quarta di copertina da "I Simpson e la filosofia"

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venerdì 10 agosto 2007

JOHN STUART MILL, ON LIBERTY testo integrale

JOHN STUART MILL
SAGGIO SULLA LIBERTA'
DEDICA
V APPLICAZIONI
DEDICA
All'amata e compianta memoria di colei che fu l'ispiratrice, e in parte l'autrice, di tutto il meglio della mia opera – all'amica e moglie il cui altissimo senso della verità e della giustizia era il mio stimolo più grande, e la cui approvazione era la massima ricompensa – dedico questo volume. Come tutto ciò che ho scritto per molti anni, appartiene a lei quanto a me; ma il lavoro, così com'è, ha ricevuto in misura molto insufficiente l'inestimabile beneficio della sua revisione; alcune delle parti più importanti avrebbero dovuto essere sottoposte a un riesame più accurato, che ora non riceveranno mai più. Se solamente fossi capace di trasmettere al mondo la metà dei grandi pensieri e dei nobili sentimenti che sono sepolti con lei, sarei il tramite di benefici maggiori di quanti potranno mai derivare da qualunque cosa io scriva, privo dello stimolo e del conforto della sua impareggiabile saggezza.I INTRODUZIONE
L'argomento di questo saggio non è la cosiddetta "libertà della volontà", tanto infelicemente contrapposta a quella che è impropriamente chiamata dottrina della necessità filosofica, ma la libertà civile, o sociale: la natura e i limiti del potere che la società può legittimamente esercitare sull'individuo. Questione raramente enunciata, e quasi mai discussa in termini generali, ma la cui presenza latente influisce profondamente sulle polemiche quotidiane del nostro tempo, e che probabilmente si paleserà ben presto come il problema fondamentale del futuro. È così poco nuova che, in un certo senso, ha diviso l'umanità quasi fin dai tempi più remoti; ma, allo stadio di progresso cui sono ora giunti i settori più civilizzati della nostra specie, si presenta alla luce di condizioni nuove e richiede di essere trattata in modo diverso e più fondamentale. La lotta tra libertà e autorità è il carattere più evidente dei primi periodi storici di cui veniamo a conoscenza, in particolare in Grecia, Roma e Inghilterra. Ma nell'antichità si trattava di conflitti tra sudditi, o alcune classi di sudditi, e governo. Per libertà si intendeva la protezione dalla tirannia dei governanti, concepiti (salvo che nel caso di alcuni governi popolari della Grecia) come necessariamente antagonisti al popolo da essi governato. Si trattava di un singolo, o di una tribù o casta dominante, la cui autorità era ereditaria o frutto di conquista, in ogni caso non della volontà dei governatori, e la cui supremazia gli uomini non osavano, o forse non desideravano, porre in discussione, quali che fossero le eventuali misure di precauzione contro un suo esercizio troppo oppressivo. Il potere dei governanti era considerato necessario, ma anche estremamente pericoloso: un'arma che essi avrebbero cercato di usare contro i propri sudditi altrettanto che contro i nemici esterni. Per impedire che i membri più deboli della comunità venissero depredati e tormentati da innumerevoli avvoltoi, era indispensabile la presenza di un rapace più forte degli altri, con l'incarico di tenerli a bada. Ma, poiché il re degli avvoltoi sarebbe stato voglioso quanto le minori arpie di depredare il gregge, si rendeva necessario un perpetuo atteggiamento di difesa contro il suo becco e i suoi artigli. Quindi, lo scopo dei cittadini era di porre dei limiti al potere sulla comunità concesso al governante: e questa delimitazione era ciò che essi intendevano per libertà. Si cercava di conseguirla in due modi: in primo luogo, ottenendo il riconoscimento di certe immunità, chiamate libertà o diritti politici, la cui violazione da parte del governante sarebbe stata considerata infrazione ai doveri del suo ufficio, e avrebbe giustificato l'opposizione specifica o la ribellione generale. Una seconda modalità, generalmente successiva, era la creazione di vincoli costituzionali per cui il consenso della comunità, o di un qualche organismo che avrebbe dovuto rappresentarne gli interessi, veniva reso condizione necessaria per alcuni degli atti fondamentali dell'esercizio del potere. Nella maggior parte dei paesi europei, i governanti furono più o meno costretti ad accettare il primo sistema ma non il secondo, e conseguirlo, o conseguirlo più compiutamente nelle situazioni in cui già in una certa misura esisteva, divenne in ogni paese l'obiettivo principale di chi amava la libertà. E, fino a quando l'umanità si accontentò di combattere un nemico con un altro, e di avere un signore a condizione di essere più o meno efficacemente garantita contro la sua tirannide, le sue aspirazioni si fermarono qui. Tuttavia, a un certo punto del progresso umano, gli uomini cessarono di pensare che i governanti dovessero necessariamente essere un potere indipendente, con interessi opposti ai propri, e giudicarono molto preferibile che i vari magistrati dello Stato ricevessero in concessione l'esercizio del potere, fossero cioè dei delegati revocabili a piacimento dalla comunità. Solo così, si pensava, gli uomini avrebbero potuto essere completamente sicuri che non si sarebbe mai abusato a loro danno dei poteri di governo. Gradualmente, questa nuova richiesta di governo temporaneo e elettivo divenne l'obiettivo principale dell'azione dei partiti popolari ovunque essi esistessero, sostituendosi in larga misura ai precedenti tentativi di limitare il potere dei governanti. Con lo sviluppo della lotta per fare emanare il potere dalla scelta periodica dei governanti, alcuni cominciarono a pensare che si era attribuita troppa importanza alla limitazione del potere in quanto tale, limitazione che a loro giudizio andava invece considerata un'arma contro quei governanti i cui interessi si contrapponessero abitualmente a quelli popolari. Ciò che ora si voleva era l'identificazione dei governanti con il popolo, la coincidenza del loro interesse e volontà con quelli della nazione. Quest'ultima non aveva bisogno di essere protetta dalla propria volontà: non vi era da temere che diventasse il tiranno di se stessa. Se i governanti fossero stati effettivamente responsabili verso di essa, e da essa immediatamente amovibili, la nazione avrebbe potuto permettersi di affidare loro un potere il cui uso sarebbe dipeso dalla sua volontà: il potere di governo non sarebbe stato altro che quello della nazione, concentrato in forma tale da permetterne un efficace esercizio. Questa linea di pensiero, o – forse più esattamente – questo sentimento, era diffusa nell'ultima generazione del liberalismo europeo, e sembra ancora predominare nel Continente. Coloro che ammettono limiti alle possibilità di azione di un governo, salvo che si tratti di governi che a loro avviso non dovrebbero esistere, sono delle brillanti, isolate eccezioni tra i pensatori politici del Continente: e un sentimento analogo potrebbe ormai prevalere anche nel nostro paese se le circostanze che lo hanno per un certo periodo favorito fossero rimaste immutate. Ma, nelle teorie politiche e filosofiche come nelle persone, il successo pone in luce difetti e debolezze che l'insuccesso avrebbe potuto mantenere celati. L'idea secondo cui non vi è necessità che il popolo limiti il proprio potere su se stesso poteva sembrare assiomatica in tempi in cui il governo popolare era solo un obiettivo fantasticato o lo si conosceva attraverso le letture, come fenomeno di un lontano passato: né venne necessariamente scossa da aberrazioni temporanee come quelle della Rivoluzione francese, le peggiori delle quali erano opera di pochi usurpatori, e che comunque non erano proprie del funzionamento permanente di istituzioni popolari, ma di un'improvvisa e convulsa esplosione contro il dispotismo monarchico e aristocratico. A un certo punto, tuttavia, vi fu una repubblica democratica che si sviluppò fino a occupare una vasta distesa di territorio e a far sentire il proprio peso come uno dei membri più potenti nella comunità delle nazioni; e in questo modo il governo elettivo e responsabile divenne oggetto delle osservazioni e delle critiche che accompagnano ogni grande realtà. Ci si rese allora conto che espressioni come "autogoverno" e "potere del popolo su se stesso" non esprimevano il vero stato delle cose. Il "popolo" che esercita il potere non coincide sempre con coloro sui quali quest'ultimo viene esercitato; e l'"autogoverno" di cui si parla non è il governo di ciascuno su se stesso, ma quello di tutti gli altri su ciascuno. Inoltre, la volontà del popolo significa, in termini pratici, la volontà della parte di popolo più numerosa o attiva – la maggioranza, o coloro che riescono a farsi accettare come tale; di conseguenza, il popolo può desiderare opprimere una propria parte, e le precauzioni contro ciò sono altrettanto necessarie quanto quelle contro ogni altro abuso di potere. Quindi, la limitazione del potere del governo sugli individui non perde in alcun modo la sua importanza quando i detentori del potere sono regolarmente responsabili verso la comunità, cioè al partito che in essa predomina. Questa impostazione, che soddisfa sia la riflessione intellettuale sia le tendenze di quelle importanti classi della società europea ai cui interessi, reali o presunti, si oppone la democrazia, non ha trovato difficoltà a imporsi; e il pensiero politico ormai comprende generalmente "la tirannia della maggioranza" tra i mali da cui la società deve guardarsi. Come altre tirannie, quella della maggioranza fu dapprima – e volgarmente lo è ancora – considerata, e temuta, soprattutto in quanto conseguenza delle azioni delle pubbliche autorità. Ma le persone più riflessive compresero che, quando la società stessa è il tiranno – la società nel suo complesso, sui singoli individui che la compongono –, il suo esercizio della tirannia non si limita agli atti che può compiere per mano dei suoi funzionari politici. La società può eseguire, ed esegue, i propri ordini: e se gli ordini che emana sono sbagliati, o comunque riguardano campi in cui non dovrebbe interferire, esercita una tirannide sociale più potente di molti tipi di oppressione politica, poiché, anche se generalmente non viene fatta rispettare con pene altrettanto severe, lascia meno vie di scampo, penetrando più profondamente nella vita quotidiana e rendendo schiava l'anima stessa. Quindi la protezione dalla tirannide del magistrato non è sufficiente: è necessario anche proteggersi dalla tirannia dell'opinione e del sentimento predominanti, dalla tendenza della società a imporre come norme di condotta e con mezzi diversi dalle pene legali, le proprie idee e usanze a chi dissente, a ostacolare lo sviluppo – e a prevenire, se possibile, la formazione – di qualsiasi individualità discordante, e a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello. Vi è un limite alla legittima interferenza dell'opinione collettiva sull'indipendenza individuale: e trovarlo, e difenderlo contro ogni abuso, è altrettanto indispensabile alla buona conduzione delle cose umane quanto la protezione dal dispotismo politico. Ma, anche se quest'asserzione è difficilmente opinabile in termini generali, nella questione pratica della determinazione del limite – di come conseguire l'equilibrio più opportuno tra indipendenza individuale e controllo sociale – quasi tutto resta ancora da fare. Tutto ciò che rende l'esistenza di chiunque degna di essere vissuta dipende dall'impostazione di restrizioni sulle azioni altrui. Di conseguenza devono essere imposte alcune regole di condotta – dalla legge in primo luogo, e dall'opinione nei molti campi che non si prestano a legislazione. Quali debbano essere queste regole è il problema principale della collettività umana; ma, ad eccezione di alcuni dei casi più ovvii, è questo un problema verso la cui soluzione sono stati compiuti minori progressi. Nessun'epoca, e quasi nessun paese, lo hanno risolto nello stesso modo; e la soluzione di un paese o epoca è lo stupore degli altri: e tuttavia, gli uomini di qualsiasi singolo paese, o epoca, non ne sospettano mai le difficoltà, come se l'umanità fosse sempre stata unanime su questo argomento. Le regole secondo cui vivono sembrano loro ovvie e autogiustificantesi. Quest'illusione del tutto universale è un esempio della magica influenza della consuetudine, che non è solo, come afferma il proverbio, una seconda natura, ma viene continuamente scambiata per la prima. L'efficacia della consuetudine nel prevenire ogni dubbio sulle norme di condotta che gli uomini si impongono a vicenda è tanto più completa perché l'argomento è uno di quelli su cui non viene generalmente considerato necessario fornire spiegazioni, né agli altri né a se stessi. Gli uomini sono abituati a credere, e a ciò sono stati incoraggiati da alcuni che aspirano a essere definiti filosofi, che in questioni di tale natura i loro sentimenti siano meglio delle ragioni e le rendano inutili. Il principio pratico che forma le loro opinioni sulle regole della condotta umana è il sentimento, da parte di ciascuno, che a ciascuno dovrebbe essere prescritto di agire come piacerebbe a lui e a coloro con cui simpatizza. Nessuno, è vero, ammette a se stesso che il suo criterio di giudizio è il suo gradimento; ma un'opinione su un dato tipo di condotta, che non sia confortata da ragioni, può solo essere considerata una preferenza individuale; e se le ragioni addotte sono semplicemente un appello a una simile preferenza condivisa da altri, l'opinione è solo il gradimento di molti invece che di uno. Tuttavia, per un uomo comune la sua preferenza, su una simile base, è non solo una ragione perfettamente soddisfacente ma generalmente l'unica che giustifica qualunque sua nozione di morale, gusto o decoro che non sia espressamente prevista dal suo credo religioso, e la sua principale guida anche nell'interpretazione di quest'ultimo. Di conseguenza, le opinioni degli uomini su ciò che sia degno di lode o di biasimo sono condizionate da tutte le molteplici cause che ne influenzano i desideri riguardanti l'altrui condotta, le quali sono altrettanto numerose quanto quelle che determinano i desideri umani in ogni altro campo. Talvolta è la ragione; talaltra i pregiudizi o le superstizioni; spesso le passioni sociali, non di rado quelle antisociali, l'invidia o la gelosia, l'arroganza o il disprezzo; ma soprattutto i desideri o le paure per se stessi – gli interessi personali, legittimi o illegittimi. Dovunque vi sia una classe dominante, la morale del paese emana, in buona parte, dai suoi interessi di classe e dai suoi sentimenti di superiorità di classe. L'etica dei rapporti tra Spartani e Iloti, tra piantatori e negri, tra principi e sudditi, tra nobili e rotuners, tra uomini e donne è stata per la maggior parte creata da questi interessi e sentimenti di classe; e i sentimenti così generati reagiscono a loro volta sulla morale dei membri della classe dominante nei loro rapporti reciproci. Dove, d'altro canto, una classe non sia più dominante, o il suo predominio sia impopolare, i sentimenti morali prevalenti sono frequentemente improntati a un'impaziente avversione per la sua superiorità. Un altro grande principio che ha determinato le norme di condotta – intesa sia come azione sia come omissione – fatte rispettare dalla legge o dall'opinione è stato il servilismo degli uomini nei confronti delle supposte preferenze o antipatie dei loro signori temporali o dei loro dei. Questo servilismo, anche se essenzialmente egoistico, non è ipocrisia; dà luogo a sentimenti di orrore del tutto genuini; ha fatto bruciare maghi e eretici. Tra tante mediocri influenze, anche gli interessi generali e evidenti della società hanno naturalmente avuto un ruolo, importante, nell'orientamento dei sentimenti morali: meno, tuttavia, in quanto elementi razionali, e per i propri meriti intrinseci, che in virtù delle conseguenze delle simpatie e antipatie da essi originate; e simpatie e antipatie che con gli interessi della società avevano poco o nulla a che fare hanno avuto un peso altrettanto grande nell'affermazione delle morali sociali. Le simpatie e antipatie della società, o di qualche suo potente settore, sono quindi il fattore principale che ha in pratica determinato le norme di comportamento da osservare per non incorrere nelle sanzioni della legge o dell'opinione. E, in generale, coloro il cui pensiero o i cui sentimenti erano più avanzati di quelli della loro società hanno evitato di attaccare in linea di principio questo stato di cose, anche se talvolta possono essersi trovati in conflitto con alcuni suoi aspetti. Si sono preoccupati di determinare ciò che la società dovrebbe preferire o avversare, piuttosto che di chiedersi se queste simpatie o antipatie debbano aver valore di legge per gli individui: hanno preferito tentare di modificare i sentimenti degli uomini rispetto alle questioni particolari su cui essi stessi erano degli eretici, piuttosto che far causa comune con gli eretici in generale per difendere la libertà. Il solo caso in cui si è scelta per principio questa posizione più elevata, e la si è mantenuta con coerenza, salvo rare eccezioni individuali, è quello delle convinzioni religiose: caso per molti aspetti istruttivo, non da ultimo perché costituisce un esempio straordinario della fallibilità di ciò che è chiamato senso morale; poiché l'odium theologicum, in un sincero bigotto, è uno dei casi più inequivocabili di sentimento morale. Coloro che per primi spezzarono il giogo di quella che si autodefiniva Chiesa Universale erano in generale altrettanto poco inclini di quest'ultima a permettere differenze di opinione religiosa. Ma, quando si spense la vampata del conflitto senza che nessun contendente riportasse completa vittoria, e ogni chiesa o setta si trovò costretta a limitare le proprie speranze al mantenimento del terreno che in quel momento occupava, le minoranze, consce di non aver alcuna possibilità di diventare maggioranze, dovettero necessariamente richiedere a coloro che non potevano convertire il permesso di dissentire. Di conseguenza è su questo campo di battaglia – caso quasi unico – che i diritti dell'individuo, contrapposti a quelli della società, sono stati rivendicati su un'ampia base di principio, e la pretesa da parte della società di esercitare la propria autorità sui dissenzienti è stata apertamente contestata. I grandi scrittori cui il mondo è debitore del grado di libertà religiosa di cui gode hanno per la maggior parte rivendicato la libertà di coscienza come diritto inalienabile, e assolutamente negato che si debba rendere conto ad altri delle proprie convinzioni religiose. Tuttavia, l'intolleranza, in tutti i campi che realmente contano per l'umanità, è tanto connaturata che la libertà religiosa non è stata quasi mai realizzata in pratica, salvo che nei casi in cui l'indifferenza religiosa, che non gradisce essere turbata da dispute teologiche, ha fatto valere il proprio peso. Quasi tutte le persone religiose, anche nei paesi più tolleranti, ammettono il dovere della tolleranza con tacite riserve. Qualcuno sopporterà il dissenso in questioni di governo ecclesiastico, ma non di dogma; un altro tollererà tutti, purché non siano papisti o unitari; pochi spingono la propria carità un poco più oltre, ma non transigono sulla questione dell'esistenza di un Dio e della vita futura. Dovunque il sentimento religioso della maggioranza rimane genuino e intenso, si scopre che la sua pretesa di essere ubbidito è appena mitigata. Le particolari circostanze della nostra storia politica fanno sì che in Inghilterra, anche se il giogo dell'opinione è forse più pesante, quello della legge sia più lieve che nella maggior parte degli altri paesi europei; e vi è un'accentuata insofferenza per l'intervento diretto del potere legislativo o esecutivo nella condotta individuale, non tanto per un giusto rispetto dell'indipendenza individuale, ma perché sussiste ancora l'abitudine di considerare il governo come espressione di interessi contrapposti a quelli dei cittadini. La maggioranza non ha ancora imparato a percepire il potere del governo come proprio potere, o le opinioni governative come proprie. Quando ciò avverrà, la libertà individuale sarà probabilmente altrettanto esposta agli assalti dello Stato quanto lo è già a quelli dell'opinione pubblica. Ma, ancor oggi, prevale un diffuso sentimento pronto a essere mobilitato contro ogni tentativo da parte della legge di controllare gli individui in campi in cui fino ad ora non sono stati abituati a tale controllo; è una reazione quasi del tutto indiscriminata, che non si chiede se una data questione appartenga o meno alla sfera legittima del controllo legale; tanto che questo sentimento, nel complesso altamente salutare, nella pratica viene forse evocato altrettanto spesso a torto che a ragione. In effetti, non vi è alcun principio riconosciuto sulla cui base venga valutata abitualmente la maggiore o minore opportunità dell'interferenza statale. Gli uomini decidono secondo le loro preferenze personali: alcuni, di fronte alla possibilità di realizzare un bene o di rimediare a un male, incitano volentieri lo Stato a prendersene carico, mentre altri preferiscono sopportare quasi ogni sorta di male sociale piuttosto che aumentare, fosse pure di uno, il numero dei settori di attività umane riconducibili sotto il controllo statale. E, in ciascun caso particolare, gli uomini si schierano in uno dei due campi, secondo quest'inclinazione generale dei loro sentimenti, o secondo il loro grado di interesse nella questione per cui è proposto l'intervento statale, o secondo le loro previsioni sul comportamento dello Stato, giudicato nei termini delle loro preferenze; ma molto di rado prendono partito in base a una loro opinione coerente su ciò che spetti allo Stato compiere. E mi sembra che, a causa di questa mancanza di una regola o principio, attualmente i due opposti campi errino nella stessa misura: l'interferenza dello Stato è, quasi con la stessa frequenza, auspicata a torto e condannata a torto. Scopo di questo saggio è formulare un principio molto semplice, che determini in assoluto i rapporti di coartazione e controllo tra società e individuo, sia che li si eserciti mediante la forza fisica, sotto forma di pene legali, sia mediante la coazione morale dell'opinione pubblica. Il principio è che l'umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà d'azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell'individuo, sia esso fisico o morale, non è una giustificazione sufficiente. Non lo si può costringere a fare o non fare qualcosa perché è meglio per lui, perché lo renderà più felice, perché, nell'opinione altrui, è opportuno o perfino giusto: questi sono buoni motivi per discutere, protestare, persuaderlo o supplicarlo, ma non per costringerlo o per punirlo in alcun modo nel caso si comporti diversamente. Perché la costrizione o la punizione siano giustificate, l'azione da cui si desidera distoglierlo deve essere intesa a causare danno a qualcun altro. Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla società è quello riguardante gli altri: per l'aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l'individuo è sovrano. È forse superfluo aggiungere che questa dottrina vale solo per esseri umani nella pienezza delle loro facoltà. Non stiamo parlando di bambini o di giovani che sono per legge ancora minori d'età. Coloro che ancora necessitano dell'assistenza altrui devono essere protetti dalle proprie azioni quanto dalle minacce esterne. Per la stessa ragione, possiamo tralasciare quelle società arretrate in cui la razza stessa può essere considerata minorenne. Le difficoltà che inizialmente si oppongono al progresso spontaneo sono così grandi che raramente si può scegliere tra diversi mezzi di superarle: e un governante animato da intenzioni progressiste è giustificato a impiegare ogni mezzo che permetta di conseguire un fine forse altrimenti impossibile. Il dispotismo è una forma legittima di governo quando si ha a che fare con barbari, purché il fine sia il loro progresso e i mezzi vengano giustificati dal suo reale conseguimento. La libertà, come principio, non è applicabile in alcuna situazione precedente il momento in cui gli uomini sono diventati capaci di migliorare attraverso la discussione libera e tra eguali. Fino ad allora, non vi è nulla per loro, salvo l'obbedienza assoluta a un Aqbar o a un Carlomagno se sono così fortunati da trovarlo. Ma, non appena gli uomini hanno conseguito la capacità di essere guidati verso il proprio progresso dalla convinzione o dalla persuasione (condizione da molto tempo raggiunta in tutte le nazioni di cui ci dobbiamo occupare), la costrizione, sia in forma diretta sia sotto forma di pene e sanzioni per chi non si adegua, non è più ammissibile come strumento di progresso, ed è giustificabile solo per la sicurezza altrui. È opportuno dichiarare che rinuncio a qualsiasi vantaggio che alla mia argomentazione potrebbe derivare dalla concezione del diritto astratto come indipendente dall'utilità. Considero l'utilità il criterio ultimo in tutte le questioni etiche; ma deve trattarsi dell'utilità nel suo senso più ampio, fondata sugli interessi permanenti dell'uomo in quanto essere progressivo. La mia tesi è che questi interessi autorizzano l'assoggettamento della spontaneità individuale al controllo esterno solo rispetto alle azioni individuali che riguardino interessi altrui. Se qualcuno commette un atto che danneggia altri, vi è motivo evidente di punirlo con sanzioni legali o, nel caso in cui siano di incerta applicazione, con la disapprovazione generale. Vi sono anche molte azioni positive a favore di altri che ciascuno può essere legittimamente obbligato a compiere: per esempio, testimoniare davanti a un tribunale, portare il giusto contributo alla difesa comune o a ogni altra attività collettiva necessaria agli interessi della società di cui si gode la protezione, compiere certi atti di assistenza individuale, come salvare la vita di un altro essere umano o intervenire a proteggere delle persone indifese contro gli abusi – tutte quelle azioni insomma che costituiscono un palese dovere, del cui mancato adempimento si può legittimamente essere chiamati a rispondere alla società. Una persona può causare danno agli altri non solo per azione ma anche per omissione, e in entrambi i casi ne deve giustamente rendere loro conto. È vero che il secondo caso richiede, in misura molto maggiore del primo, cautela nell'esercizio della coercizione. Rendere chiunque responsabile del male che fa agli altri è la regola; renderlo responsabile del male che non impedisce è, in termini relativi, l'eccezione. Tuttavia vi sono molti casi sufficientemente chiari e gravi da giustificarlo. In tutto ciò che riguarda i rapporti esterni dell'individuo, quest'ultimo è de jure responsabile verso coloro i cui interessi sono coinvolti, e, se necessario, verso la società in quanto loro protettore. Vi sono spesso buone ragioni per non richiamarlo a questa responsabilità, ma devono dipendere dalle particolarità specifiche della situazione: o si tratta di casi in cui, tutto considerato, è probabile che l'individuo si comporti meglio se lo si lascia agire come ritiene più opportuno e non si esercita su di lui alcuno dei controlli di cui la società ha il potere; oppure il tentativo di esercitare un controllo produrrebbe altri mali, maggiori di quelli che eviterebbe. Quando ragioni come queste impediscono il richiamo alla responsabilità, dovrebbe essere la coscienza dell'individuo a farsi giudice e a proteggere gli interessi di chi non gode di protezioni esterne, esercitando un giudizio tanto più severo in quanto la situazione lo esime dal rendere conto ai suoi simili. Ma vi è una sfera d'azione in cui la società, in quanto distinta dall'individuo, ha, tutt'al più, soltanto un interesse indiretto: essa comprende tutta quella parte della vita e del comportamento di un uomo che riguarda soltanto lui, o se riguarda anche altri, solo con il loro libero consenso e partecipazione, volontariamente espressi e non ottenuti con l'inganno. Quando dico "soltanto" lui, intendo "direttamente e in primo luogo", poiché tutto ciò che riguarda un individuo può attraverso di lui riguardare altri; e l'obiezione che può sorgere in questa circostanza verrà presa in considerazione più avanti. Questa, quindi, è la regione propria della libertà umana. Comprende, innanzitutto, la sfera della coscienza interiore, ed esige libertà di coscienza nel suo senso più ampio, libertà di pensiero e sentimento, assoluta libertà di opinione in tutti i campi, pratico o speculativo, scientifico, morale, o teologico. La libertà di esprimere e rendere pubbliche le proprie opinioni può sembrare dipendere da un altro principio, poiché rientra in quella parte del comportamento individuale che riguarda gli altri, ma ha quasi altrettanta importanza della stessa libertà di pensiero, in gran parte per le stesse ragioni, e quindi ne è in pratica inscindibile. In secondo luogo, questo principio richiede la libertà di gusti e occupazioni, di modellare il piano della nostra vita secondo il nostro carattere, di agire come vogliamo, con tutte le possibili conseguenze, senza essere ostacolati dai nostri simili, purché le nostre azioni non li danneggino, anche se considerano il nostro comportamento stupido, nervoso, o sbagliato. In terzo luogo, da questa libertà di ciascuno discende, entro gli stessi limiti, quella di associazione tra individui: la libertà di unirsi per qualunque scopo che non implichi altrui danno, a condizione che si tratti di adulti, non costretti con la forza o l'inganno. Nessuna società in cui queste libertà non siano rispettate nel loro complesso è libera, indipendentemente dalla sua forma di governo; e nessuna in cui non siano assolute e incondizionate è completamente libera. La sola libertà che meriti questo nome è quella di perseguire il nostro bene a nostro modo, purché non cerchiamo di privare gli altri del loro o li ostacoliamo nella loro ricerca. Ciascuno è l'unico autentico guardiano della propria salute, sia fisica sia mentale e spirituale. Gli uomini traggono maggior vantaggio dal permettere a ciascuno di vivere come gli sembra meglio che dal costringerlo a vivere come sembra meglio agli altri. Benché questa dottrina sia tutt'altro che nuova, e per alcuni possa aver l'aria di un truismo, non ve n'è altra che si contrapponga più direttamente alla tendenza generale dell'opinione e della pratica attuali. La società ha sempre tentato di costringere (per quanto le era possibile) i suoi membri a conformarsi alle sue nozioni di eccellenza, e quella personale è sicuramente stata oggetto di altrettanti sforzi che quella sociale. Le comunità antiche, con l'approvazione dei filosofi, si ritenevano in diritto di esercitare il controllo pubblico su ogni aspetto della condotta individuale, giustificandolo col fatto che lo Stato aveva un profondo interesse nell'intera disciplina mentale e fisica di ogni suo cittadino – un modo di pensare che poteva essere ammissibile in piccole repubbliche circondate da nemici potenti, in continuo pericolo di essere rovesciate da attacchi esterni o moti interni, per i quali anche un breve intervallo di rilassamento dell'energia e dell'autocontrollo avrebbe potuto così facilmente risultare fatale che non potevano permettersi di attendere i salutari effetti permanenti della libertà. Nel mondo moderno, le maggiori dimensioni delle comunità politiche e, soprattutto, la separazione tra autorità spirituale e temporale (che ha posto la direzione delle coscienze degli uomini in mani diverse da quelle che ne controllano le sorti terrene) hanno impedito che la legge interferisse a tal punto nella vita privata; ma gli strumenti di repressione morale hanno infierito sul dissenso dall'opinione dominante con maggiore accanimento, nelle questioni private ancor più che in quelle sociali; infatti la religione, l'elemento più potente per la formazione del sentimento morale, è stata quasi sempre assoggettata o all'ambizione di una gerarchia che cercava di controllare ogni aspetto della condotta umana, o allo spirito del Puritanesimo. E alcuni di quei moderni riformatori che si sono più violentemente opposti alle religioni del passato non sono certo stati da meno di chiese o sette nella loro asserzione del diritto alla dominazione spirituale: in particolare Comte, il cui sistema sociale, descritto nel suo Système de Politique Positive, mira a instaurare (anche se con mezzi morali più che legali) un dispotismo della società sull'individuo che oltrepassa qualsiasi ideale politico del più ferreo e severo filosofo antico. A parte i curiosi dogmi di singoli pensatori, vi è in generale nel mondo anche una crescente inclinazione a estendere indebitamente i poteri della società sull'individuo, sia con la forza dell'opinione sia con quella della legislazione; e, poiché la tendenza di tutti i mutamenti in corso nel mondo è a rafforzare la società e diminuire il potere dell'individuo, questo abuso non è un male che tende a scomparire spontaneamente, ma, al contrario, diventa sempre più formidabile. L'inclinazione degli uomini, siano essi governanti o semplici cittadini, a imporre agli altri, come norme di condotta, le proprie opinioni e tendenze è così energicamente appoggiata da alcuni dei migliori e dei peggiori sentimenti inerenti all'umana natura, che quasi sempre è frenata soltanto dalla mancanza di potere; e poiché quest'ultimo non è in diminuzione ma in aumento, dobbiamo attenderci che, se non si riesce a erigere una solida barriera di convinzioni morali contro di esso, nella situazione attuale del mondo il male si estenda. Ai fini della nostra argomentazione sarà opportuno, invece di affrontare immediatamente la tesi generale, limitarci per il momento a un suo aspetto singolo, riguardo al quale il principio da noi enunciato è ammesso dall'opinione corrente, se non completamente, almeno fino a un certo punto. Questo aspetto è la libertà di pensiero, da cui è impossibile separare la connessa libertà di parola e di scrittura. Anche se esse, in misura abbastanza considerevole, fanno parte dell'etica politica di tutti i paesi professanti la tolleranza religiosa e le libere istituzioni, le basi, sia filosofiche sia pratiche, su cui si fondano non sono forse del tutto familiari all'opinione comune, né comprese tanto a fondo quanto ci si attenderebbe da molti, tra cui anche uomini politici. Queste basi, se correttamente comprese, hanno una validità che non si limita soltanto a questo aspetto della questione, il cui esame approfondito si rivelerà la migliore introduzione agli altri. Spero quindi che coloro ai quali nulla di ciò che mi appresto a dire suonerà nuovo mi scusino se mi permetto di discutere ancora una volta un argomento che da ormai tre secoli è stato così frequentemente oggetto di dibattito.II DELLA LIBERTA' DI PENSIERO E DISCUSSIONE
È da sperare che sia trascorsa l'epoca in cui era necessario difendere la "libertà di stampa" come una delle garanzie contro un governo corrotto o tirannico. Possiamo supporre che non sia più necessario dimostrare che non si può consentire a una legislatura o a un esecutivo, i cui interessi non si identifichino con quelli dei cittadini, di imporre loro delle opinioni e di stabilire quali dottrine o argomentazioni essi possano ascoltare. Inoltre, questo aspetto della questione è stato così spesso e con tale successo fatto valere da autori precedenti che è inutile insistervi particolarmente in questa sede. Anche se la legge d'Inghilterra è, per quanto riguarda la stampa, altrettanto servile oggi di quanto lo era all'epoca dei Tudor, vi è scarso pericolo che venga effettivamente applicata contro la discussione politica, salvo che in situazioni temporanee di panico, in cui la paura di insurrezioni spinge ministri e giudici a violare le regole che devono governare la loro condotta ; e, più in generale, nei paesi a regime costituzionale non vi è da temere che i governi, siano essi completamente responsabili verso il popolo o no, tentino spesso di controllare l'espressione delle opinioni, salvo nei casi in cui così facendo esprimano l'intolleranza generale dei cittadini. Supponiamo quindi che il governo concordi totalmente con i cittadini, e non sia mai tentato di esercitare alcun potere coercitivo che non corrisponda a quella che ritiene la loro opinione. Ma io nego il diritto del popolo a esercitare questa coercizione, sia da solo sia mediante il proprio governo. Il potere stesso è illegittimo: il migliore governo non vi ha più diritto del peggiore. È altrettanto, o forse più, dannoso quando lo si esercita seguendo l'opinione pubblica che contro di essa. Se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero più diritto di far tacere quell'unico individuo di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone il potere, l'umanità. Se l'opinione fosse un bene privato, privo di valore eccetto che per il suo proprietario, se essere ostacolati nel suo godimento fosse semplicemente un danno privato, il numero delle persone che lo subiscono farebbe una certa differenza. Ma impedire l'espressione di un'opinione è un crimine particolare, perché significa derubare la razza umana, i posteri altrettanto che i vivi, coloro che dall'opinione dissentono ancor più di chi la condivide: se l'opinione è giusta, sono privati dell'opportunità di passare dall'errore alla verità; se è sbagliata, perdono un beneficio quasi altrettanto grande, la percezione più chiara e viva della verità, fatta risaltare dal contrasto con l'errore. È necessario considerare separatamente queste due ipotesi, a ciascuna delle quali corrisponde un aspetto distinto della nostra argomentazione. Non possiamo mai essere certi che l'opinione che stiamo cercando di soffocare sia falsa; e anche se lo fossimo, soffocarla resterebbe un male. In primo luogo, l'opinione che si cerca di sopprimere d'autorità può forse essere vera. Naturalmente, coloro che desiderano sopprimerla ne negheranno la verità: ma non sono infallibili. Non hanno alcuna autorità di decidere la questione per tutta l'umanità, togliendo a chiunque altro la possibilità di giudizio. Rifiutarsi di ascoltare un'opinione perché si è certi che è falsa significa presupporre che la propria certezza coincida con la certezza assoluta. Ogni soppressione della discussione è una presunzione di infallibilità: per condannarla basta questo ragionamento, semplice, ma non per questo inefficace. Sfortunatamente per il buon senso degli uomini, la loro effettiva fallibilità non ha certo nei loro giudizi pratici il peso che le viene sempre attribuito nella teoria; poiché, mentre ciascuno sa benissimo di essere fallibile, pochi ritengono necessario cautelarsi dalla propria fallibilità o ammettere la supposizione che una qualsiasi opinione di cui si sentano del tutto certi possa essere un esempio di quell'errore cui si riconoscono soggetti. I sovrani assoluti, o coloro che sono abituati a una deferenza illimitata, generalmente hanno questa completa fiducia nelle proprie opinioni su quasi ogni questione. Le persone in una condizione più felice, le cui opinioni sono talvolta contestate e per cui non è del tutto insolito essere corrette quando hanno torto, hanno la stessa fiducia illimitata soltanto nelle opinioni condivise da tutti coloro che le circondano, o di coloro ai cui giudizi si rimettono; poiché, in misura proporzionale alla sua mancanza di fiducia nel proprio giudizio individuale, l'uomo abitualmente si basa, con fiducia assoluta, sull'infallibilità del "mondo" in generale. E il mondo significa, per ciascuno, la parte di esso con cui è in contatto: il suo partito, la sua setta, la sua chiesa, la sua classe sociale; al confronto l'uomo per cui il significato del mondo si estende a comprendere il suo paese o la sua epoca può essere quasi definito liberale e di larghe vedute. E la sua fede in questa autorità collettiva non è affatto scossa dal sapere che altre epoche, nazioni, sette, chiese, classi e parti politiche hanno pensato, e tuttora pensano, esattamente il contrario. L'uomo scarica sul proprio mondo la responsabilità di essere nel giusto, contro il dissenso dei mondi altrui; e non è mai turbato dal fatto che è stato il puro accidente a decidere quale di questi numerosi mondi sia oggetto della sua fiducia, e che le stesse cause che lo hanno reso anglicano a Londra l'avrebbero fatto diventare buddista o confuciano a Pechino. Tuttavia è di per sé evidente, senza alcun bisogno di dimostrazione, che le epoche storiche non sono più infallibili degli individui: ciascuna ha creduto vere molte opinioni giudicate non solo false ma assurde da epoche successive; ed è certo che molte opinioni, attualmente comuni, saranno respinte dal futuro, come molte opinioni comuni in passato sono respinte dal presente. L'obiezione più plausibile a questo ragionamento verrebbe probabilmente formulata nel modo seguente. Il divieto di propagare l'errore non implica una presunzione di infallibilità maggiore di quella implicita in qualsiasi altro atto compiuto dall'autorità pubblica in base al suo giudizio e alla sua responsabilità. Il giudizio è dato agli uomini perché lo usino. Dato che lo possono esercitare erroneamente, bisogna dirgli che non dovrebbero usarlo affatto? Vietare ciò che ritengono dannoso non significa pretendere di essere immuni dall'errore, ma adempiere al dovere, che tocca loro anche se sono fallibili, di agire in base alle proprie convinzioni e coscienze. Se non agissimo mai sulla base delle nostre opinioni perché possono essere erronee, trascureremmo tutti i nostri interessi e verremmo meno a tutti i nostri doveri. Una obiezione che riguardi il complesso del comportamento umano non può essere valida per alcun comportamento particolare. È dovere dei governi, e degli individui, formarsi opinioni che rispondano il più possibile al vero; formarsele con cura, e non imporle mai ad altri se non si è certi di aver ragione. Ma, una volta che ne siano certi (così proseguirebbero i sostenitori di questa posizione), sarebbero mossi non dalla coscienza ma dalla viltà se evitassero di agire in base alle proprie opinioni e permettessero a dottrine che in buona fede ritengono pericolose per il benessere dell'umanità, in questa vita o in un'altra, di diffondersi senza freno, per la sola ragione che altri, in tempi meno illuminati, hanno perseguitato opinioni oggi considerate vere. Stiamo attenti – si potrebbe ammonire – a non compiere lo stesso errore; ma i governi e le nazioni hanno errato in altri campi, in cui l'esercizio dell'autorità non viene considerato illegittimo: hanno imposto tassazioni inique, scatenato guerre ingiuste. Dovremmo allora non imporre tasse e, per quanto provocati, non dichiarare guerre? Uomini e governi devono agire come meglio sanno. La certezza assoluta non esiste, ma esiste una sicurezza sufficiente ai fini della vita umana. Nella guida della nostra condotta possiamo, e dobbiamo, presumere che la nostra opinione sia vera: proibire a dei malvagi di sconvolgere la società diffondendo opinioni che riteniamo false e perniciose non presuppone nulla di più. La mia risposta è che presuppone molto di più. Vi è la massima differenza tra presumere che un'opinione è vera perché, pur esistendo ogni opportunità di discuterla, non è stata confutata, e presumerne la verità al fine di non permetterne la confutazione. È proprio la completa libertà di contraddire e confutare la nostra opinione che ci giustifica quando ne presumiamo la verità ai fini della nostra azione; e solo in questi termini chi disponga di facoltà umane può trovare una sicurezza razionale di essere nel giusto. Se consideriamo la storia dell'opinione oppure la normale condotta delle vicende umane, qual è la causa per cui entrambe non sono peggiori di quanto siano? Non certo la forza intrinseca della comprensione umana, poiché per ogni questione che non sia del tutto ovvia vi sono novantanove persone completamente incapaci di darne un giudizio per una che lo è; e la capacità della centesima è soltanto relativa, dal momento che la maggior parte degli uomini illustri di ciascuna generazione passata ha sostenuto molte opinioni che oggi vengono riconosciute erronee, e compiuto o approvato molti atti che oggi nessuno giustificherebbe. Perché, allora, tra gli uomini nel complesso predominano comportamenti e opinioni razionali? Se davvero vi è questo predominio – e deve esservi, altrimenti gli uomini sarebbero, e sarebbero sempre stati, in una situazione quasi disperata –, è dovuto a una qualità della mente umana, la fonte di tutto ciò che vi è di rispettabile nell'uomo inteso come essere sia intellettuale sia morale, e cioè la possibilità di correggere i propri errori, di rimediarvi con la discussione e l'esperienza. Non con la sola esperienza: la discussione è necessaria per indicarne l'interpretazione. Le opinioni e le pratiche erronee cedono gradualmente ai fatti e agli argomenti: che però per avere effetto sulla mente devono essere sottoposti alla sua considerazione. Pochissimi fatti si spiegano da soli, senza necessità di commenti che ne mostrino il significato. Dato quindi che la forza e il valore del giudizio umano dipendono interamente dalla sua proprietà di poter venire corretto quando è errato, esso è attendibile soltanto quando i mezzi per correggerlo sono tenuti costantemente a disposizione. Consideriamo una persona il cui giudizio sia veramente degno di fiducia: come lo è diventato? Perché si è mantenuto aperto alle critiche riguardanti le sue opinioni e la sua condotta. Perché si è imposto come prassi costante di ascoltare tutto ciò che potesse venire detto contro di lui; di metterne a profitto quanto fosse giusto, e di chiarire, a se stesso e se necessario ad altri, l'erroneità di quanto fosse erroneo. Perché ha intuito che il solo modo in cui un uomo può in una certa misura avvicinarsi alla conoscenza complessiva di un argomento è ascoltando ciò che ne dicono persone di ogni opinione, e studiando tutte le modalità secondo cui può essere considerato da ogni punto di vista. Nessuno è mai giunto alla saggezza in altro modo; né la natura dell'intelletto umano consente altri modi di diventare saggi. La costante abitudine a correggere e completare la propria opinione confrontandola con le altrui non solo non causa dubbi ed esitazioni nel tradurla in pratica, ma anzi è l'unico fondamento stabile di una corretta fiducia in essa; poiché, conoscendo tutto ciò che può, almeno nella misura del prevedibile, venire detto contro di noi, e avendo preso una posizione rispetto a tutti i nostri oppositori – sapendo di aver cercato le obiezioni e le difficoltà invece di evitarle, e di aver preso in esame ogni punto di vista – abbiamo il diritto di considerare il nostro giudizio migliore di quello di qualsiasi persona, o gruppo di persone, che non abbia seguito una procedura analoga. Non è eccessivo richiedere che quell'eterogenea massa di pochi saggi e molti stupidi chiamata pubblico si sottoponga ai criteri che i più saggi tra gli uomini, coloro che più hanno diritto a confidare nel proprio giudizio, ritengono necessari per giustificare tale fiducia. La chiesa cattolica romana, la più intollerante di tutte, ammette persino alla canonizzazione di un santo l'"avvocato del diavolo", e lo ascolta pazientemente: a quanto pare, nemmeno il più puro tra gli uomini può essere ammesso agli onori postumi prima che tutte le pecche che il diavolo gli può rinfacciare non siano note e pesate. Se si vietasse di dubitare della filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua verità come lo sono. Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate. Se la sfida non viene raccolta, o viene tentata e perduta, siamo ancora molto lontani dalla certezza, ma abbiamo fatto quanto di meglio ci consente la presente condizione della ragione umana: non abbiamo trascurato nulla pur di offrire alla verità una possibilità di raggiungerci; se l'invito resta aperto, possiamo sperare che, se esiste una verità migliore, essa venga scoperta quando la mente umana sarà in grado di recepirla; e nel frattempo possiamo avere la sicurezza di esserci avvicinati alla verità nella misura a noi possibile. Questo è il grado di certezza raggiungibile da un essere soggetto all'errore, e questo il solo modo di raggiungerlo. È strano che gli uomini ammettano la validità degli argomenti a favore della libera discussione, ma obiettino se "vengono spinti alle estreme conseguenze", senza rendersi conto che se date ragioni non valgono in un caso estremo non valgono in alcun caso. Strano che immaginino di non presumersi infallibili quando ammettono che vi deve essere libertà di discussione su tutte le questioni che possano essere dubbie, ma pensano che vada vietata la discussione di un particolare principio o dottrina perché è così certo, cioè perché sono certi che è certo. Definire certa qualsiasi proposizione quando vi è chi ne negherebbe la certezza se ciò non gli fosse vietato significa presumere che noi, e chi è d'accordo con noi, siamo i giudici della certezza – e giudici che ignorano gli oppositori. Nell'epoca attuale – che è stata descritta come "priva di fede, ma terrorizzata dallo scetticismo" –, in cui gli uomini si sentono sicuri non tanto della verità delle loro opinioni quanto del fatto che non saprebbero che fare senza di esse, le pretese di un'opinione a essere protetta da attacchi pubblici si fondano non tanto sulla sua verità quanto sulla sua importanza per la società. Si sostiene che certe convinzioni sono così utili, per non dire indispensabili, al bene comune che i governi hanno il dovere di proteggerle quanto qualsiasi altro interesse della società. Si afferma che in un caso di tale necessità, che fa parte così integrante del loro dovere, qualcosa di meno dell'infallibilità può giustificare, e persino obbligare, i governi ad agire in base alla propria opinione, confermata da quella dell'umanità in generale. Viene inoltre spesso sostenuto, e ancora più spesso pensato, che solo i malvagi desidererebbero minare queste salutari convinzioni; e non è sbagliato, si pensa, coartare dei malvagi e vietare ciò che solo loro vorrebbero compiere. Questo modo di pensare rende la giustificazione delle restrizioni imposte alla discussione non una questione di verità delle varie dottrine ma della loro utilità, e così si illude di sfuggire alla responsabilità di dichiararsi giudice infallibile delle opinioni. Ma chi si acquieta la coscienza in questo modo non comprende che così facendo la presupposizione di infallibilità viene semplicemente spostata. L'utilità di una opinione è essa stessa una questione di opinione – altrettanto controversa, aperta al dibattito, e da discutere, che l'opinione stessa. Vi è la stessa necessità di un infallibile giudice delle opinioni per decidere la nocività di un'opinione che per deciderne la falsità, a meno che l'opinione condannata riceva ogni opportunità di difendersi. E non vale obiettare che si può consentire all'eretico dl affermare che la sua opinione è utile o innocua, pur vietandogli di dire che è vera. La verità di un'opinione è parte della sua utilità. Se volessimo sapere se è desiderabile o meno che una data proposizione sia creduta, potremmo rifiutarci di vagliarne la verità? Nell'opinione, non dei malvagi, ma dei migliori, nessuna convinzione contraria alla verità può essere realmente utile; e si può loro impedire di addurre questo argomento quando sono accusati di negare una dottrina di cui viene asserita l'utilità, ma che ritengono falsa? Coloro che stanno dalla parte delle opinioni comunemente accettate non mancano mai di trarre ogni possibile vantaggio da questo argomento; non sono certo loro a trattare la questione dell'efficacia come se fosse completamente isolabile da quella della verità; al contrario, è soprattutto perché la loro dottrina è "la verità" che conoscerla o credervi è ritenuto così indispensabile. Non si può discutere la questione dell'utilità ad armi pari quando un argomento tanto essenziale può essere impiegato da una parte, ma non dall'altra. E infatti, quando la legge o il sentimento pubblico non permettono di porre in dubbio la verità di un'opinione, tollerano altrettanto poco la negazione della sua utilità: al massimo consentono ad attenuarne la necessità assoluta, o la gravità della colpa di rifiutarla. Per illustrare più chiaramente quanto sia negativo rifiutarci di prestare attenzione a opinioni che il nostro giudizio ha condannato, sarà opportuno ancorare la discussione a un caso concreto: e preferisco scegliere i casi a me più sfavorevoli – quelli in cui l'argomentazione contro la libertà di opinione è considerata più valida, sia in termini di verità sia di utilità. Siano le opinioni contestate la fede in un Dio e in una vita futura, oppure qualsiasi dottrina morale comunemente accettata. Combattere su questo terreno dà un grande vantaggio a un antagonista sleale, che sicuramente domanderà (e molti, senza alcuna intenzione di slealtà, lo domanderanno tacitamente): "Sono queste le dottrine che non ritieni sufficientemente certe da essere poste sotto la tutela della legge? Credere in un Dio è una delle opinioni la cui certezza presuppone, a tuo avviso, l'infallibilità? " Ma mi si deve permettere di osservare che sentirsi sicuri di una dottrina (qualunque essa sia) non è ciò che io chiamo una presunzione di infallibilità: lo è incaricarsi di decidere la questione per conto di altri, senza permettere loro di ascoltare le possibili opinioni contrarie. E denuncio e biasimo questa pretesa, tanto più se è avanzata a favore delle mie convinzioni più solenni. Per quanto si possa essere positivamente convinti non solo della falsità ma delle perniciose conseguenze – non solo delle perniciose conseguenze, ma (per adottare espressioni che condanno in toto) dell'immoralità e dell'empietà – di un'opinione, tuttavia se in base a questo giudizio individuale, anche se appoggiato dal giudizio di concittadini e contemporanei, si impedisce che essa venga difesa, si presuppone la propria infallibilità. E questo assunto non è meno criticabile o pericoloso perché l'opinione è definita immorale o empia, anzi questo è il caso in cui esso è più fatale. Sono esattamente queste le occasioni in cui una generazione commette quegli spaventosi errori che lasciano attoniti e inorriditi i posteri: qui troviamo i casi storici memorabili di impiego del braccio armato della legge per sterminare gli uomini migliori e le più nobili dottrine; con disgraziato successo, per quanto riguarda gli uomini, anche se alcune dottrine sono sopravvissute per essere invocate (come per beffa) a difesa di analoga condotta nei confronti di chi dissente da esse, o dalla loro interpretazione comunemente accettata. All'umanità non sarà mai troppo spesso ricordato un uomo di nome Socrate, e il suo memorabile scontro con le autorità legali e l'opinione pubblica del suo tempo. Nato in epoca e in un paese ricchi di grandezza individuale, quest'uomo ci è stato tramandato come il più virtuoso del suo tempo da chi meglio conosceva entrambi; mentre noi lo conosciamo come capo e prototipo di tutti i successivi maestri di virtù, fonte ugualmente dell'alta ispirazione di Platone e del giudizioso utilitarismo di Aristotele, "i maestri di color che sanno", le due sorgenti della filosofia etica e di tutte le altre. Questo maestro riconosciuto da tutti i grandi pensatori vissuti dopo di lui – la cui fama, ancora crescente dopo più di duemila anni, quasi supera quella complessiva di tutti gli altri nomi che rendono illustre la sua città natale – fu messo a morte dai suoi concittadini, dopo che un tribunale lo aveva condannato per empietà e immoralità. Empietà, poiché negava gli dei riconosciuti dallo Stato; anzi, il suo accusatore affermò (vedi l'Apologia) che non credeva in alcun dio. Immoralità, poiché era, con le sue dottrine e i suoi insegnamenti, un "corruttore della gioventù". Vi è ogni ragione di credere che il tribunale lo trovò colpevole di queste imputazioni in tutta onestà, e condannò un uomo che probabilmente, dei nati fino ad allora, più meritava la gratitudine dell'umanità, a essere messo a morte come un criminale. Passiamo da questo al solo altro caso di iniquità giudiziaria la cui menzione dopo la condanna di Socrate non sarebbe una caduta nella banalità: l'evento del Calvario più di mille e ottocento anni fa. L'uomo che lasciò nella memoria di chi fu testimone della sua vita e delle sue parole una tale impressione di grandezza morale che i diciotto secoli successivi l'hanno venerato come la personificazione dell'Onnipotente, perché fu mandato ignominiosamente a morte? Perché blasfemo. Gli uomini non si limitarono a non riconoscere il loro benefattore, lo scambiarono per l'esatto contrario di ciò che era e lo trattarono come quel prodigio di empietà che ora sono loro stessi ritenuti, per ciò che gli fecero. I sentimenti con cui gli uomini di oggi considerano questi due deplorevoli eventi, specialmente il secondo, li rendono estremamente ingiusti nel giudizio sui loro infelici autori. Stando a ogni apparenza, non erano dei malvagi – non peggiori degli uomini normali, semmai il contrario: uomini che condividevano pienamente, forse anzi in misura eccessiva i sentimenti religiosi, morali e patriottici del loro tempo e popolo: esattamente quel tipo di uomini che in ogni epoca, compresa la nostra, hanno ogni probabilità di attraversare la vita circondati da stima e rispetto. Il gran sacerdote che si strappò le vesti quando furono pronunciate le parole che, secondo tutte le idee del suo paese, costituivano la colpa più nera, era in tutta probabilità altrettanto sincero nel suo orrore e nella sua indignazione quanto lo è oggi, nei sentimenti morali e religiosi professati, la generalità degli uomini rispettabili e pii; e la gran maggioranza di coloro che oggi sono inorriditi dalla sua condotta avrebbero agito precisamente come lui se fossero stati degli ebrei suoi contemporanei. I cristiani ortodossi che sono tentati di considerare peggiori di sé coloro che lapidarono i primi martiri farebbero meglio a ricordarsi che tra i persecutori c'era san Paolo. Consideriamo un ultimo esempio, il più impressionante di tutti se si misura la grandezza di un errore con la saggezza e la virtù di chi vi cade. Se mai un detentore del potere ha avuto buoni motivi per ritenersi il migliore e il più illuminato tra i suoi contemporanei, questo fu l'imperatore Marco Aurelio. Monarca assoluto di tutto il mondo civile, mantenne per tutta la vita non solo la giustizia più irreprensibile ma, cosa che ci si sarebbe meno aspettata dalla sua educazione stoica, l'animo più sensibile. Le poche manchevolezze attribuitegli furono tutte dovute a eccessiva indulgenza, mentre i suoi scritti, il più elevato prodotto etico del pensiero antico, poco o nulla differiscono dai più caratteristici insegnamenti di Cristo. Quest'uomo, in ogni senso, salvo che in quello dogmatico, miglior cristiano di quasi tutti i sovrani nominalmente cristiani venuti dopo di lui, perseguitò il Cristianesimo. Vissuto in quello che allora era l'apice del progresso umano, dotato di un intelletto aperto e privo di pregiudizi, di un carattere che lo portò spontaneamente a incarnare nelle sue opere morali l'ideale cristiano, Marco Aurelio tuttavia non vide che il Cristianesimo avrebbe costituito un bene e non un male per il mondo, nei cui confronti aveva una così profonda coscienza dei propri doveri. Sapeva che la società del suo tempo si trovava in condizioni deplorevoli: ma vedeva, o gli pareva di vedere, che ciò che la teneva insieme e le impediva di peggiorare erano la fede nelle divinità comunemente accettate e il loro culto. In quanto signore dell'umanità, riteneva suo dovere non permettere che la società si disgregasse; e non vedeva come, se fossero scomparsi i legami esistenti, se ne potessero formare altri che la ricomponessero. La nuova religione mirava apertamente a distruggere questi legami: di conseguenza, gli sembrava suo dovere o schiacciarla oppure adottarla. Quindi, dato che la teologia del Cristianesimo non gli sembrava vera o di origine divina, che questa strana storia di un Dio crocifisso gli appariva inverosimile, e dato che non poteva prevedere che un sistema che asseriva di basarsi interamente su un fondamento per lui così completamente incredibile fosse quel fattore di rinnovamento che, cessate le tempeste, si è in effetti dimostrato, il più sensibile e generoso dei filosofi e dei governanti, ispirandosi a un solenne senso del dovere, autorizzò la persecuzione dei cristiani. A mio parere questo è uno degli eventi più tragici di tutta la storia. È amaro pensare quanto avrebbe potuto essere diversa la Cristianità se la fede cristiana fosse stata adottata come religione dell'Impero sotto Marco Aurelio invece che sotto Costantino. Ma sarebbe ugualmente ingiusto verso di lui e verso la verità negare che Marco Aurelio, nel combattere, come fece, la diffusione del Cristianesimo, poteva addurre tutte le ragioni che vengono addotte per combattere gli insegnamenti anticristiani. Nessun cristiano crede che l'ateismo sia falso e tenda alla disgregazione della società più fermamente di quanto Marco Aurelio non credesse le stesse cose del Cristianesimo; lui che, tra tutti i suoi contemporanei, si sarebbe potuto ritenere il più capace di apprezzarlo. A meno che chiunque approvi la punizione della diffusione di opinioni non si illuda di essere migliore e più saggio di Marco Aurelio – il più profondo conoscitore del pensiero del suo tempo, intellettualmente più elevato rispetto ad esso, più impegnato nella ricerca della verità, e più sinceramente devoto a essa una volta trovatala –, è meglio che eviti quella presunzione di essere, insieme alla moltitudine, infallibile, presunzione che il grande figlio di Antonino pagò con risultati così tragici. Consci dell'impossibilità di difendere la repressione violenta delle opinioni antireligiose mediante argomenti che non giustifichino Marco Aurelio, i nemici della libertà religiosa accettano talvolta, quando hanno le spalle al muro, questa conseguenza e affermano, con il dott. Johnson, che i persecutori del Cristianesimo avevano ragione che la persecuzione è una prova cui la verità deve sottoporsi e che sempre supera, poiché le sanzioni legali si rivelano, a lungo andare, impotenti di fronte alla verità anche se talvolta hanno effetti benefici contro errori nocivi. È una forma abbastanza notevole di argomentazione a favore dell'intolleranza religiosa, e non la si può ignorare. A una teoria secondo cui la persecuzione della verità è giustificabile perché non può in alcun modo nuocerle, non si può imputare di essere intenzionalmente contraria ad ammettere verità nuove; ma non se ne può lodare la generosità nei confronti delle persone cui l'umanità ne è debitrice. Svelare al mondo qualcosa che lo riguarda da vicino e che fino ad allora ha ignorato, dimostrargli che ha errato in una questione essenziale di interesse temporale o spirituale, è il maggior servizio che un uomo possa rendere ai suoi simili e in alcuni casi, come quelli dei primi cristiani e dei riformatori, è ritenuto dagli estimatori del dott. Johnson il dono più prezioso che l'umanità potesse ricevere. Che gli autori di questi splendidi benefici siano stati contraccambiati col martirio e per ricompensa siano stati trattati come i criminali più abbietti, non è, secondo questa teoria, un errore deplorevole, una disgrazia che gli uomini dovrebbero lamentare cospargendosi il capo di cenere, ma uno stato di cose normale e giustificabile. Stando a questa dottrina, chi propone una nuova verità dovrebbe farlo come chi, sotto la legislazione dei Locresi, proponeva una nuova legge: con un cappio al collo, pronto a essere serrato se l'assemblea dei cittadini, sentite le sue ragioni, non avesse immediatamente accettato la sua proposta. Non si può pensare che chi difende questo modo di trattare i benefattori attribuisca grande valore ai benefici; e credo che una simile opinione sia condivisa quasi solamente dal tipo di persone che pensano che delle nuove verità potevano essere desiderabili una volta, ma che ora ne abbiamo abbastanza. Ma, in realtà, il detto che la verità trionfa sempre sulle persecuzioni è una di quelle gradevoli falsità che gli uomini continuano a ripetersi finché non diventano luoghi comuni, ma che tutta l'esperienza contraddice. La storia abbonda di casi in cui la verità è stata costretta al silenzio dalle persecuzioni: quando non è soppressa definitivamente, può essere rinviata di secoli. Per menzionare solo le opinioni religiose: la Riforma esplose almeno venti volte prima di Lutero, e fu soppressa. Arnaldo da Brescia fu soppresso. Fra Dolcino fu soppresso. Gli Albigesi furono soppressi. I Valdesi furono soppressi. I Lollardi furono soppressi. Gli Hussiti furono soppressi. Anche dopo Lutero, nei casi in cui si insisté nelle persecuzioni, esse ebbero successo. In Spagna, Italia, Fiandre, Impero austriaco, il Protestantesimo fu sradicato; e molto probabilmente avrebbe fatto la stessa fine in Inghilterra se la regina Maria fosse vissuta o la regina Elisabetta fosse morta. Le persecuzioni sono sempre riuscite, salvo quando gli eretici erano troppo forti per poter essere perseguitati efficacemente. Nessuna persona ragionevole può dubitare che il Cristianesimo avrebbe potuto essere sradicato dall'Impero romano: si diffuse e divenne predominante perché le persecuzioni furono occasionali, di breve durata, e separate da lunghi intervalli di propaganda quasi indisturbata. È sentimentalismo inutile pensare che la verità semplicemente in quanto tale abbia un qualche potere intrinseco, negato all'errore, di prevalere contro le segrete e il rogo. Gli uomini non hanno più zelo per la verità di quanto non ne abbiano spesso per l'errore, e un'adeguata applicazione di sanzioni legali o anche soltanto sociali riuscirà in generale ad arrestare la diffusione di entrambi. Il reale vantaggio della verità è che quando un'opinione è vera la si può soffocare una, due, molte volte, ma nel corso del tempo vi saranno in generale persone che la riscopriranno, finché non riapparirà in circostanze che le permetteranno di sfuggire alla persecuzione fino a quando si sarà sufficientemente consolidata da resistere a tutti i successivi sforzi di sopprimerla. Si dirà che oggi non mandiamo a morte chi introduce opinioni nuove: non siamo come i nostri padri che trucidavano i profeti; innalziamo loro perfino dei mausolei. È vero che non giustiziamo più gli eretici; è anche vero che le sanzioni penali oltre cui il sentimento moderno probabilmente non permetterebbe di andare, anche nei casi delle opinioni più nocive non sarebbero sufficientemente gravi da estirparle. Ma non illudiamoci di essere già liberi dalla macchia della persecuzione, anche solo legale. La legge prevede ancora delle pene per le opinioni, o almeno per la loro espressione; e non ve n'è, anche oggi, una così tale mancanza di esempi da rendere impensabile che un giorno possano ritornare nel pieno del loro vigore. Nell'anno 1857, alla sessione estiva delle assise della contea di Cornovaglia, un uomo la cui condotta venne dichiarata irreprensibile sotto tutti gli aspetti ebbe la sfortuna di venire condannato a ventun mesi di carcere per aver pronunciato, e scritto su un portone, alcune parole che offendevano il Cristianesimo . Un mese dopo, al tribunale dell'Old Bailey, in due diverse occasioni , due uomini furono ricusati come giurati, e uno di essi fu volgarmente insultato dal giudice e da uno degli avvocati, perché avevano onestamente dichiarato di non avere opinioni teologiche; e a un terzo, straniero , per la stessa ragione fu negata giustizia contro un ladro. Questa riparazione gli venne rifiutata in virtù della dottrina legale secondo cui nessuno che non professi di credere in un Dio (qualunque dio va bene) e in una vita futura può essere ammesso a testimoniare in un'aula di giustizia, il che equivale a dichiarare queste persone dei fuorilegge, esclusi dalla tutela dei tribunali, per cui non solo possono essere derubati o assaliti impunemente se sono soli o se i presenti condividono le loro opinioni, ma chiunque può essere derubato o assalito impunemente se la prova del crimine dipende dalla loro testimonianza. La presunzione su cui si fonda tutto ciò è che il giuramento di una persona che non crede in una vita futura non ha valore – presunzione che indica una vasta ignoranza della storia da parte di chi la sostiene (poiché è storicamente vero che moltissimi non credenti di tutti i tempi sono state persone di grande integrità e onore), e che non sarebbe condivisa da nessuno che si renda minimamente conto di quante siano le persone di alta reputazione, per virtù o azioni, il cui agnosticismo è ben noto, almeno a chi gli è vicino. Inoltre, la norma è suicida e mina le sue stesse fondamenta. Con la presunzione che gli atei devono essere dei mentitori, ammette la testimonianza di tutti gli atei disposti a mentire, e ricusa soltanto quelli che sfidano l'ignominia e confessano pubblicamente un'opinione detestata piuttosto che affermare il falso. Una norma del genere, la cui assurdità rispetto allo scopo che si propone si condanna da sola, non può essere mantenuta in vigore se non come segno di odio, residuo di una persecuzione dotata di una specifica particolarità: per esserne fatti oggetto va chiaramente provato che non la si merita. La norma, e la teoria da essa implicata, non sono un insulto minore per i credenti che per i non credenti: se chi non crede in una vita futura è necessariamente un mentitore, ne segue che i credenti non mentono – supposto che non mentano – soltanto per paura dell'inferno. Non offenderemo autori e fautori di questa norma supponendo che la loro concezione della virtù cristiana si modelli sulle loro coscienze. Questi sono, in effetti, brandelli e resti di persecuzione e possono essere considerati non tanto indicazioni di un'intenzione persecutoria, quanto esempi di quella frequentissima follia degli inglesi, che li porta ad affermare con stupido piacere un principio malvagio quando non sono più abbastanza malvagi da desiderarne veramente l'attuazione pratica. Ma purtroppo il pubblico non può essere sicuro che la sospensione delle peggiori forme di persecuzione legale, che dura da circa una generazione, continui. In quest'epoca, la tranquilla routine quotidiana è scossa da tentativi di risuscitare mali del passato altrettanto quanto da sforzi per introdurre nuovi benefici. Ciò che attualmente viene magnificato come risveglio della religione è sempre, per le mentalità ristrette e ignoranti, almeno in pari misura, risveglio del fanatismo; e quando i sentimenti degli uomini comprendono un robusto, permanente fermento di intolleranza, sempre presente tra le classi medie del nostro paese, poco basta per spingerli a perseguitare attivamente coloro che non hanno mai cessato di considerare meritevoli di giusta persecuzione . Poiché è questo – cioè le opinioni e i sentimenti che gli uomini nutrono verso chi disconosce le convinzioni che ritengono importanti – che fa del nostro un paese in cui non vi è libertà intellettuale. Da ormai molto tempo, l'aspetto più negativo delle sanzioni legali è che ribadiscono il marchio d'infamia imposto dalla società. È quest'ultimo a essere realmente efficace, tanto che l'asserzione di opinioni bollate dalla società è in Inghilterra molto meno comune di quanto in molti altri paesi non lo sia l'ammissione di idee per cui si rischiano sanzioni legali. Nei confronti di tutti, salvo coloro che la condizione economica rende indipendenti dal benvolere altrui, l'opinione è in questo campo altrettanto efficace che la legge: non vi è differenza tra imprigionare un uomo e impedirgli di guadagnarsi da vivere. Chi non ha problemi di sopravvivenza e non desidera favori dal potere, da associazioni o dal pubblico, professando apertamente qualsiasi opinione ha solo da temere per la sua reputazione, e non è indispensabile essere eroi per sopportarne una cattiva: sono persone per le quali non ci si può appellare ad misericordiam. Ma, anche se oggi non infliggiamo a coloro che dissentono da noi tanto male quanto solevamo, può darsi che il nostro trattamento dei dissenzienti ci danneggi altrettanto quanto in passato. Socrate fu mandato a morire, ma la filosofia socratica s'innalzò come il sole nel cielo e illuminò l'intero firmamento intellettuale. I primi cristiani furono gettati ai leoni, ma la chiesa cristiana crebbe come un albero nobile e frondoso, superando le piante meno giovani e vigorose, e soffocandole nella sua ombra. La nostra intolleranza limitata alla sfera sociale non uccide nessuno e non sradica opinioni, ma spinge gli uomini a celarle o a evitare di impegnarsi attivamente a diffonderle. Da noi, le opinioni eretiche non guadagnano né perdono percettibilmente terreno in un decennio o in una generazione: non divampano mai dappertutto, ma continuano a covare nelle ristrette cerchie di pensatori e studiosi da cui traggono origine senza mai illuminare gli affari umani della loro luce, vera o ingannevole che sia. Viene così mantenuto uno stato di cose secondo alcuni molto soddisfacente perché, senza incidenti spiacevoli come multe o arresti, lascia apparentemente indisturbate tutte le opinioni predominanti, e nel contempo non vieta assolutamente l'esercizio della ragione ai dissenzienti malati di pensiero. Un comodo piano per garantire la pace del mondo intellettuale, e mantenervi più o meno la solita routine. Ma il prezzo di questa sorta di pacificazione è il completo sacrificio del coraggio morale e intellettuale. Una situazione in cui una vasta parte delle intelligenze più attive e vivaci ritiene consigliabile tenere per sé i principi generali e i fondamenti delle proprie convinzioni e, quando si rivolge al pubblico, cerca quanto più può di comunicare le conclusioni derivate da premesse cui ha tra sé rinunciato, non può produrre le personalità coraggiose e aperte, gli intelletti coerenti e logici che una volta erano l'ornamento del pensiero umano. Il tipo di uomini che si possono trovare sotto questa superficie sono o semplici conformisti che si adeguano ai luoghi comuni, oppure opportunisti della verità, le cui argomentazioni su ogni questione importante sono quelle che giudicano più adatte al loro pubblico, non quelle che li hanno convinti. Coloro che evitano questa alternativa lo fanno restringendo i propri pensieri e interessi ad argomenti che possono essere discussi senza avventurarsi nel campo dei principi, cioè a piccole questioni pratiche che si risolverebbero da sole se soltanto le menti degli uomini riacquistassero vigore e ampiezza di vedute, e che non saranno mai effettivamente risolte finché si persisterà a sfuggire a ciò che rinvigorisce e amplia il pensiero – la libera e audace riflessione sugli argomenti più elevati. Chi pensa che questo silenzio degli eretici non sia un male dovrebbe innanzitutto considerare che a causa di esso non vi è mai discussione equanime e approfondita delle loro opinioni; e che gli eretici che non sarebbero in grado di reggerla sono sì impossibilitati a moltiplicarsi, ma non scompaiono. Ma non sono gli intelletti ereticali i più danneggiati dal bando imposto a ogni indagine che non termini con le conclusioni ortodosse: il danno maggiore è per coloro che eretici non sono, il cui intero sviluppo mentale è bloccato, e la ragione intimorita, dalla paura dell'eresia. Chi può calcolare quanto perde il mondo con la moltitudine di intelletti promettenti ma uniti a caratteri deboli che non osano sviluppare alcuna linea di pensiero audace, vigorosa, indipendente, per timore di ritrovarsi con qualcosa che potrebbe venire considerato irreligioso o immorale? Tra essi si trovano talvolta uomini di profonda coscienza e di sottile e raffinato intelletto, che passano la vita in ragionamenti sofistici con un'intelligenza che non possono far tacere ed esauriscono il loro ingegno nel tentativo di riconciliare gli impulsi della coscienza e della ragione con l'ortodossia, talvolta non riuscendovi fino alla fine. Nessuno può essere un grande pensatore se non riconosce che, in quanto uomo di pensiero, suo primo dovere è seguire il proprio intelletto indipendentemente dalle conclusioni cui esso conduca. La verità trae maggior vantaggio dagli errori di chi, con l'opportuna ricerca e preparazione, riflette da solo, che dalle opinioni vere di coloro che le hanno solo perché non si consentono di pensare. Non che la libertà di pensiero sia necessaria solamente, o soprattutto, al fine di formare grandi pensatori: anzi, è altrettanto e ancor più indispensabile per permettere agli uomini normali di raggiungere il grado di sviluppo intellettuale di cui sono capaci. Vi sono stati, e vi potranno ancora essere, grandi pensatori isolati in un'atmosfera generale di schiavitù mentale; ma in essa non è mai esistito, né esisterà mai, un popolo intellettualmente attivo. Quando un popolo lo è temporaneamente stato, l'ha dovuto a una momentanea sospensione dell'orrore per la speculazione eterodossa. Dove per tacita convenzione i principi non vanno posti in dubbio e il dibattito sui massimi problemi dell'umanità è considerato chiuso, non possiamo sperare di trovare quel livello generalmente alto di attività mentale che ha reso così notevoli alcuni periodi storici. Quando la discussione ha evitato gli argomenti sufficientemente vasti e importanti da suscitare entusiasmi, l'intelletto di un popolo non è mai stato stimolato in profondità, né è stato dato l'impulso che eleva anche le persone intellettualmente mediocri a partecipare in qualche misura della dignità di esseri pensanti. Un esempio di questo tipo è stata l'Europa nell'epoca immediatamente successiva alla Riforma; un altro, anche se limitato al Continente e alla classe colta il movimento speculativo della seconda metà del diciottesimo secolo; un terzo, di ancor più breve durata, il fermento intellettuale della Germania al tempo di Goethe e Fichte. Questi periodi sono stati molto diversi per il tipo di opinioni da essi sviluppate, ma simili perché durante tutte e tre fu spezzato il giogo dell'autorità. In ciascuno di essi un vecchio dispotismo mentale era stato abbattuto, e uno nuovo non ne aveva ancora preso il posto. L'impulso dato in questi tre periodi ha fatto dell'Europa quella che è oggi: ciascun singolo progresso del pensiero umano o delle istituzioni può essere chiaramente ricondotto a uno di essi. Da qualche tempo tutto sembra indicare che i tre impulsi sono ormai quasi esauriti; e non possiamo attenderci un nuovo inizio se non riasseriamo la nostra libertà intellettuale. Passiamo ora al secondo aspetto della nostra argomentazione, e, scartando la supposizione che alcune opinioni comunemente accettate possano essere false, ammettiamo che siano vere ed esaminiamo quale sia il valore dei modi secondo cui verranno probabilmente percepite ed espresse nel caso che non se ne dibatta liberamente e apertamente la verità. Per quanto chi è fermamente convinto di un'opinione ammetta a malincuore la possibilità che sia falsa, dovrebbe essere stimolato dalla considerazione che, per vera che essa sia, se non la si discute a fondo, spesso e senza timore, finirà per essere creduta un freddo dogma, non una verità attuale. Vi sono uomini (fortunatamente, non tanti quanto una volta) che ritengono sufficiente che una persona approvi incondizionatamente ciò che essi giudicano vero, anche se ignora completamente gli elementi su cui la loro opinione si fonda e non è in grado di difenderla passabilmente dall'obiezione più superficiale. Se costoro riescono a far imporre il loro credo dall'autorità, pensano naturalmente che permettere di porlo in dubbio non sia fonte di alcun vantaggio, ma anzi di qualche danno. Quando prevalgono, rendono quasi impossibile respingere l'opinione comunemente accettata sulla base di accurate considerazioni, anche se la si può ancora rifiutare sconsideratamente o per ignoranza: infatti raramente si può sopprimere completamente la discussione, e al suo primo insorgere le convinzioni prive di solidi fondamenti tendono a crollare di fronte alla minima parvenza di argomento. Tralasciamo tuttavia questa possibilità e supponiamo che un'opinione sia vera, ma venga pensata come se fosse un pregiudizio, una credenza indipendente da argomento e ad essi refrattaria: non è questo il modo in cui un essere razionale dovrebbe possedere la verità; questo non è conoscere la verità. In queste condizioni, la verità non è altro che un'ennesima superstizione, associata a parole che enunciano una verità. Se l'intelletto e il giudizio degli uomini vanno coltivati – necessità che almeno i protestanti non negano –, le questioni migliori per esercitarli sono quelle che riguardano l'individuo tanto da vicino da far ritenere necessario che se ne formi un'opinione. Se nell'educazione intellettuale vi è un fattore predominante, è sicuramente l'esame dei fondamenti delle proprie opinioni. Qualsiasi convinzione si abbia in campi in cui è essenziale avere una opinione corretta, si deve essere in grado di difenderla almeno contro le obiezioni più comuni. Qualcuno potrebbe tuttavia affermare: "Insegniamo agli uomini i fondamenti delle loro opinioni; ciò non significa che le debbano soltanto ripetere meccanicamente perché non vengono mai contraddette. Chi studia la geometria non si limita a imparare a memoria i teoremi, ma comprende e studia anche le dimostrazioni; e sarebbe assurdo affermare che egli rimane nell'ignoranza dei fondamenti delle verità geometriche perché nessuno le nega o cerca di confutarle". Senza dubbio: e un insegnamento del genere è sufficiente in un campo come la matematica, in cui non vi è alcun argomento dalla parte dell'errore La peculiarità dell'evidenza delle verità matematiche sta nel fatto che tutti gli argomenti sono da un'unica parte: non esistono obiezioni, né risposte ad esse. Ma in ogni campo in cui è possibile una differenza di opinioni, la verità dipende dall'individuazione dell'equilibrio tra due gruppi di ragioni contrastanti. Anche nella filosofia naturale è sempre possibile fornire un'altra spiegazione degli stessi fatti: una teoria geocentrica invece di quella eliocentrica, il flogisto invece dell'ossigeno, e bisogna dimostrare perché l'altra teoria non può essere quella vera; e fino a quando non sia data la dimostrazione e non sappiamo come svolgerla, non comprendiamo i fondamenti della nostra opinione. Ma se ci volgiamo a campi infinitamente più complessi, la morale, la religione, la politica, i rapporti sociali, e gli affari della vita, tre quarti degli argomenti a favore di qualsiasi opinione controversa consistono nel demolire le apparenze che ne favoriscono un'altra. Il secondo oratore dell'antichità affermava di studiare sempre gli argomenti dell'avversario con uguale, se non maggiore, attenzione dei propri. Il metodo che procurò a Cicerone il successo forense va imitato da chiunque studi qualsiasi campo per giungere alla verità. Chi conosce solo gli argomenti a proprio favore conosce poco: può avere delle buone ragioni, che magari nessuno è mai stato capace di confutare; ma se è altrettanto incapace di confutare le ragioni avversarie, se neppure le conosce, non ha basi per scegliere tra le due opinioni. In questo caso il suo atteggiamento razionale dovrebbe essere la sospensione del giudizio; se ciò non lo soddisfa si farà guidare dall'autorità, oppure adotterà, come fa in generale il mondo, la posizione per cui propende. Né gli è sufficiente ascoltare le tesi degli avversari dalla bocca dei suoi maestri, espresse con le parole di questi ultimi e accompagnate dalle loro confutazioni. Non è questo il modo di rendere giustizia agli argomenti opposti o di venire realmente a contatto con essi. Deve poterli udire da persone che ne sono realmente convinte, che li difendono accanitamente e al massimo delle loro possibilità. Deve conoscerli nella loro formulazione più plausibile e persuasiva, e sentire l'intero peso della difficoltà che l'opinione vera deve affrontare e demolire; altrimenti non si impadronirà mai realmente di quella parte della verità che viene incontro all'obiezione e la elimina. Il novantanove per cento dei cosiddetti uomini di cultura sono in questa condizione, anche quelli in grado di sostenere elegantemente le proprie opinioni. La loro conclusione può essere vera ma, per quel che ne sanno, potrebbe anche essere falsa: non si sono mai messi al posto di chi pensa diversamente da loro, considerandone le possibili argomentazioni; e di conseguenza non conoscono, in nessuna accezione corretta del termine, la dottrina che essi stessi professano. Non ne conoscono le parti che spiegano e giustificano il resto – le considerazioni che mostrano come due fatti apparentemente contraddittori possano essere conciliabili, o come tra due ragioni apparentemente di uguale forza vada scelta l'una piuttosto che l'altra. È loro estranea tutta quella parte della verità che fa pendere la bilancia a suo favore e determina il giudizio di chi è perfettamente informato; essa è realmente nota soltanto a chi ha dedicato un'attenzione uguale e imparziale alle opposte ragioni, cercando di vederle il più chiaramente possibile. Questa disciplina è così essenziale a una reale comprensione delle questioni morali e umane che se una verità fondamentale non trova oppositori è indispensabile inventarli e munirli dei più validi argomenti che il più astuto avvocato del diavolo riesce a inventare. Supponiamo che, per controbattere la forza di queste considerazioni, un nemico della libertà di discussione affermi che non è necessario che tutti gli uomini conoscano e comprendano tutto ciò che filosofi e teologi possono asserire pro o contro le reciproche opinioni. Che gli uomini normali non hanno bisogno di essere in grado di individuare tutte le inesattezze e gli errori di un ingegnoso oppositore; basta che ci sia sempre qualcuno capace di controbattervi in modo da confutare tutto ciò che potrebbe trarre in inganno gli incolti. Che dei semplici, cui siano stati insegnati i fondamenti più evidenti delle verità che gli sono state inculcate, possono per il resto affidarsi all'autorità e, consci di non possedere né le conoscenze né l'ingegno necessari a risolvere ogni possibile difficoltà, star certi che tutte quelle già affiorate sono state, o possono essere, risolte da chi è specialmente addestrato a questo compito. Pur accordando a questo ragionamento tutto il valore che può avere per coloro cui non importa che si creda in una verità senza comprenderla perfettamente, l'argomento a favore della libera discussione non ne esce in alcun modo indebolito. Infatti persino questa dottrina ammette che gli uomini dovrebbero avere la sicurezza razionale che a tutte le obiezioni si è risposto in modo soddisfacente; e come si risponde se la risposta adatta non viene formulata? Oppure, come si può sapere che è soddisfacente se gli obiettori non hanno l'opportunità di dimostrare che non lo è? Se non il pubblico, almeno i filosofi e i teologi deputati a risolvere le difficoltà devono familiarizzarsi con esse, nelle loro forme più complesse; il che non è possibile se non vengono enunciate liberamente e nella luce ad esse più vantaggiosa. La chiesa cattolica ha un suo modo di risolvere questo imbarazzante problema: compie una netta distinzione tra coloro cui è permesso di adottare le sue dottrine per convinzione e chi deve accettarle sulla fiducia. In effetti, a nessuno dei due gruppi è consentito scegliere che cosa accettare: ma il clero, o almeno quella parte di esso che è completamente fidata, può legittimamente e meritoriamente studiare gli argomenti degli oppositori per poterli controbattere, e quindi può leggere libri eretici; invece i laici non lo possono salvo che in seguito a una speciale dispensa, difficile da ottenere. Questa disciplina riconosce che la conoscenza degli argomenti nemici è utile ai suoi maestri, ma trova modo, coerentemente, di negarla al resto del mondo, permettendo così all'élite una cultura, anche se non una libertà intellettuale, superiore a quella che permette alle masse. Con questo mezzo la chiesa riesce a conseguire il genere di superiorità intellettuale richiesto dai suoi scopi; poiché, anche se la cultura senza libertà non ha mai formato una mente liberale e di ampie vedute, può formare un astuto avvocato del nisi prius. Ma nei paesi che professano il protestantesimo questa soluzione è impossibile, poiché i protestanti affermano, almeno in teoria, che ciascuno deve avere la responsabilità di scegliersi la religione, e non può scaricarla sui suoi maestri. Inoltre, al giorno d'oggi è praticamente impossibile mantenere la popolazione incolta all'oscuro di opere che le persone colte leggono. Perché i maestri dell'umanità possano conoscere tutto ciò che dovrebbero, vi deve essere libertà incondizionata di scrittura e pubblicazione. Tuttavia, se la nociva soppressione della libertà di parola, in una situazione in cui le opinioni comunemente accettate sono vere, si limitasse a lasciare gli uomini nell'ignoranza dei fondamenti di queste opinioni, la si potrebbe considerare un male intellettuale ma non morale, che non diminuisce la validità delle opinioni in quanto elementi che influiscono sul carattere. Nella realtà però la mancanza di discussione non solo fa dimenticare i fondamenti di un'opinione, ma il suo stesso significato. Le parole che la esprimono non suggeriscono più idee, o suggeriscono solo una piccola parte di quelle che comunicavano originariamente. Al posto di un concetto vigoroso e di una convinzione viva, restano soltanto poche frasi meccanicamente apprese; oppure, se resta qualcosa del significato, è solo l'involucro, e la profonda essenza si è persa. Non si studierà e mediterà mai a sufficienza il grande capitolo della storia umana che questo fenomeno costituisce. Lo illustra l'esperienza di quasi tutte le dottrine morali e le religioni. Per i loro fondatori, e i loro diretti discepoli, sono tutte piene di significato e vitalità. Il loro significato continua ad essere sentito in tutta la sua forza e anzi diventa forse ancor più evidente finché dura la lotta per il predominio tra la nuova dottrina o fede e le altre. Infine, o essa ha il sopravvento e diventa l'opinione generale, oppure il suo progresso si arresta: mantiene il terreno che si è conquistata, ma smette di espandersi. Quando uno dei due esiti è ormai chiaro, le controversie si acquietano, e gradualmente si spengono. La dottrina ha conquistato la sua posizione, se non di opinione generalmente ammessa, di setta o settore di opinione consentito; i suoi seguaci l'hanno in generale ereditata e non adottata; e le conversioni da una dottrina all'altra, essendo ormai divenute l'eccezione, non hanno più molto posto tra le preoccupazioni dei maestri. Questi ultimi, invece di essere come una volta costantemente all'erta per difendersi dal mondo o per portarlo dalla propria parte, si sono quietati e ammansiti e non ascoltano, se appena possono evitarlo, gli argomenti contro la loro fede, né molestano i dissenzienti (se ve ne sono) con argomenti a suo favore. Generalmente è a questo momento che si può far risalire il declino della forza vitale di una dottrina. Spesso sentiamo i maestri di ogni fede lamentarsi di quanto sia difficile mantenere viva nei fedeli la percezione della verità che a parole professano, in modo che possa penetrare i loro sentimenti e determinare realmente il loro comportamento. Questa difficoltà non viene mai avvertita quando la fede sta lottando per sopravvivere; in quel momento anche i più deboli comprendono e sentono ciò per cui combattono, e la sua differenza dalle altre dottrine; e in questa fase dell'esistenza di ogni fede si possono trovare molti adepti che ne hanno compreso i principi fondamentali in ogni aspetto del pensiero, ne hanno pesato e considerato tutte le conseguenze importanti, e hanno sperimentato in se stessi l'intero effetto che la loro fede dovrebbe provocare in una mente che ne sia completamente imbevuta. Ma quando la fede è diventata ereditaria, ricevuta passivamente e non attivamente – quando il pensiero non è più costretto come agli inizi a esercitare le sue forze vitali sulle questioni con cui la sua fede lo confronta – vi è una tendenza progressiva a dimenticarne tutto salvo le formule, o a tributarle un consenso fiacco e torpido – come se la sua accettazione sulla fiducia dispensasse dalla necessità di averne piena coscienza o di sperimentarla nell'esperienza personale – finché la fede non ha quasi più rapporto con la vita interiore dell'individuo. Allora compaiono i casi, ormai così frequenti da costituire quasi la maggioranza, in cui la fede resta per così dire esterna alla mente, ma la incrosta e la calcifica contro tutte le altre influenze che si rivolgono agli aspetti più elevati della nostra natura; e manifesta il suo potere sbarrando l'accesso a tutto ciò che è nuovo e vivo, ma non facendo nulla per la mente e il cuore, salvo che starvi da sentinella per tenerli vuoti. Il modo in cui dottrine intrinsecamente destinate a esercitare il più profondo influsso sulla mente umana vi sopravvivano come morte credenze, senza mai esprimersi nei sentimenti, nell'immaginazione o nel pensiero, è esemplificato dall'atteggiamento della maggioranza dei credenti verso le dottrine del Cristianesimo. Per Cristianesimo intendo qui ciò che è definito tale da tutte le chiese e sette – le massime e i precetti contenuti nel Nuovo Testamento, considerati sacri e accettati come legge da tutti coloro che si dichiarano cristiani. E tuttavia si esagera di poco o nulla se si afferma che non un cristiano su mille determina o giudica la propria condotta personale in base a queste leggi: il criterio cui si riferisce è la consuetudine del suo paese, della sua classe o della sua confessione religiosa. Ha quindi, da un lato, una collezione di massime etiche che crede gli siano state affidate da una saggezza infallibile perché vi ispiri la propria condotta; dall'altro, un insieme di giudizi e pratiche quotidiane che concordano in una certa misura con alcune massime, un po' meno con altre, sono il contrario di altre ancora, e complessivamente costituiscono un compromesso tra la fede cristiana e gli interessi e le suggestioni della vita di questo mondo. Al primo criterio offre il suo omaggio; al secondo, la sua reale sottomissione. Tutti i cristiani credono che beati sono i poveri e gli umili, e coloro che il mondo perseguita; che è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli; che non devono giudicare, se non vogliono essere giudicati; che non dovrebbero mai giurare; che dovrebbero amare il loro prossimo come se stessi; che se qualcuno gli prende il mantello, gli devono dare anche la veste; che non dovrebbero pensare al domani; che se fossero perfetti dovrebbero vendere tutto quello che hanno e darlo ai poveri. Non sono insinceri quando affermano di credere in tutto ciò: ci credono, come si crede in ciò che si è sempre sentito lodare e mai discutere. Ma se il credere è inteso come convinzione viva e presente che determina la condotta umana, credono in queste dottrine solo nella misura in cui abitualmente agiscono in base a esse. Nella loro integrità, le dottrine servono a essere scagliate contro gli avversari; inoltre è convenuto che le si può usare (quando è possibile) a giustificazione di tutto ciò che si ritenga giusto fare. Ma chiunque ricordasse ai cristiani che le loro massime richiedono un'infinità di cose cui non hanno mai neppure pensato, otterrebbe solo di finire nel novero di quei personaggi alquanto impopolari che pretendono di essere migliori degli altri. Le dottrine non hanno presa sui credenti comuni – non hanno potere sulle loro menti. I fedeli nutrono un rispetto consuetudinario per la loro formulazione, ma non un sentimento che dalle parole si estenda alle cose che significano e costringa la mente a prendere coscienza di queste, e a modificarle in modo che corrispondano alla formula. Quando è questione di condotta, i cristiani cercano il signor A e il signor B per farsi dire fino a che punto devono obbedire a Cristo. Ora, possiamo star certi che al tempo dei primi cristiani la situazione era ben diversa. Fosse stata come oggi, il Cristianesimo non si sarebbe trasformato da un'oscura setta dei disprezzati ebrei nella religione dell'Impero romano. Quando sentivano i loro nemici dire "Guardate come si amano questi cristiani" (osservazione alquanto improbabile al giorno d'oggi), sicuramente i cristiani avevano una percezione molto più viva del significato della loro fede di quanto non abbiano più avuto in seguito. Ed è probabilmente questo il motivo principale per cui oggi il Cristianesimo fa così fatica a estendere il proprio dominio, e dopo diciotto secoli è ancora diffuso quasi esclusivamente tra gli europei e i loro discendenti. Anche nel caso dei credenti di stretta osservanza, che prendono molto seriamente le loro dottrine e conferiscono a molte di esse maggiore significato di quanto venga loro generalmente attribuito, accade comunemente che l'aspetto in loro generalmente più attivo sia stato elaborato da Calvino, o Knox, o da qualcun altro molto più vicino al loro carattere. Nelle loro menti i detti di Cristo coesistono passivamente, senza quasi altri effetti che quelli causati dal semplice ascolto di parole così miti e soavi. Indubbiamente sono molte le ragioni per cui le dottrine che caratterizzano una setta mantengono la loro vitalità più di quelle comuni a tutte le sette riconosciute, e per cui i maestri della religione fanno maggiori sforzi per tenerne vivo il significato; ma una è certamente che le dottrine caratteristiche sono le più discusse, quelle che più spesso vanno difese da esperti oppositori. Sia i maestri che gli allievi si addormentano al loro posto di guardia non appena il nemico è scomparso. Altrettanto vale, in termini generali, per tutte le dottrine tradizionali – sia quelle di saggezza ed etica pratiche che quelle più propriamente morali o religiose. Tutte le lingue e le letterature abbondano di osservazioni generali sulla vita, cosa è e come comportarvisi – osservazioni che tutti conoscono, che tutti ripetono o odono con rassegnazione, che sono accolte come truismi, e di cui tuttavia quasi tutti apprendono veramente il significato la prima volta che un'esperienza, generalmente dolorosa, le fa diventare una loro realtà. Quanto spesso, sotto la frustata di una disgrazia imprevista o di una delusione, ci ritorna in mente un detto o un proverbio che abbiamo sentito per tutta la vita, il cui significato, se solo l'avessimo capito come lo capiamo ora, ci avrebbe risparmiato questo male. Anche di questo esistono ragioni che non si limitano alla mancata discussione: di molte verità non si può comprendere pienamente il significato senza esperienza personale. Ma anche il loro significato sarebbe stato molto meglio compreso e sarebbe rimasto molto più profondamente impresso se si fosse stati abituati a sentirlo discutere, in positivo e in negativo, da persone che lo comprendevano. La fatale tendenza degli uomini a smettere di pensare a una questione quando non è più dubbia è causa di metà dei loro errori. Un autore contemporaneo ha giustamente parlato del "profondo sonno dogmatico indotto da un'opinione definitiva". Ma come! (ci si può chiedere), la mancanza di unanimità è una condizione indispensabile per il vero sapere? È necessario che una parte dell'umanità persista nell'errore perché qualcuno si possa rendere conto della verità? Una convinzione cessa di essere reale e vitale non appena è generalmente accettata – e una proposizione non è mai compresa e sentita fino in fondo se non resta in qualche modo in dubbio? Non appena gli uomini l'abbiano unanimemente accettata, una verità gli muore dentro? Fino ad ora si è pensato che lo scopo più alto, e il miglior effetto, di un'intelligenza affinata fosse unire sempre più l'umanità nel riconoscimento di verità fondamentali; e l'intelligenza esiste solo finché non ha raggiunto il suo scopo? I frutti della vittoria si dileguano proprio perché è completa? Non affermo nulla del genere. Col progresso umano, il numero delle dottrine che non saranno più oggetto di dispute o dubbi aumenterà costantemente; e si può quasi misurare il benessere degli uomini col numero e l'importanza delle verità che sono ormai incontestate. Lo spegnersi, in una questione dopo l'altra, del dibattito serio è un accidente necessario nel consolidamento dell'opinione – tanto salutare nel caso di opinioni vere quanto è pericoloso e nocivo se le opinioni sono errate. Ma anche se questo progressivo restringersi dei limiti della diversità di opinione è necessario in entrambi i sensi del termine – è contemporaneamente inevitabile e indispensabile –, non siamo perciò obbligati a concludere che debba avere solo conseguenze positive. La perdita di un aiuto così importante all'intelligente e viva comprensione di una verità, come è quello dato dalla necessità di chiarirla o difenderla nel contraddittorio, è una conseguenza negativa non trascurabile all'universale riconoscimento del vero, anche se non ne supera i benefici. Quando questo aiuto viene a mancare, confesso che vorrei che i maestri dell'umanità ne cercassero un surrogato – uno strumento che renda chi studia una data questione altrettanto cosciente delle sue difficoltà che se gli venissero contestate da un oppositore teso a convertirlo. Ma, invece di trovarne di nuovi, si perdono gli strumenti del passato. La dialettica socratica, così magnificamente illustrata nei dialoghi di Platone, era uno strumento analogo. Si trattava sostanzialmente di una discussione negativa delle grandi questioni della filosofia e della vita, diretta con consumata abilità al fine di convincere chiunque si limitasse a far suoi i luoghi comuni dell'opinione corrente che non comprendeva la questione – che non aveva ancora attribuito un significato preciso alle dottrine professate –, affinché, resosi conto della sua ignoranza, si incamminasse verso una convinzione solida, fondata sulla chiara comprensione del significato delle dottrine e dell'evidenza a loro favore. Le discussioni scolastiche medioevali avevano uno scopo abbastanza simile: far sl che l'allievo comprendesse la propria opinione e (per necessaria correlazione) l'opposta, e fosse in grado di affermare i fondamenti dell'una e confutare quelli dell'altra. Queste sfide oratorie avevano certo l'irrimediabile difetto che le premesse cui si rifacevano derivavano dall'autorità e non dalla ragione; e, come disciplina mentale, erano sotto ogni aspetto inferiori alla potente dialettica che aveva formato gli intelletti dei socratici viri; ma il pensiero moderno deve a entrambi molto più di quanto non voglia generalmente ammettere, e l'educazione moderna non comprende alcun strumento che minimamente svolga la funzione di questi due. Chi deriva tutta la sua istruzione da insegnanti e libri, anche se sfugge all'incombente tentazione del nozionismo, non ha alcun obbligo di considerare entrambi gli aspetti di una questione, che quindi raramente sono conosciuti, persino dai filosofi; e la parte più debole di ogni argomentazione a difesa di un'opinione è la replica agli antagonisti. Attualmente è di moda screditare la logica negativa – quella che individua debolezze teoriche o errori pratici senza affermare verità positive. Questa critica negativa sarebbe certo molto insoddisfacente come punto d'arrivo, ma come mezzo per conseguire conoscenze positive o convinzioni degne di essere chiamate tali non sarà mai abbastanza apprezzata; e fino a quando non se ne riprenderà l'insegnamento e l'esercizio sistematico vi saranno pochi grandi pensatori e un basso livello intellettuale complessivo in tutti i campi che non siano la speculazione matematica e fisica. In ogni altro settore, non vi è nessuno le cui opinioni meritino di essere definite sapere, a meno che altri non gli abbiano imposto, o non abbia seguito spontaneamente, lo stesso percorso intellettuale che un'attiva controversia con degli oppositori gli avrebbe richiesto di compiere. È quindi molto peggio che assurdo rifiutare, quando ci si offre spontaneamente, ciò che quando manca è così indispensabile, eppure così difficile, creare. Se vi sono persone che negano un'opinione generalmente accettata o che la negherebbero se la legge o il pubblico glielo permettessero, ringraziamole, ascoltiamole a mente aperta e rallegriamoci che qualcuno faccia per nostro conto ciò che altrimenti dovremmo fare da soli, e con fatica molto maggiore, se abbiamo un minimo di rispetto per la certezza o la vitalità delle nostre convinzioni. Resta ancora da menzionare una delle cause principali che rendono così vantaggiosa la diversità di opinioni, e continueranno a farlo finché gli uomini saranno giunti a uno stadio di progresso intellettuale da cui ora sembrano incalcolabilmente lontani. Fino a questo punto abbiamo considerato soltanto due possibilità: che l'opinione comunemente accettata possa essere falsa, e qualcun'altra, di conseguenza, vera; oppure che l'opinione comune sia vera, ma il contrasto con l'errore sia essenziale per una chiara comprensione e una profonda percezione della sua verità. Ma vi è un terzo caso, più frequente dei primi due: quando le dottrine contrastanti, invece di essere una vera e l'altra falsa, contengono entrambe una parte di verità, e l'opinione dissidente è necessaria per integrare la dottrina più generalmente accettata con ciò che le manca. In questioni che esulano dal dominio dei sensi, l'opinione popolare è spesso vera, ma di rado o mai costituisce l'intera verità. Ne è una parte, grande o piccola a seconda dei casi, ma esagerata, distorta, e isolata dalle altre verità che dovrebbero accompagnarla e precisarla. D'altro canto, le opinioni eretiche sono generalmente alcune di queste verità soppresse e trascurate che spezzano i vincoli che le imprigionavano e, o cercano di riconciliarsi con la verità contenuta nell'opinione comune, o affrontano quest'ultima come un nemico, proclamando in modo altrettanto esclusivo di essere l'intera verità. Fino a oggi è stato più frequente il secondo caso, poiché tra gli uomini l'unilateralità è sempre stata la norma, la multilateralità, l'eccezione; quindi anche nelle rivoluzioni dell'opinione una parte della verità generalmente tramonta al sorgere di un'altra. Persino il progresso, che dovrebbe assommarle, nella maggior parte dei casi si limita a sostituire una verità parziale e incompleta a un'altra; e il miglioramento consiste soprattutto nel fatto che il nuovo frammento di verità è più richiesto, più adatto alle necessità dell'epoca di quello che sostituisce. Dato questo carattere di parzialità dell'opinione predominante anche quando i suoi fondamenti sono veri, ogni opinione che comprenda in una certa misura la parte di verità omessa dall'opinione dominante, dovrebbe essere considerata preziosa, anche se in essa si frammischiano confusamente verità ed errore. Nessun buon giudice delle cose umane si indignerà perché coloro che ci costringono a prendere nota di verità che altrimenti ci sarebbero sfuggite se ne lasciano a loro volta sfuggire alcune che per noi sono evidenti: penserà anzi che finché la verità generalmente accettata è unilaterale, è più che in altri casi auspicabile che anche quella impopolare abbia assertori unilaterali, come lo sono generalmente i più energici, quelli che più riescono ad attrarre un'attenzione riluttante su quel frammento che ai loro occhi è tutta la saggezza. Così nel XVIII secolo quasi tutte le persone colte, e tutti gli incolti che da loro si facevano guidare, si perdevano nell'ammirazione della cosiddetta civiltà, delle meraviglie della scienza, della letteratura e della filosofia moderne, e sopravvalutavano di molto la differenza tra i moderni e gli antichi, illudendosi che fosse tutta a loro favore; nel mezzo di questo compiacimento generale, fu estremamente salutare l'esplosione dei paradossi di Rousseau, che frantumarono la massa compatta di questa opinione unilaterale costringendone gli elementi a ricombinarsi in una forma migliore, arricchiti da altri fattori. Non che le opinioni prevalenti fossero nel loro complesso più lontane dalla verità di quelle di Rousseau; al contrario le erano più vicine: contenevano più verità positive, e molto meno errore. Ciononostante, nella dottrina di Rousseau era racchiusa – ed è stata trasportata fino a noi dalla corrente dell'opinione – una notevole misura proprio di quelle verità che mancavano all'opinione comune e che sono il sedimento rimasto dopo l'ondata di piena La superiorità della vita semplice, l'effetto snervante e demoralizzante dei vincoli e delle ipocrisie di una società artificiale, sono idee che dopo Rousseau non sono più state completamente ignorate dalle persone colte e che col tempo produrranno il loro effetto, anche se attualmente vanno più che mai ribadite, soprattutto nei fatti – poiché in questo campo le parole hanno quasi esaurito il loro potere. Anche in politica è quasi un luogo comune che un partito dell'ordine o della stabilità e un partito del progresso o delle riforme sono entrambi elementi necessari di una vita politica sana, fino a quando uno dei due non avrà così ampliato la sua visione delle cose da diventare un partito ugualmente d'ordine e di progresso, che sappia distinguere ciò che va conservato da ciò che va abolito. Ambedue questi atteggiamenti mentali derivano la loro utilità dalle carenze dell'altro; ma è in larga misura l'opposizione dell'altro a mantenerli entrambi nei limiti della ragione. Se le opinioni favorevoli alla democrazia e all'aristocrazia, alla proprietà e all'uguaglianza, alla cooperazione e alla competizione, al lusso e alla frugalità, alla socialità e all'individualità, alla libertà e alla disciplina, e a tutte le altre opposizioni intrinseche alla vita quotidiana, non vengono espresse con uguale libertà e fatte rispettare con uguale talento e energia, non vi è alcuna probabilità che i due elementi ricevano un trattamento equo: la bilancia penderà certamente da una parte o dall'altra. Nei grandi problemi pratici della vita, la verità è una questione di conciliazione e combinazione di opposti, a tal punto che pochissime menti sono abbastanza vaste e imparziali da riuscirne a dare una soluzione anche solo parzialmente corretta, che quindi finisce col dipendere da un caotico processo conflittuale tra opposte fazioni. In ognuna delle grandi questioni aperte che ho elencato, se delle due opinioni ve n'è una che ha maggior diritto non solo a essere tollerata ma a venire incoraggiata e favorita, è quella che in un dato momento e luogo è in minoranza. Rappresenta allora gli interessi trascurati, quegli aspetti del benessere umano che rischiano di ottenere meno attenzione di quanta è loro dovuta. So bene che nel nostro paese le differenze di opinione sulla maggior parte di questi argomenti sono tollerate: vengono addotte a dimostrare con esempi accettati e molteplici l'universalità del fatto che allo stato presente dell'intelletto umano soltanto la varietà delle opinioni offre uguali opportunità a tutti gli aspetti della verità. Quando si trovano persone che fanno eccezione all'apparente unanimità del mondo su un qualsiasi argomento, anche se il mondo ha ragione, è sempre probabile che i dissenzienti abbiano da dire a proprio favore qualcosa che merita attenzione, e che, se tacessero, la verità perderebbe qualcosa. Si potrebbe obiettare "Ma alcuni principi comunemente accettati, specialmente quelli che riguardano le questioni più elevate e essenziali, sono più che delle mezze verità. Per esempio, la morale cristiana è nel suo campo specifico la completa verità, e chiunque predichi una morale che se ne discosti è completamente in errore". Dato che tra tutti i casi pratici questo è il più importante, è anche il più adatto a controllare la validità della nostra asserzione generale. Ma prima di stabilire che cosa sia o non sia la morale cristiana, sarebbe opportuno decidere che cosa si intenda per morale cristiana. Se significa la morale del Nuovo Testamento, mi chiedo come chiunque la conosca dalla lettura del testo possa supporre che sia stata presentata, o intesa, come una dottrina morale completa. Il Vangelo si riferisce sempre alla morale preesistente, e limita i suoi insegnamenti agli aspetti in cui essa andava corretta e sostituita da un'etica più aperta e elevata, che inoltre è espressa in termini estremamente generali, spesso impossibili da interpretare letteralmente, partecipi dell'efficacia della poesia o dell'eloquenza più che della precisione della legislazione. Non è stato mai possibile derivarne una dottrina etica organica senza riferirsi al Vecchio Testamento, cioè a un sistema effettivamente molto elaborato, ma sotto molti aspetti barbaro, e concepito soltanto per un popolo barbaro. Anche san Paolo, nemico dichiarato di questa interpretazione giudaica della dottrina tendente a completare lo schema del Maestro, assume una morale preesistente, cioè quella greca e romana: e il suo insegnamento ai cristiani è in larga misura un sistema di compromesso che giunge al punto di legittimare in apparenza la schiavitù. La morale che viene chiamata cristiana – ma il termine dovrebbe essere "teologica" – non è opera di Cristo o degli Apostoli, ma ha un'origine molto posteriore, essendo stata costruita gradualmente dalla chiesa cattolica dei primi cinque secoli; anche se moderni e protestanti non l'hanno adottata in toto, l'hanno modificata molto meno di quanto ai si potesse aspettare. In effetti nella maggior parte dei casi si sono accontentati di eliminare le aggiunte risalenti al Medioevo, sostituendole con altre, variabili a seconda delle tendenze e caratteristiche delle varie sette. Sarei l'ultimo a negare che gli uomini abbiano un grande debito verso questa morale e i suoi primi maestri, ma non esito ad affermare che sotto molti importanti aspetti è incompleta e unilaterale e che se idee e sentimenti da essa non sanciti non avessero contribuito alla formazione della società e del carattere dell'Europa, gli uomini si troverebbero in una condizione peggiore dell'attuale. La (cosiddetta) morale cristiana ha tutti i caratteri di una reazione; è in gran parte una protesta contro il paganesimo. Il suo ideale è negativo piuttosto che positivo; passivo piuttosto che attivo; è l'innocenza piuttosto che la nobiltà d'animo; astenersi dal male piuttosto che perseguire energicamente il bene; nei suoi precetti (è stato giustamente notato), il "non farai" predomina eccessivamente sul "farai". Nel suo orrore della sensualità, ha fatto dell'ascetismo un idolo che a forza di compromessi è diventato idolo della legalità. Indica la speranza del paradiso e la minaccia dell'inferno come motivazioni esplicite e opportune di una vita virtuosa: cade così molto al di sotto di quanto di meglio offriva il pensiero antico, e fa quanto è in suo potere per dare alla morale umana un carattere essenzialmente egoista, scindendo il senso del dovere di ciascuno dagli interessi dei suoi simili, che vanno sì consultati ma per motivi sostanzialmente egoistici. È essenzialmente una dottrina dell'ubbidienza passiva; inculca lo spirito di sottomissione a tutte le autorità costituite; e mentre sostiene che non bisogna in effetti ubbidire attivamente quando ordinano ciò che la religione vieta, afferma che neppure però si deve resistere, e ancor meno ribellarsi, qualunque torto ci facciano. E mentre nella morale delle migliori nazioni pagane il dovere verso lo Stato ha un peso persino sproporzionato e tale da violare la giusta libertà dell'individuo, nell'etica cristiana pura questo grande campo di doveri riceve scarsissima attenzione o menzione. È nel Corano, non nel Nuovo Testamento, che leggiamo la massima: "Un governante che investa di una carica un uomo quando nei suoi domini ve n'è un altro a essa più idoneo pecca contro Dio e contro lo Stato". Quel minimo di riconoscimento che il concetto di obbligo verso i cittadini ha nella morale moderna deriva da fonti greche e romane, non cristiane; e ugualmente, anche nella morale privata, i concetti di magnanimità, nobiltà d'animo, dignità personale, persino di senso dell'onore, risalgono alla parte puramente umana della nostra educazione, non a quella religiosa, e non si sarebbero mai potuti sviluppare da criteri etici che riconoscono esplicitamente un unico valore, l'obbedienza. Sarei l'ultimo a sostenere che questi difetti sono necessariamente inerenti all'etica cristiana, indipendentemente dal modo in cui è concepita, o che i molti requisiti di una dottrina morale completa che non possiede siano con essa inconciliabili: e ancor meno lo insinuerei sulla base dei precetti e delle dottrine propri di Cristo. Credo che i detti di Cristo siano esattamente ciò che, da quanto sappiamo, egli intendeva fossero; che non siano inconciliabili con nessuno dei requisiti di una morale completa; che tutto ciò che nobilita l'etica possa esservi ricondotto senza dover sforzarne il linguaggio più di quanto abbiano fatto tutti coloro che hanno cercato di dedurne qualsiasi sistema di norme pratiche. Ma è del tutto coerente credere anche che contengano, e originariamente intendevano contenere, solo parte della verità; che molti elementi essenziali della morale più elevata sono tra le cose di cui non si occupano, né intendevano occuparsi, i detti del fondatore del Cristianesimo giunti fino a noi; che tali elementi sono stati completamente esclusi dal sistema etico costruito sulla base di questi detti dalla chiesa cristiana. Stando così le cose, ritengo un grave errore persistere a cercare nella dottrina cristiana quella norma completa per la nostra vita che il suo Autore voleva riaffermare e far valere, ma solo in parte delineare con le sue parole. Credo inoltre che questa ottusa teoria stia diventando gravemente dannosa nella pratica, in particolare nella formazione e istruzione morale che tante persone benintenzionate stanno oggi cercando con grandi sforzi di favorire. Temo molto che il tentativo di formare intelletto e sentimenti secondo una tipologia esclusivamente religiosa che respinge quei criteri laici (li chiamiamo così in mancanza di termini migliori) che fino a oggi hanno coesistito e collaborato con l'etica cristiana in un mutuo scambio spirituale, darà, anzi dà già, come risultato, dei caratteri bassi, abietti e servili che, per quanto sottomessi a ciò che ritengono la Volontà Suprema, sono incapaci di comprendere o di apprezzare il concetto di Bene Supremo. Credo che se si vuole la rigenerazione morale dell'umanità, etiche diverse da quelle di derivazione esclusivamente cristiana debbano coesistere con la morale cristiana; e che il sistema cristiano non costituisca un'eccezione alla regola secondo cui in uno stadio imperfetto dello sviluppo intellettuale umano gli interessi della verità esigono la presenza di opinioni diverse. Non è necessario che gli uomini, smettendo di ignorare le verità morali non contenute nella dottrina cristiana, ignorino alcuna di quelle che contiene. Ignoranze o pregiudizi del genere sono sempre e incondizionatamente un male, che però non possiamo sperare di evitare sempre e dobbiamo considerare il prezzo di un bene inestimabile. Si deve protestare contro la pretesa esclusiva di una parte della verità a essere considerata la verità intera; e, se chi protesta per reazione diventa a sua volta ingiusto, questa unilateralità, come l'altra, può essere deplorata ma va tollerata. Se i cristiani vogliono insegnare ai pagani a essere giusti verso il Cristianesimo, devono essere giusti verso il paganesimo. Non giova alla verità il tentativo di occultare il fatto, noto a chiunque abbia una minima conoscenza della storia della letteratura, che una buona parte degli insegnamenti morali più nobili e validi è dovuta non solo a uomini che ignoravano la fede cristiana, ma a uomini che la conoscevano e la rifiutavano. Non pretendo che l'esercizio più incondizionato della libertà di enunciare tutte le opinioni possibili possa por fine ai mali del settarismo religioso o filosofico. Ogni verità propugnata da uomini di mentalità ristretta sarà certamente asserita, inculcata, e persino applicata come se al mondo non ne esistesse altra, o comunque non ne esistesse alcuna che possa limitarla o precisarla. Riconosco che la più libera discussione non cura la tendenza di tutte le opinioni a diventare settarie, e anzi spesso la acuisce e esacerba; la verità che si sarebbe dovuta vedere ma non si è vista viene rifiutata tanto più violentemente perché è asserita da persone considerate oppositori. Ma non è tanto sul sostenitore appassionato, quanto sul testimone più calmo e disinteressato che questo contrasto di opinioni opera un effetto salutare. Il male più temibile non è il violento conflitto tra parti diverse della verità, ma la silenziosa soppressione di una sua metà; finché la gente è costretta ad ascoltare le due opinioni opposte c'è sempre speranza; è quando ne ascolta una sola che gli errori si cristallizzano in pregiudizi, e la verità stessa cessa di avere effetto perché l'esagerazione la rende falsa. E poiché poche qualità mentali sono più rare della facoltà che permette di giudicare intelligentemente tra due visioni contrapposte di una questione, di cui una sola ha un difensore, le probabilità di vittoria della verità sono proporzionali alla misura in cui ciascun suo aspetto, ciascuna opinione che ne esprima una pur minima parte, non solo trova chi la difende, ma viene attivamente difesa e ascoltata. Abbiamo quindi riconosciuto la necessità, ai fini del benessere mentale dell'umanità (da cui dipende ogni altra forma di benessere), della libertà di opinione e della libertà di espressione, per quattro distinte ragioni che ora ricapitoleremo brevemente: In primo luogo, ogni opinione costretta al silenzio può, per quanto possiamo sapere con certezza, essere vera. Negarlo significa presumere di essere infallibili. In secondo luogo, anche se l'opinione repressa è un errore, può contenere, e molto spesso contiene, una parte di verità; e poiché l'opinione generale o prevalente su qualsiasi questione è raramente, o mai, l'intera verità, è soltanto mediante lo scontro tra opinioni opposte che il resto della verità ha una probabilità di emergere. In terzo luogo, anche se l'opinione comunemente accettata è non solo vera ma costituisce l'intera verità, se non si permette che sia, e se in effetti non è, vigorosamente e accanitamente contestata, la maggior parte dei suoi seguaci l'accetterà come se fosse un pregiudizio, con scarsa comprensione e percezione dei suoi fondamenti razionali. Non solo, ma, quarto, il significato stesso della dottrina rischierà di affievolirsi o svanire, e perderà il suo effetto vitale sul carattere e il comportamento degli uomini: come dogma, diventerà un'asserzione puramente formale e priva di efficacia benefica, e costituirà un ingombro e un ostacolo allo sviluppo di qualsiasi convinzione, reale e veramente sentita, derivante dal ragionamento o dall'esperienza personale. Prima di abbandonare la questione della libertà di opinione, è bene dedicare qualche parola a chi afferma che la libera espressione di tutte le opinioni va consentita a condizione che si discuta educatamente, senza oltrepassare i limiti della moderazione. Vi sarebbero molte ragioni per sostenere che è impossibile definire questi presunti limiti: poiché se il criterio di definizione è l'offesa a coloro le cui opinioni vengono attaccate, ritengo per esperienza che essi si offendano ogni volta che l'attacco è vigoroso e va a segno, e che ogni oppositore che li incalzi e renda loro difficile replicare sembri smodato se ha idee chiare e le difende. Ma questa considerazione, anche se importante sotto l'aspetto pratico, rientra in un'obiezione più fondamentale. Senza dubbio il modo in cui si asserisce un'opinione, anche se vera, può essere molto sgradevole e venire giustamente e severamente riprovato. Ma in questa sfera le scorrettezze principali sono di tale natura che è quasi impossibile dimostrarle, a meno che chi le commetta non si tradisca accidentalmente. Le scorrettezze più gravi sono: argomentare per sofismi, nascondere fatti o argomenti, esporre la questione in modo inesatto, o travisare l'opinione avversa. Ma questi atti di slealtà vengono così continuamente commessi in perfetta buona fede, anche nelle forme più gravi, da persone che non sono considerate – per molti altri aspetti giustificatamente – ignoranti o incompetenti, che di rado si può dichiarare fondatamente e in piena coscienza che la deformazione della verità in questione è moralmente riprovevole; ancor più è impensabile che la legge interferisca in controversie riguardanti scorrettezze di questo tipo. Per quanto concerne ciò che comunemente si intende per discussione smodata – invettive, sarcasmi, attacchi personali e così via – la denuncia di questi mezzi riceverebbe più simpatie se si proponesse di vietarne l'impiego a entrambi i contendenti: ma ciò che si vuole evitare è che vengano usati contro l'opinione dominante; contro quella minoritaria non solo possono essere impiegati senza attirare la disapprovazione generale, ma spesso chi li usa viene lodato per il suo onesto zelo e la sua giusta indignazione. E tuttavia i danni derivanti dall'uso di tali mezzi sono maggiori quando i bersagli sono relativamente indifesi; e ogni tipo di vantaggio sleale derivante da questo stile di argomentazione è quasi esclusivamente un vantaggio per l'opinione comunemente accettata. In una polemica, la peggiore scorrettezza di questo genere consiste nel bollare gli oppositori come malvagi e immorali. Coloro che sostengono qualsiasi opinione impopolare sono particolarmente esposti a simili calunnie, perché in generale sono pochi e privi d'influenza e a nessuno, salvo che a loro, interessa particolarmente che venga loro resa giustizia. Ma quest'arma è, per la sua stessa natura, negata a coloro che attaccano un'opinione dominante: non possono correre il rischio di usarla e, comunque, se la impiegassero, si limiterebbe a ritorcersi contro la loro causa. In generale, le opinioni minoritarie possono sperare di essere ascoltate solo usando un linguaggio studiatamente moderato e evitando con ogni cura di offendere inutilmente chiunque, pena la perdita di terreno a ogni minima deviazione da questa linea; mentre, impiegato dal lato dell'opinione prevalente, il vituperio più scatenato è un deterrente reale, che distoglie la gente dal professare opinioni non conformiste e dall'ascoltare chi le professa. Di conseguenza, ai fini della verità e della giustizia, è molto più importante che venga represso questo secondo tipo di invettiva; e per esempio, se la scelta si ponesse, sarebbe molto più necessario scoraggiare gli attacchi calunniosi al paganesimo che alla religione cristiana. È comunque ovvio che non è compito della legge o dell'autorità scoraggiare nessuno dei due, mentre l'opinione dovrebbe, caso per caso, pronunciarsi sulla base delle circostanze specifiche – condannando chiunque, da qualunque parte stia, il cui modo di argomentare manifesti insincerità, malignità, fanatismo o sentimenti di intolleranza; ma non deducendo queste pecche dall'opinione di chi viene giudicato, anche se è opposta alla nostra; e lodando, come merita, chiunque, da qualunque parte stia, sia così sereno da vedere, e così onesto da descrivere, i suoi oppositori e le loro opinioni come sono in realtà, senza esagerazioni che li discreditino e menzionando tutti gli elementi che sono o possono essere a loro favore. Questa è la vera morale del dibattito pubblico: e anche se spesso viene violata, sono lieto di pensare che molti polemisti la rispettano in larga misura, e molti di più si sforzano coscienziosamente di rispettarla.III DELL'INDIVIDUALITA' COME ELEMENTO
Abbiamo stabilito le ragioni che rendono imperativo che gli uomini siano liberi di formarsi le loro opinioni e di esprimerle senza riserve; e stabilito anche quali sono le sventurate conseguenze per la natura intellettuale dell'uomo, e attraverso di essa per quella morale, se questa libertà non viene concessa o affermata nonostante i divieti. Consideriamo ora se le stesse ragioni non richiedono che gli uomini siano liberi di agire secondo le proprie opinioni – di applicarle nella loro vita senza essere ostacolati, fisicamente o moralmente, dai loro simili, purché lo facciano a loro esclusivo rischio e pericolo. Quest'ultima condizione è ovviamente indispensabile. Nessuno pretende che le azioni debbano essere libere quanto le opinioni. Al contrario, anche le opinioni perdono la loro immunità quando le circostanze in cui vengono espresse sono tali da rendere tale espressione un'istigazione esplicita a un atto delittuoso. L'opinione che i mercanti di grano sono degli affamatori dei poveri, o che la proprietà privata è un furto, non dovrebbe essere molestata se viene semplicemente diffusa per mezzo della stampa, ma può incorrere in una giusta punizione se viene proferita di fronte a una folla eccitata riunitasi davanti alla casa di un mercante di grano, o viene esibita tra la stessa folla sotto forma di cartello. Gli atti di qualunque tipo che senza causa giustificata danneggino altri possono essere controllati, e nei casi più importanti devono assolutamente esserlo, dai sentimenti a essi sfavorevoli, e, quando sia necessario, dall'intervento attivo degli uomini. La libertà dell'individuo deve avere questo limite: l'individuo non deve creare fastidi agli altri. Ma se evita di molestare gli altri nelle loro attività, e si limita a agire secondo le proprie inclinazioni e il proprio giudizio nell'ambito che lo riguarda, le stesse ragioni che dimostrano che l'opinione deve essere libera provano anche che gli si deve consentire, senza molestarlo, di mettere in pratica le proprie opinioni a proprie spese. Gli uomini non sono infallibili; le loro verità sono per la maggior parte delle mezze verità; l'unanimità, a meno che non sia il risultato del più completo e libero confronto di opinioni opposte, non è auspicabile, e la diversità non sarà un male ma un bene fino a quando gli uomini non saranno molto più capaci di riconoscere tutti gli aspetti della verità: questi principi sono applicabili alle azioni altrettanto che alle opinioni. Come è utile che fino a quando l'umanità non sarà perfetta vi siano differenze d'opinione, così lo è che vi siano differenti esperimenti di vita; che le diverse personalità siano lasciate libere di esprimersi, purché gli altri non ne vengano danneggiati; e che la validità di modi di vivere diversi sia verificata nella pratica quando lo si voglia. In breve, è auspicabile che l'individualità sia libera di affermarsi nella sfera che non riguarda direttamente gli altri. Quando la norma di condotta non è il carattere individuale ma le tradizioni o le consuetudini degli altri, viene a mancare uno dei principali elementi della felicità umana, e l'elemento sicuramente principale del progresso individuale e sociale. La difficoltà maggiore che si incontra nell'affermazione di questo principio non risiede nella determinazione dei mezzi necessari per raggiungere un fine riconosciuto, ma nell'indifferenza generale nei confronti del fine stesso. Se la gente si rendesse conto che il libero sviluppo dell'individualità è uno degli elementi fondamentali del bene comune; che non solo è connesso a tutto ciò che viene designato da termini come civiltà, istruzione, educazione, cultura, ma è di per se stesso parte e condizione necessaria di tutte queste cose, non vi sarebbe il pericolo che la libertà venisse sottovalutata, e la definizione dei confini tra essa e il controllo sociale non presenterebbe enormi difficoltà. Ma il male è che comunemente il valore intrinseco della spontaneità individuale – il fatto che è di per se stessa degna di considerazione – è a malapena riconosciuto. I più, soddisfatti della vita così come è (perché sono loro a renderla così come è) non riescono a capire perché non debba andar bene a tutti; e, ciò che più conta, la spontaneità non fa parte dell'ideale della maggioranza dei riformatori morali e sociali, ed è anzi guardata con sospetto, come un ostacolo fastidioso e forse ribelle all'accettazione generale di ciò che essi giudicano più opportuno per l'umanità. Poche persone al di fuori della Germania riescono a comprendere il significato della dottrina a cui Wilhelm von Humboldt, studioso e uomo politico così eminente, dedicò un trattato – che "il fine dell'uomo, o ciò che è prescritto dai dettati eterni o immutabili della ragione, non suggerito da desideri vaghi e passeggeri, è il più elevato e armonioso sviluppo dei suoi poteri in un'unità completa e coerente"; che quindi, lo scopo "a cui ciascun essere umano deve costantemente tendere i suoi sforzi, e su cui debbono sempre concentrarsi coloro che cercano di esercitare un influsso sui propri simili, è l'individualità del potere e dello sviluppo"; che ciò richiede due elementi, "la libertà, e la varietà delle situazioni"; e che dalla loro unione nascono "il vigore individuale e la molteplice diversità", che si combinano nella "àoriginalit ". Tuttavia, per quanto poco gli uomini siano abituati a dottrine come quella di von Humboldt, e per quanto possano sorprendersi del valore che attribuisce all'individualità, la questione può soltanto essere questione di grado: nessuno pensa che la migliore condotta possibile sia di non fare assolutamente altro che copiarsi a vicenda. Nessuno affermerebbe che gli uomini non dovrebbero esprimere in alcuna misura il proprio giudizio o il proprio carattere individuale nel loro modo di vivere e nella condotta dei loro affari. D'altra parte, sarebbe assurdo pretendere che gli uomini debbano vivere come se prima che venissero al mondo tutto fosse stato completamente ignoto; come se l'esperienza non avesse ancora indicato in una certa misura che un dato modo di vivere o di comportarsi è preferibile a un altro. Nessuno nega che da giovani gli uomini debbano essere educati e addestrati a conoscere i risultati accertati dall'esperienza umana e a trarne vantaggio. Ma è privilegio, e giusta condizione, dell'uomo, una volta giunto alla pienezza delle sue facoltà, usare e interpretare l'esperienza a modo suo. Tocca a lui determinare in quale misura l'esperienza già acquisita sia opportunamente applicabile alle proprie circostanze e al proprio carattere. Le tradizioni e i costumi di altri uomini mostrano, in una certa misura, ciò che la loro esperienza ha loro insegnato: sono prove indiziarie, e in quanto tali vanno rispettate. Ma, innanzitutto, la loro esperienza può essere troppo limitata, o possono non averla interpretata correttamente. In secondo luogo, la loro interpretazione può essere corretta ma non adattarsi alle esigenze di un dato individuo. In terzo luogo, anche se queste consuetudini sono sia positive in quanto tali sia adatte al caso particolare, tuttavia il conformarsi semplicemente alla consuetudine in quanto tale non educa o sviluppa nell'individuo le qualità che sono patrimonio caratteristico di un essere umano. Facoltà umane quali la percezione, il giudizio, il discernimento, l'attività mentale, e persino la preferenza morale, si esercitano soltanto nelle scelte. Chi fa qualcosa perché è l'usanza non opera una scelta, né impara a discernere o a desiderare ciò che è meglio. I poteri mentali e morali, come quelli muscolari, si sviluppano soltanto con l'uso. Facendo qualcosa soltanto perché gli altri la fanno non si esercitano queste facoltà, non più che credendo a qualcosa solo perché altri ci credono. Se i fondamenti su cui si basa un'opinione non convincono completamente la ragione individuale, quest'ultima non può essere rafforzata e anzi spesso viene indebolita dalla sua adozione. Analogamente se le motivazioni di un atto non sono consone ai sentimenti e al carattere di un individuo (in casi che non coinvolgano gli affetti, o i diritti altrui), compierlo contribuirà a renderli inerti e torpidi invece che attivi