto che
Abramo e Sara furono abbastanza giovani
per desiderare e che la fede conservò il
loro desiderio e perciò la loro
giovinezza. Egli accettò l'esaudimento della
promessa e accettò per fede, e ciò avvenne
secondo la promessa e secondo la fede.
Perché Mosè colpi la roccia col suo
bastone, ma non credette.
Fu gioia allora nella casa di Abramo
quando Sara fu sposa nel dì delle nozze d'oro.
Eppure quella gioia non doveva durare.
Ancora una volta Abramo avrebbe
conosciuto la prova. Aveva lottato contro
la scaltra potenza cui nulla sfugge, contro
il nemico la cui vigilanza mai vien meno
lungo gli anni, contro il vegliardo che
sopravvive a tutto; aveva lottato contro
il tempo e serbato la fede. Ora tutto l'orrore
della lotta si riunì in un solo istante: «
E Dio mise Abramo alla prova e gli disse:
prendi il tuo figliolo, il tuo unico,
quello che tu ami, Isacco; vai al paese di Moriah
e offrilo colà in olocausto sopra uno dei
monti che io ti indicherò ».
Così, dunque, tutto era perduto, oh
sciagura atroce più che se il desiderio non fosse
mai stato esaudito. Così il Signore si
prendeva gioco di Abramo! Ecco che, dopo
aver realizzato l'assurdo con un miracolo,
voleva veder annientata l'opera sua. Che
pazzia! Ma Abramo non ne rise, come Sara
aveva fatto quando le fu annunciata la
promessa. Tutto era perduto! Settanta anni
di attesa fedele e la breve gioia della
fede esaudita. Ma chi è dunque colui che
strappa il bastone dalla mano del
vegliardo, chi è finalmente, per esigere
che sia il vecchio padre stesso a spezzarlo!
Chi è, per rendere inconsolabile un uomo
di chiome grigie, esigendo che sia lui
stesso la causa della sua sventura! Non
c'è dunque nessuna compassione per il vegliardo
venerabile, nessuna per il bambino
innocente! Eppure, Abramo era l'eletto
di Dio, era il Signore colui che
infliggeva la prova. Tutto dunque stava per essere
perduto! La splendida fama della stirpe
futura, la promessa della posterità
d'Abramo, tutto ciò non era stato altro
che il lampo di un rapido pensiero nella
mente del Signore; ed ora era proprio ad
Abramo che toccava cancellarlo. Quello
stupendo frutto, vecchio quanto la fede
nel cuore di Abramo e di tanti e lunghi anni
più vecchio di Isacco, questo frutto della
vita di Abramo, santificato dalla
preghiera, maturato nella lotta, quella
benedizione sulle labbra del padre, ecco, quel
frutto stava per essergli strappato, stava
per perdere ogni significato. Che senso
infatti avrebbe potuto avere il frutto
della promessa, quando ormai si trattava di
sacrificare Isacco! … . Ed era Iddio, che
lo metteva alla prova. Sventura, sventura al
messaggero che era venuto a recare una
notizia simile! Chi dunque aveva osato
farsi l'emissario di quella desolazione?
Ma era Dio stesso che poneva alla prova
Abramo. …
Ma Abramo credette e non dubitò. Credette
l'assurdo. Se avesse dubitato, avrebbe
agito altrimenti. Avrebbe compiuto un atto
grande e magnifico. Che altro avrebbe
potuto fare? Sarebbe andato alla montagna
di Moriah, avrebbe spezzato la legna,
acceso il rogo, levato il coltello;
avrebbe gridato a Dio: « Non disprezzare questo
sacrificio. Non è quel che io possiedo di
meglio, lo so. Che cos'è un vecchio di
fronte al figlio della promessa? Ma è il
meglio che io ti possa dare. Fai che Isacco
non ne sappia mai nulla, così che la sua
giovane età si consoli ». E si sarebbe
piantato il coltello nel petto. Il mondo
lo avrebbe ammirato, e il suo nome non
sarebbe stato dimenticato. Ma altro è
essere oggetto d'ammirazione e altro essere la
stella che guida e salva chi è
nell'angoscia.
Ma Abramo credette. Non pregò per sé, per
commuovere il Signore. Non venne
supplicando se non quando una giusta
punizione si abbatté su Sodoma e Gomorra.
Leggiamo nella Scrittura: « E Dio provò
Abramo e gli disse: Abramo, Abramo,
dove sei? E Abramo rispose: eccomi! ». Tu,
cui si rivolge questo mio discorso, hai tu fatto altrettanto? Quando hai veduto
venire da lontano i colpi della sorte, non hai detto alle montagne «
nascondetemi! » e alle colline«cadete su di me! »? O, se pur tu fosti più
forte, il tuo piede non si avanzò lentamente sulla buona via, non hai tu
sospirato verso gli antichi sentieri? E
quando la chiamata ha echeggiato, sei tu
rimasto in silenzio, o hai risposto, forse
piano, mormorando? Abramo, lui non
rispose così. Gioiosamente e
coraggiosamente, pieno di fiducia e a voce piena,
disse: « Eccomi! ».
Leggiamo anche: « E Abramo si levò di buon
mattino». S'affrettò come ad una
festa, e di prima mattina fu al luogo
designato, sulla montagna di Moriah. Non
disse nulla a Sara. Infatti, chi avrebbe
potuto comprenderlo? E la tentazione, per la
sua stessa natura, non gli aveva forse
imposto il voto del silenzio? « Spaccò la
legna, legò Isacco, accese il rogo, sfilò
il coltello ». O tu che mi ascolti! Molti padri
han creduto di perdere nel loro figlio il
più prezioso tesoro del mondo e di esser
così spogliati d'ogni speranza avvenire.
Eppure nessun figlio è stato il figlio della
promessa nel senso in cui Isacco lo fu per
Abramo. Molti padri hanno perduto il
loro figliolo, ma esso fu loro tolto dalla
mano di Dio, dall'insondabile e immutabile
volontà dell'Onnipotente. Affatto diverso,
il caso di Abramo. Una più grave prova
gli era serbata; la sorte di Isacco fu
posta nel pugno suo insieme al coltello. Tale la
sorte del vegliardo di fronte alla sua
speranza unica! Ma egli non dubitò, non
guardò angosciato a destra e a sinistra,
non stancò il Cielo con le sue preghiere.
Dunque l'Onnipotente lo metteva alla
prova, egli lo sapeva, e sapeva anche che
quel sacrificio era il più grave che gli
si potesse chiedere; ma sapeva che nessun
sacrificio è troppo grave, quando Iddio lo
richiede. Ed egli levò il coltello.
Chi dette forza al braccio di Abramo, chi
sostenne in alto la sua destra e le impedì
di ricadere impotente? Questa scena
paralizza lo spettatore. Chi dette forza
all'anima di Abramo e impedì ai suoi occhi
di oscurarsi in modo da non scorgere
più né Isacco né l'ariete? Questa scena
acceca lo spettatore. Eppure è forse raro chi
ne divenga cieco e paralizzato e ancor più
raro chi degnamente racconti che cosa
avvenne. Noi tutti lo sappiamo: non era
che una prova.
Se Abramo, sulla montagna di Moriah,
avesse dubitato; se, nella sua irresolutezza
avesse guardato intorno a sé; se, levando
il coltello, avesse, per avventura, scorto
l'ariete; se Dio gli avesse permesso di
sacrificarlo invece di Isacco; allora egli
sarebbe tornato alla sua casa, tutto
sarebbe rimasto come prima. Avrebbe avuto
Sara presso di sé, avrebbe conservato
Isacco. Eppure, che mutamento! Perché il
suo ritirarsi sarebbe stato una fuga, la
sua salvezza sarebbe stato un caso, la sua
ricompensa un disonore, e il suo avvenire,
forse, la perdizione. Allora, egli non
avrebbe testimoniato né della sua fede né
della grazia di Dio, ma avrebbe soltanto
dimostrato quanto sia terribile salire la
montagna di Moriah. Allora né Abramo, né
la montagna di Moriah sarebbero stati
dimenticati. Questa sarebbe stata citata, non
già come l'Ararat dove si fermò l'arca, ma
come un luogo di sgomento « è stato
quello (si sarebbe detto), è stato quello
il luogo dove Abramo ha dubitato ».
Abramo, venerabile patriarca! Quando tu
ritornasti da Moriah a casa tua, non avesti
affatto bisogno di un panegirico per
consolarti d'una perdita. Perché, non è vero? tu
avevi guadagnato ogni cosa e conservato
Isacco. Il Signore non te lo prese mai più
e tu fosti visto sedere felice a mensa col
figlio tuo, come in cielo per l'eternità.
Abramo, venerabile padre! … Secondo padre
del genere umano! Tu che per primo
hai sperimentato e testimoniato di quella
prodigiosa passione che sdegna la lotta
terribile contro il furore degli elementi
e le forze della creazione per combattere
con Dio; tu, che per primo hai
sperimentato quella sublime passione, sacra, umile e
pura espressione della frenesia divina; tu,
che i pagani ammirarono, perdona a chi
ha voluto parlare in tua lode se male ha
eseguito il suo compito. Ha parlato
umilmente, come il suo cuore voleva; ha
parlato brevemente, come conveniva. Ma
non dimenticherà mai che cento anni
dovettero passare per te prima che tu
ricevessi, contro ogni attesa, il figlio
della vecchiezza; e che, per conservare Isacco,
tu dovesti levare il coltello. Non
dimenticherà mai che, fino a centotrent'anni, tu
non eri andato al di là della fede.
Problemata
Effusione preliminare
… Innumerevoli generazioni hanno saputo a
memoria, e parola per parola, la storia
di Abramo; ma a quanti essa ha provocato
l'insonnia?
Quella storia ha la strana virtù d'esser
sempre magnifica, per quanto poveramente
la si voglia comprendere, a condizione
tuttavia di voler lavorare e darsi da fare. Ma
si pretende, invece, comprenderla senza
fatica. Si parla in gloria di Abramo. Ma
come? Si indica tutta la sua condotta con
una espressione generica: « Fu grande per
avere amato Iddio al punto di avergli sacrificato
quanto aveva di meglio ». Certo:
ma quel « meglio » è assai vago. Pensando
e parlando, si identificano
tranquillamente Isacco e « il meglio », e
intanto colui che medita può, a piacer suo,
fumare la pipa mentre compie le sue
riflessioni e colui che ascolta può
comodamente sgranchirsi le gambe. Se il
giovane ricco, che Gesù incontrò cammin
facendo, avesse venduto tutto il suo e ne
avesse distribuito ai poveri il ricavato, noi
loderemmo la sua condotta come ogni azione
grande, pur non potendo
comprenderla appieno senza lavoro e
fatica. Tuttavia, egli non sarebbe divenuto un
Abramo per il fatto di aver sacrificato
quanto aveva di meglio! Quel che si omette,
nella storia del patriarca, è l'angoscia.
Perché, mentre non sono legato da alcun
obbligo morale verso il denaro, il padre è
legato dal più nobile e dal più sacro di
quegli obblighi verso suo figlio. Ma
l'angoscia è pericolosa per i delicati. Per
questo la si tace, e tuttavia si pretende
parlare d'Abramo. Si perora; e, sempre
discorrendo, si mescolano le due parole, «
Isacco » e « il meglio ». Tutto fila
benissimo. Ma se fra gli ascoltatori vi è
alcuno che soffra di insonnia, si rischia
allora il tragicomico del più profondo e
del più spaventoso malinteso. Il nostro
uomo ritorna a casa, desideroso di imitare
Abramo. Il suo figliolo non è forse il
meglio che abbia? Se l'oratore lo viene a
sapere, certo si precipita dietro di lui,
raccoglie tutta la sua dignità di prete e
grida: « Uomo abbietto, rifiuto della società!
Quale demone ti possiede e ti spinge a
uccidere la tua creatura! ». E quel prete, che
il sermone su Abramo non ha né riscaldato,
né fatto sudare, stupisce della potenza e
della giusta collera con la quale ha
folgorato quel poveruomo. È contento di sé,
perché mai ha parlato con tanta forza e persuasione.
Dice a se stesso, e ripete a sua
moglie: « Ho il dono della parola. Finora,
non mi è mancata che l'occasione.
Domenica, quando ho predicato su Abramo,
non ero affatto preso dal mio
argomento ». Se quel predicatore avesse
una qualche particella di ragionevolezza
da perdere, penso che la perderebbe quando
il peccatore gli rispondesse con calma
e dignità: « Ma quanto tu stesso ci hai
detto domenica nella tua predica ».
D'altronde come avrebbe potuto immaginare
il prete una cosa simile? Eppure non
c'era davvero nulla di sorprendente.
L'errore suo era soltanto quello di non sapere
quel che si dicesse. Come mai non si
trovano poeti capaci di affrontare
risolutamente situazioni di questo genere,
invece delle sciocchezze che gonfiano
commedie e romanzi! Qui, il tragico e il
comico si incontrano nell'infinito assoluto.
In sé, la predica del prete è
indubbiamente piuttosto ridicola, ma lo diventa
infinitamente per via del suo effetto,
d'altronde affatto naturale. Sarebbe anche
possibile mostrare il peccatore convertito
dal sermone del pastore, senza obiettare
nulla; e lo zelante pastore tornarsene
tutto allegro a casa sua pensando che, se tocca
così il suo uditorio dall'alto del
pergamo, è soprattutto irresistibile nella cura delle
anime, perché la domenica trascina
l'accolta dei fedeli e il lunedì, simile a un
cherubino che brandisca una spada di
fiamma, si presenta di fronte all'insensato che
vorrebbe smentire con i suoi atti il
vecchio proverbio, secondo il quale le cose della vita non vanno come predica il prete.
Al contrario, se il peccatore non è stato
persuaso, la sua situazione è piuttosto
tragica. Egli, molto probabilmente, viene
condannato a morte o mandato in un
manicomio. Diventa insomma infelice di
fronte alla cosiddetta realtà; e, beninteso, in un senso diverso da quello nel
quale Abramo l'ha reso felice. Perché chi lavora non perisce.
Come spiegare la contraddizione del nostro
predicatore? Si potrà dire forse che
Abramo ha acquisito per prescrizione il
titolo di grand'uomo, sicché un atto come il
suo è nobile, se compiuto da lui, mentre
invece è rivoltante peccato, se compiuto da
un altro. In questo caso, non ho la minima
voglia di sottoscrivere un elogio tanto
assurdo. Se la fede non può giustificare
il fatto di voler uccidere il proprio figliolo,
Abramo cade sotto il giudizio comune. Che
poi, se non si ha il coraggio di andare
fino in fondo al proprio pensiero e
dichiarare Abramo un assassino, è meglio
sempre acquistare quel coraggio piuttosto
che perdere il tempo in panegirici
immeritati. Dal punto di vista morale, la
condotta di Abramo si esprime dicendo
ch'egli volle uccidere Isacco; e dal punto
di vista religioso, dicendo che volle
sacrificarlo. È questa la contraddizione
angosciosa capace di produrre l'insonnia e
senza questa angoscia, tuttavia, Abramo
non è l'uomo che è. E fors'anche egli non
ha affatto compiuto ciò che si racconta di
lui. Forse il suo atto, spiegandolo con i
costumi del tempo, fu tutt'altro. In
questo caso, dimentichiamoci del patriarca. A
che cosa può servire, infatti, ricordare
il passato che non può diventare un
presente? O forse il nostro oratore ha
dimenticato un elemento corrispondente alla
dimenticanza etica del dovere paterno.
Quando, infatti, si sopprime la fede
riducendola a zero, resta solo il fatto
bruto che Abramo volle uccidere suo figlio,
condotta assai facile ad imitare da parte
di chiunque non abbia quella fede, che gli
rende difficile il sacrificio.
… Dev'esser difficile comprendere Hegel;
ma Abramo! Uno scherzo. Superare
Hegel, è un prodigio. Ma superare Abramo,
nulla di più facile! Quanto a me, ho
impiegato gran tempo nello studio del
sistema hegeliano, e credo anzi di averlo
abbastanza capito. Sono persino tanto
temerario da credere che, quando, malgrado
tutti i miei sforzi, non arrivo ad
afferrare il suo pensiero in taluni passaggi, ciò
voglia dire che il mio autore non è
abbastanza chiaro con se medesimo. Io compio
quello studio assai facilmente, in modo
affatto naturale, né esso mi dà il mal di
capo. Ma, quando mi metto a riflettere su
Abramo, sono come annientato. Ad ogni
istante i miei occhi cadono sull'inaudito
paradosso ch'è la sostanza della sua vita.
Ad ogni istante sono respinto indietro e,
malgrado il suo appassionato accanimento,
il mio pensiero non può penetrare quel
paradosso neppure per un capello. Tendo
ogni muscolo nella ricerca di una via di
uscita. E, simultaneamente, sono
paralizzato.
… Bisogna dunque fare a meno di predicare
su Abramo? Non lo credo. Se dovessi
parlare di lui, rappresenterei anzitutto
il dolore della prova. Vorrei succhiare come
una sanguisuga tutta l'angoscia, la
sofferenza e il martirio del dolore paterno per
poter rappresentare quello di Abramo che
tuttavia, in mezzo a tante afflizioni,
continuava a credere. Vorrei allora
ricordare che il viaggio durò tre giorni e una
buona parte del quarto; e quei tre giorni
e mezzo, io li farei durare infinitamente più
a lungo delle migliaia di anni che ci
separano dal patriarca. A questo punto
ricorderei che, a parer mio, ciascuno può
ancora far marcia indietro prima di salire
a Moriate, può ad ogni istante pentirsi
della sua decisione e tornare sui propri passi.
Così facendo non correrò il pericolo di
destare in taluno la voglia di essere provato
come lo fu Abramo.
Ma se si vuole smerciare un'edizione
popolare ed economica di Abramo e diffidare
al tempo stesso la gente dal fare come
lui, si è semplicemente ridicoli.
Io mi propongo ora di ricavare dalla
storia di Abramo, sotto forma di problemi, la
sua dialettica; per vedere quale inaudito
paradosso è la fede, paradosso capace di
trasformare un delitto in un atto santo e
gradito a Dio, paradosso che restituisce ad
Abramo suo figlio, paradosso che nessun
ragionamento può dominare, perché la
fede comincia là, appunto, dove la ragione
finisce.
Problema I: Esiste una sospensione
teleologica della morale?
La morale è propriamente il Generale e, in
quanto Generale, è ciò che vale per tutti.
In altro senso si può dire che è ciò che è
valido in ogni istante. Riposa, immanente
in se stessa, senza nulla di esterno, che
sia il suo télos, essendo essa stessa télos di
tutto ciò che le è esterno. E quando ha
integrato tutto ciò a se stessa, ha raggiunto il
suo scopo. Posto come essere immediato,
sensibile e psichico, l'individuo è l'Individuo
che ha il suo télos nel Generale. E questo
è il suo compito etico: esprimere
costantemente se stesso in quello, e
dissolvere la propria individualità nel Generale.
Quando l'individuo rivendica la sua
individualità di fronte al Generale, egli pecca,
né può riconciliarsi col Generale se non
riconoscendolo. Ogni volta che l'Individuo,
dopo essere entrato nel Generale, si sente
portato a rivendicare la sua individualità,
entra in una crisi dalla quale si libera
solo col pentimento, abbassandosi come
Individuo nel Generale. …
La fede è, appunto, il paradosso secondo
il quale l'Individuo, come tale, al di sopra
del Generale, è in regola di fronte a
questo, non come subordinato, ma come
superiore; e nondimeno (si badi bene) in
modo tale che l'Individuo, dopo essere stato come tale subordinato al Generale,
diventa allora, per mezzo del Generale, l'Individuo come tale, superiore a
quello; in modo che l'Individuo come tale è in un rapporto assoluto con
l'Assoluto. Questa posizione sfugge alla mediazione, che si effettua sempre in
virtù del Generale. Essa è e resta eternamente un paradosso inaccessibile al
pensiero. La fede è questo paradosso, altrimenti (conseguenza che prego voler
ricordare continuamente per non dovere infastidire il lettore ad ogni passo) la
fede non è mai esistita perché c'è sempre stata; in altre parole, Abramo è perduto.
.. Il paradosso della fede consiste dunque
nel fatto che l'Individuo è superiore al Generale, in modo che (per ricordare
una distinzione dogmatica oggi raramente impiegata) l'Individuo determina il
suo rapporto col Generale mediante il suo rapporto con l'Assoluto e non già il
suo rapporto con l'Assoluto mediante il suo rapporto col Generale. Si può anche
formulare il paradosso dicendo che esiste un dovere assoluto verso Dio; perché,
in questo dovere, l'Individuo in quanto Individuo si riferisce in modo assoluto
all'Assoluto. In queste condizioni, quando si afferma che amare Iddio è un
dovere, si esprime una cosa diversa da quella detta prima; perché, se questo
dovere è assoluto, la morale scende al livello del relativo. Nondimeno, non ne
consegue che la morale debba essere abolita; essa riceve piuttosto
un'espressione affatto diversa, quella del paradosso, di modo che, ad esempio,
l'amore verso Dio può condurre il cavaliere della fede a dare al suo amore verso
il prossimo l'espressione contraria a quanto, dal punto di vista morale, è il suo
dovere.
Se non è così, la fede non ha il suo posto
nella vita, essa non è che una crisi; e Abramo è perduto, in quanto ha ceduto
ad essa.
Questo paradosso non si presta ad essere
mediato: perché riposa sul fatto che l'Individuo è esclusivamente l'Individuo.
Quando vuole esprimere il suo dovere assoluto nel Generale e prendere coscienza
di quello in questo, riconosce d'essere in crisi e, malgrado la sua resistenza
a questo turbamento, non arriva a compiere il sedicente dovere assoluto; e, se
non lo compie, pecca, benché la sua azione traduca realiter quello che
era il suo dovere assoluto. Che cosa dovrebbe fare Abramo, allora? Se dicesse a
qualcuno: « Amo Isacco più di ogni altra cosa al mondo; ecco perché mi è così
penoso sacrificarlo », il suo interlocutore gli risponderebbe alzando le
spalle: « e perché vuoi sacrificarlo? »; a meno che, pieno di acume, non scoprisse
che Abramo esibisce sentimenti in stridente contraddizione con la sua condotta.
Noi troviamo un paradosso di questo genere
nella storia di Abramo. Dal punto di vista morale, il rapporto che lo lega a
Isacco si esprime dicendo che il padre deve amare il figliolo. Questo rapporto
morale è così abbassato al relativo in contrasto al rapporto assoluto con Dio.
Se si chiede perché, Abramo non può rispondere altro che questo: che è una
prova, una tentazione, ciò che (come abbiamo detto) esprime l'unità d'una
condotta nella quale egli agisce per amore di Dio e per amore di se stesso. …
Da una parte, la fede ha l'espressione del supremo egoismo: compie l'azione
terribile, per amore di se stessa. D'altra parte, è l'espressione dell'abbandono
assoluto; e agisce per amore di Dio. Essa non può penetrare il Generale per via
di mediazione; in quel modo sarebbe distrutta. La fede è questo paradosso; e
l'Individuo non può assolutamente farsi intendere da nessuno. Ci si immagina,
lo so bene, che possa farsi comprendere da un suo pari che si trovi nella medesima
situazione. Un cavaliere della fede non può assolutamente soccorrerne un altro.
O l'Individuo diventa cavaliere della fede assumendo su di sé il paradosso, o
non lo diventai mai. In regioni come queste non si pensi di poter andare in compagnia.
L'Individuo non può ricevere che da se stesso una spiegazione più particolareggiata
di quel ch'egli debba intendere come « Isacco ». E se, dal punto di vista del
Generale, fosse possibile determinarlo abbastanza esattamente (ma sarebbe una
contraddizione profondamente ridicola situare l'Individuo, che è, appunto, al
di fuori del Generale, sotto categorie generali, poiché deve agire proprio in
quanto Individuo fuori del Generale), l'Individuo non potrà tuttavia assicurarsene
mai con altri, ma solo attraverso se stesso, in quanto Individuo. Così, quand'anche
un uomo fosse tanto vile e miserabile da voler diventare cavaliere della fede
sotto responsabilità altrui, non lo diverrebbe; perché soltanto l'Individuo, in
quanto Individuo, lo diventa. Là è la sua grandezza, che io comprendo bene e alla
quale, per mancanza di coraggio, non so pervenire; ma là è anche l'aspetto spaventoso
della cosa. E questo posso concepirlo molto meglio.
S. Kierkegaard, Timore e tremore, Arnaldo
Mondadori, Milano, 2008. Estratti pag. 247-58,