domenica 12 aprile 2015

SØREN KIERKEGAARD ANTOLOGIA DI TESTI

la locandina originale della prima rappresentazione, a Praga, del Don Giovanni di Mozart

SØREN KIEKEGAARD

Aut-aut

Diario del seduttore

La malattia mortale

Timore e tremore

Aut-aut (1843)

Estetica ed etica nella formazione della personalità

Ma cosa vuol dire vivere esteticamente e cosa vuol dire vivere eticamente? Cosa è l'estetica nell'uomo, e cosa è l'etica? A ciò risponderò: l'estetica nell'uomo è quello per cui egli spontaneamente è quello che è; l'etica è quello per cui diventa quello che diventa. Chi vive tutto immerso, penetrato nell'estetica, vive esteticamente.

Non è mia intenzione approfondire lo studio di tutto quell'abbondante materiale che sta nella determinazione che ho data dell'estetica. Pare quasi superfluo voler illuminare su cosa sia il vivere estetico, proprio te che con tanto virtuosismo ne hai fatto pratica, son piuttosto io che avrei bisogno del tuo aiuto. Però voglio abbozzare alcuni stadi per giungere a poco a poco fino al punto in cui realmente è la dimora della tua vita, il che per me è importante perché tu non possa sfuggirmi con una delle tue predilette scappatoie. Inoltre non dubito di essere in grado di illuminarti un poco anch'io intorno a ciò che sia il vivere estetico. Infatti, mentre manderei chiunque desiderasse vivere esteticamente da te, come dalla guida più fidata, non te

lo manderei se desiderasse comprendere, in senso più elevato, cosa sia il vivere estetico, poiché su ciò non saresti in grado di illuminarlo, proprio perché tu stesso sei in causa. Questo glielo può spiegare solo chi sta su di un gradino più elevato, chi vive eticamente. Forse, per un attimo, potresti sentirti tentato di mettermi in imbarazzo soggiungendo che nemmeno io potrei dargli una spiegazione degna di fede su quel che sia il vivere etico, perché anch'io sono in causa. Questo però mi darebbe soltanto l'occasione di una ulteriore spiegazione. Chi vive esteticamente non può dare della sua vita nessuna spiegazione soddisfacente, perché egli vive sempre solo nel momento, e ha una coscienza soltanto relativa e limitata di se stesso. Non è affatto mia intenzione negare che chi vive esteticamente, quando questa vita è al suo massimo, può esibire una quantità di doti spirituali, anzi, che queste devono perfino essere sviluppate in grado insolitamente intenso. Eppure l'esteta non possiede liberamente il suo spirito, manca di limpidezza. Cosí spesso si trovano degli animali in possesso di sensi molto più acuti, molto più intensi dell'uomo, ma sono legati all'istinto animalesco. Vorrei prender te come esempio.

Non ho mai negato le tue ottime doti spirituali, come potrai vedere dal fatto che molto spesso ti ho biasimato perché le hai usate male. Sei spiritoso, ironico, buon osservatore, dialettico, esperto nei piaceri, sai calcolare il momento, sei, secondo le circostanze, sentimentale o senza cuore, ma, con tutto questo, vivi sempre solo nel momento, la tua vita si disfa in una serie incoerente di episodi senza che tu possa spiegarla. Se uno vuole imparare l'arte di godere è giustissimo che vada da te, ma se desidera comprendere la tua vita, non si rivolge alla persona adatta. Forse troverà piuttosto da me quello che cerca, nonostante che io non sia affatto in possesso delle tue doti spirituali. Tu sei imprigionato, ed è quasi come se tu non avessi tempo di staccarti, io non sono imprigionato nel mio giudizio né intorno all'estetica né intorno all'etica. Nell'etica infatti io mi sollevo sopra il momento, e giungo alla libertà; ma è una contraddizione che si possa essere imprigionati nella libertà.

Ogni uomo, per quanto poco intelligente sia, per quanto bassa sia la sua posizione nella vita, ha un bisogno naturale di formarsi una concezione di vita, una rappresentazione del significato della vita e del suo scopo. Anche chi vive esteticamente fa questo, e l'espressione comune che, in ogni tempo ed in ogni diverso stadio, si è sempre sentita, è questa : bisogna godere la vita. Questa espressione naturalmente varia molto, poiché le idee intorno al godimento sono varie, ma sull'espressione che si deve godere la vita, tutti sono d'accordo. Ma chi scorge nel godimento il senso e lo scopo della vita, sottopone sempre la sua vita a una condizione che, o sta al di fuori dell'individuo, o è nell'individuo ma in modo da non essere posta per opera dell'individuo stesso. Ti prego, riguardo a quest'ultimo punto, di fissare bene in mente le espressioni, poiché sono state scelte con cura.

Ora passiamo brevemente in rassegna questi stadi per spingerci fino a te. Tu forse sei già un po' irritato per la formula generale colla quale ho tentato di definire la vita estetica, ma non potrai negarne l'esattezza. Assai spesso ti ho sentito deridere la gente che non capisce il godimento della vita, mentre invece tu credi di averlo raffinatamente capito. È possibile che non lo capiscano, ma nella cosa principale, nel voler godere, sono sul tuo stesso piano. Ora forse cominci a sospettare che in questo stadio verrai a trovarti in compagnia di persone che di solito ti sono abominevoli. Pensi forse che dovrei essere tanto galante da considerarti un artista, il quale è su di un piano infinitamente più elevato di quegli arruffoni che nella vita ti danno tanto fastidio e coi quali non desideri avere in nessun modo alcunché di comune. Pertanto non ti posso accontentare; poiché hai qualche cosa di comune con loro, e qualche cosa di molto essenziale — e cioè la concezione di vita, e quello per cui sei diverso da loro, ai miei occhi, è qualche cosa di non essenziale.

Non posso fare a meno di ridere di te; ecco, mio giovane amico, questa è la maledizione che ti segue: i tuoi molti fratelli d'arte che tu non intendi affatto riconoscere come tali. Tu corri il pericolo di entrare a far parte di una compagnia cattiva e volgare, tu che sei tanto aristocratico. Non nego che deve essere antipatico avere in comune la concezione di vita con un qualsivoglia gaudente e con un cacciatore qualunque. Non arrabbiarti, il tuo caso forse non è identico al loro, poiché tu, in un certo senso, stai al di fuori del campo estetico.

Per quanto grandi possano essere le differenze entro il campo estetico, pure tutti gli stadi concordano essenzialmente nel fatto che lo spirito non è in essi determinato come spirito, ma determinato immediatamente. Le differenze potranno essere ragguardevoli, dalla completa mancanza di spirito fino al più alto grado di spiritualità, ma anche nello stadio dove brilla la spiritualità, lo spirito non è determinato come spirito, ma come dono di natura. Voglio caratterizzare ogni singolo stadio molto brevemente, e fermarmi più a lungo solo su quanto possa in qualche modo essere adatto a te o su ciò che desidererei ti servisse. La personalità immediatamente determinata non è spirituale, ma fisica. Qui abbiamo una concezione di vita che insegna che la salute è il bene più prezioso, quello intorno al quale ruota tutto il resto. Questa concezione ha un'espressione più poetica se si dice : la bellezza è il valore più alto. Ma la bellezza è un bene molto labile, e perciò è raro che si veda questa concezione di vita tradotta in realtà. Abbastanza sovente s'incontrano delle fanciulle o dei giovani che per un breve tempo puntano sulla loro bellezza, ma ben presto essa li tradisce. Però ricordo che una volta l'ho vista tradotta in realtà, in un caso raro e fortunato.

Quando ero studente, frequentavo spesso, durante le ferie, una casa di conti in provincia. Il conte, in passato, aveva tenuto una carica diplomatica, ora, essendo più anziano, viveva agiatamente nella quiete campestre del suo castello. La contessa, da ragazza, era stata straordinariamente bella, ed anche da anziana era la più bella signora che io avessi mai visto. Da giovane il conte, colla sua maschia bellezza, aveva avuto grandi successi presso il bel sesso; alla corte si ricordava ancora il bellissimo gentiluomo. L'età non lo aveva incurvato ed una nobile genuina dignità aristocratica lo rendeva ancor più bello. Chi li aveva conosciuti nella loro gioventù, assicurava che era stata la coppia più splendida che avesse mai visto, ed io, che ebbi la fortuna di conoscerli nella loro vecchiaia, trovavo che fosse verissimo, perché erano ancora la coppia più bella che si potesse immaginare.

Tanto il conte quanto la contessa avevano una fine educazione, eppure la concezione di vita della contessa si riassumeva nel pensar che fossero la più bella coppia di tutto il paese. Ricordo ancora benissimo un fatto che me ne accertò. Era una domenica mattina, nella chiesa situata vicino al castello si celebrava una piccola funzione. La contessa era stata un po' indisposta e non si arrischiava ad uscire. Il conte invece vi si recò, vestito in tutta pompa, colla sua uniforme di gentiluomo di corte, adorna di ordini. Le finestre della grande sala erano rivolte verso il viale che conduceva alla chiesa. La contessa stava presso una di esse; vestiva un elegante abito da mattina ed era veramente deliziosa. Mi ero informato della sua salute ed avevo intavolato con lei una conversazione intorno allo sport della vela, che sarebbe stato praticato il giorno seguente, quando il conte si mostrò in fondo al viale. Essa tacque, divenne più bella di quanto avessi mai visto, assunse una

espressione quasi triste — il conte si era avvicinato tanto da vederla alla finestra — ella gli gettò un bacio con grazia e dignità, poi si volse verso me e mi disse: « Non è vero, Guglielmo, che il mio Ditlev è proprio l'uomo più bello di tutto il regno! A dire la verità è un pochino curvo da una parte, ma nessuno se ne accorge quando cammino con lui, e, quando siamo insieme, siamo ancora la coppia più bella di tutto il paese ». Nessuna giovinetta di quindici anni avrebbe potuto essere più entusiasta del suo fidanzato, il bel peggio di corte, di quel che lo fosse Sua Grazia per il già attempato gentiluomo del re.

Entrambe le concezioni di vita concordano nel fatto che bisogna godere la vita; la condizione del godimento della vita sta nell'individuo, ma in modo che non è posta dall'individuo stesso. Andiamo avanti. Incontriamo concezioni di vita che insegnano che bisogna godere la vita, ma metterne la condizione al di fuori dell'individuo. Questo è il caso di ogni concezione di vita in cui ricchezza, onori, nobiltà, ecc. vengono elevati a compito e contenuto della vita. E rientra in questa categoria anche certo genere di amore.

Immaginiamo una fanciulla innamorata con tutta l'anima, i cui occhi non conoscano altra gioia che vedere l'amato, la cui anima non abbia altro pensiero che lui, il cui cuore non abbia altro desiderio che quello di appartenere a lui, per la quale nulla, nulla né in cielo né in terra, abbia importanza se non lui; ecco che abbiamo, di nuovo, una concezione di vita estetica, in cui la condizione è posta al di fuori dell'individuo stesso. Naturalmente tu troverai che è una sciocchezza amare in questo modo, penserai che è una cosa che si legge solo nei romanzi. Pertanto la si può pensare, ed è certo che a molti un amore come questo appare meraviglioso. Piú tardi ti spiegherò perché non lo approvo.

Andiamo avanti. Incontriamo una concezione di vita che insegna che dobbiamo godere la vita, ma la condizione di questo godimento la troviamo nell'individuo stesso, però in modo da non esser posta da lui. Qui in generale la personalità è determinata come talento. Si ha un talento pratico, talento mercantile, un talento matematico, un talento poetico, un talento artistico, un talento filosofico: la soddisfazione della vita, il godimento, è cercato nello sviluppo di questo talento. Forse non si rimarrà fermi al talento nella sua spontaneità, lo si educherà in tutti i modi, ma la condizione per la soddisfazione nella vita è il talento stesso, che è una condizione che non è posta dall'individuo. Le persone che hanno questa concezione di vita appartengono spesso a quelli che si solito sono oggetto dei tuoi scherni costanti, a causa della loro infaticabile attività. Tu stesso credi di vivere esteticamente ma non lo vuoi ammettere per loro. Innegabilmente hai un'altra concezione del godimento, ma questo non è l'essenziale, essenziale è voler godere la vita. La tua vita è assai più signorile della loro, ma la loro è anche molto più innocente della tua.

Tutti questi tipi di concezione estetica della vita si assomigliano anche per il fatto che danno alla vita una certa unità, una certa coesione; tutto infatti si aggira intorno a una cosa determinata. Essi costruiscono la loro vita su qualche cosa di particolare, e perciò non la disperdono, come coloro che costruiscono la loro vita su ciò che di per se stesso è molteplice. Cosi avviene in quella concezione di vita sulla quale mi soffermerò ora un po' più a lungo. Essa insegna : godi la vita, e spiega così il suo insegnamento : vivi il tuo desiderio. I desideri però in se stessi sono molteplici, e così è facile capire che questa vita si frantuma in una sconfinata molteplicità, ameno che nel singolo i desideri non siano concentrati fin dall'infanzia in un desiderio unico, che si potrebbe piuttosto chiamare inclinazione, propensione, ad esempio per la pesca, o per la caccia o per l'allevamento dei cavalli, ecc.

Siccome questa concezione di vita trova il suo soddisfacimento in una molteplicità, è facile vedere che essa sta nella sfera della riflessione; pertanto questa riflessione è sempre solo una riflessione finita e la personalità permane nella sua immediatezza. Nel desiderio l'individuo è immediato, e, per quanto il piacere sia raffinato, ricercato, studiato, l'individuo è pur sempre in esso come immediato. Chi gode è nel momento, e per quanto molteplice sia questo godimento, egli è sempre immediato, perché è nel momento. Pertanto vivere per soddisfare i propri desideri è una posizione molto raffinata nella vita, e, grazie a Dio, è raro vederla realizzata completamente, a causa delle difficoltà della vita terrena che danno altro da pensare all'uomo. Se non fosse così, non dubito che saremmo spessissimo testimoni di questa orribile commedia : perché, certo, si sente molto spesso la gente lamentarsi della vita prosaica, il che, purtroppo, spesso non significa altro se non che essi aspirano a gettarsi nella selvaggia turbolenza in cui il piacere può precipitare l'uomo. Infatti perché questa concezione di vita possa realizzarsi bisogna che l'individuo sia in possesso di una quantità di condizioni esteriori, e questa fortuna, o piuttosto sfortuna, è raro sia concessa ad un uomo : questa sfortuna, poiché è certo che questo dono non viene dagli dei della grazia, ma dagli dei dell'ira.

È poco frequente veder tradotta in realtà questa concezione di vita in maniera degna di nota; invece non è raro vedere della gente che brancola un po’ e poi, quando le condizioni vengon meno, pensa che, se le condizioni fossero state in loro potere, avrebbe certo raggiunto quella felicità e quella gioia a cui aspirava nella vita. …

Una intelligenza pronta comprende facilmente che tale concezione non può essere tradotta in realtà, e che perciò non vale nemmeno la pena di fare il tentativo; un egoismo raffinato comprende che in questo modo si viene privati del culmine del piacere. Abbiamo poi una concezione di vita che insegna : godi la vita, e si esprime cosí : godi te stesso; nel godimento devi godere te stesso. Questa è una riflessione più elevata. Però essa naturalmente non penetra nella personalità stessa, che continua a rimanere nella sua casuale immediatezza. La condizione per il godimento è anche qui l'esteriore che non è in potere dell'individuo; infatti benché egli, come afferma, goda se stesso, egli gode solo se stesso nel godimento, ma questo godimento è legato a una condizione esteriore. La differenza dunque è solo nel fatto che egli gode in modo riflesso e non immediato. Pertanto anche questo epicureismo dipende da una condizione esterna che non è in suo potere.

Un'intelligenza indurita e spavalda consiglia la scappatoia: godi te stesso, respingendo sempre da te le condizioni. Ma è naturale che chi gode se stesso respingendo le condizioni dipende da esse come colui che le gode. Deve pur averle per poter godere del fatto di buttarle via. La sua riflessione ritorna sempre in lui, e poiché il suo godimento consiste nell'avere il godimento il minor contenuto possibile, è come se egli svuotasse se stesso, poiché, naturalmente, una riflessione come questa che ha di mira solo il finito, non è in grado di aprire la personalità.

Con queste considerazioni credo di aver abbastanza chiaramente tracciato il territorio della concezione estetica; tutti gli stadi hanno in comune che si vive per ciò che immediatamente si è; poiché la riflessione non giunge mai tanto in alto, da

oltrepassare questo limite. È solo un fugacissimo accenno che ti presento, ma non desideravo nemmeno fare di più; per me non sono importanti i diversi stadi, ma

solo il movimento che si deve necessariamente compiere per trarsene fuori, come ti

dimostrerò, ed è su di esso che ti prego di fermare la tua attenzione.

Suppongo, per usare una tua espressione, che colui che viveva per la sua salute

fosse sano come non mai il giorno della sua morte; che quando quei conti ballarono

nel giorno delle loro nozze d'oro, un mormorio d'ammirazione attraversasse la sala,

proprio come quando ballarono al loro matrimonio; suppongo che le miniere d'oro

del ricco siano inesauribili, che onore e gloria accompagnino il cammino della vita

del fortunato; suppongo che la fanciulla sposi colui che ama, che chi ha del talento

mercantile abbracci tutte cinque le parti del mondo colle sue relazioni e tenga tutte

le borse del mondo nella propria borsa, che il talento meccanico congiunga la terra

al cielo, .. . che l'astuto epicureo possa ogni momento deliziarsi di se stesso, che il

cinico abbia sempre qualche bene da gettare lungi da sé per rallegrarsi della propria

leggerezza — questo suppongo, e così tutti costoro saranno felici. Tu non puoi

giudicare cosí, ma credo che ammetterai che molti pensano così, anzi alcuni

immaginano di aver detto una cosa particolarmente intelligente aggiungendo che

quello che manca a costoro è di saper apprezzare la loro felicità. Ora voglio

percorrere il cammino inverso. Nulla di tutto questo

accade. E allora? Disperano. Tu non lo faresti, forse diresti che non ne vale la pena.

Perché tu non voglia ammettere la disperazione, te lo spiegherò più tardi; qui esigo

solo che tu ammetta che una gran parte di uomini troverebbe che è il caso di

disperare. Guardiamo ora perché disperano. Perché hanno scoperto che quello su

cui avevano costruita la loro vita era effimero? Ma è questa una ragione per

disperare? È avvenuto un cambiamento sostanziale in quello su cui avevano

costruita la loro vita? È un cambiamento sostanziale dell'effimero che questo si

mostri come effimero? Non è piuttosto qualche cosa di casuale e di non essenziale

il fatto che esso non si mostri nella sua caducità? Non è intervenuto nulla di nuovo

che potesse giustificare un cambiamento. Ora siccome disperano, sarà perché

disperavano anche prima. La differenza è solo che prima non lo sapevano, ma

questa è una differenza del tutto casuale. Appare dunque che ogni concezione

estetica della vita è disperazione, e che chiunque vive esteticamente è disperato,

tanto se lo sa quanto se non lo sa. Ma quando lo si sa, e tu lo sai, una forma più

elevata di esistenza è una esigenza imperiosa.

Voglio ora, in due parole, giustificare il mio giudizio sulla fanciulla e sul suo

amore. Saprai che, nella mia qualità di marito, in ogni occasione ho l'abitudine,

tanto a voce come per iscritto, di lodare contro te la realtà dell'amore, e anche qui

mi atterrò alla mia abitudine, per eliminare ogni equivoco. Una persona

intelligente, in senso finito, sarebbe forse un pò titubante di fronte a un tale amore;

forse ne vedrebbe la fragilità ed esprimerebbe così la sua meschina saggezza con la

formula opposta : amami poco ma amami a lungo. Come se tutta la sua saggezza di

vita non fosse ancor più fragile, o almeno molto più meschina di quell'amore!

Comprenderai facilmente che io non potrei che disapprovarlo. Nel campo

dell'amore mi ripugna fare esperimenti psicologici : ho amato una volta sola, e

sono, ancora e sempre, infinitamente felice di questo amore. Non posso immaginare

d'essere amato da altra donna che quella alla quale sono legato, se non nel

modo in cui essa mi rende tanto felice, ma tenterò ugualmente di farlo.

Supponiamo dunque, in qualunque modo sia accaduto, che io sia diventato oggetto

di un tale amore. Non mi renderebbe felice ed io non lo accetterei mai. Non perché

lo disdegnerei (Dio sa se non preferirei avere sulla coscienza un assassinio

piuttosto che aver mortificato l'amore di una fanciulla); ma non lo permetterei per

amore di lei. «Desidero esser amato da tutti »; per conto mio, desidero essere amato

da mia moglie tanto intensamente quanto è umanamente possibile, e soffrirei se

non fossi amato cosí; ma non desidero altro, non permetterei che l'animo di

qualcuno dovesse soffrire danno per causa mia; l'amerei troppo per permettere che

avvilisse se stesso. Per un animo orgoglioso v'è qualche cosa di seducente

nell'essere amato così, e v'è qualcuno che conosce l'arte di sedurre una fanciulla tanto bene da farle dimenticar tutto per amor suo — alle responsabilità che assumono pensino loro. Di solito le fanciulle vengono punite anche troppo di

questo, ma è ripugnante permettere che esse si innamorino così. Vedi perciò dissi e

ripeto che la fanciulla era egualmente infelice, tanto se ebbe il suo amato quanto se

non lo ebbe; poiché era una circostanza casuale che colui che essa amava fosse una

persona onesta, che l'aiutasse ad uscire dallo smarrimento del suo cuore; e anche se

i mezzi che egli usò a questo scopo furono molto duri, nondimeno dirò che egli agì

onestamente, lealmente, fedelmente, e cavallerescamente con lei.

Ora abbiamo visto che ogni concezione di vita estetica è disperazione; potrebbe

perciò parere giusto intraprendere il movimento col quale viene a galla l'etica. Però

rimane ancora uno stadio, una concezione di vita estetica, la più fine ed

aristocratica di tutte, e la voglio discutere nel modo più accurato: perché ora viene

la volta tua. A tutto quello che ho svolto finora puoi tranquillamente assentire, e, in

un certo modo, non è per te che ho parlato e anche approderebbe a poco parlar cosí

con te o dirti che la vita è vanità. Lo sai benissimo anche tu ed hai cercato di

aiutarti alla tua maniera. Ho esposto tutto questo perché voglio avere le spalle al

sicuro, voglio prevenire una tua fuga improvvisa. Quest'ultima concezione di vita è

la disperazione stessa. È una concezione di vita estetica, poiché la personalità

rimane nella sua immediatezza: è l'ultima concezione di vita estetica, poiché in un

certo senso ha accolto in sé la coscienza della nullità di se stessa. Intanto vi è

differenza tra disperazione e disperazione. Si può esser disperati per la perdita di

una cosa singola, nella quale l'individuo fa consistere tutto il valore della vita. Se

questo singolo bene viene ridonato, allora cessa la disperazione. Un artista, per

esempio un pittore, che diventi cieco, se in lui non v'è qualche cosa di più

profondo, forse dispererebbe. Dispererebbe dunque per questo singolo fatto, e se la

vista gli ritornasse, la sua disperazione cesserebbe. Non è il caso tuo, hai troppe

doti spirituali, e la tua anima in un certo senso è troppo profonda perché questo ti

possa accadere. Né si sono mai verificate circostanze simili. Tu hai pur sempre in

tuo potere tutte le condizioni per una vita estetica, hai una sostanza, sei indipendente,

la tua salute è perfetta, il tuo spirito è rigoglioso e non hai ancora sofferto

perché una fanciulla non ti ha voluto amare. Eppure sei disperato. Non è una

disperazione attuale, per una realtà, ma una disperazione potenziale, per ogni

possibilità della vita. Il tuo pensiero ha precorso la vita, hai penetrato la vanità di

tutto, ma non sei giunto più in là. All'occasione ti sprofondi nella vita, e mentre in

un momento ti abbandoni al godimento, nello stesso tempo ti rendi consapevole

che ogni cosa è vana. Così sei costantemente al di fuori di te stesso, cioè nella

disperazione. Questo fa si che la tua vita sta tra due enormi contraddizioni: a volte

hai una straordinaria energia, a volte una indolenza altrettanto grande.

Altre volte ho notato nella vita che quanto più prezioso è il fluido col quale gli

uomini si inebriano, tanto più difficile è la loro guarigione. Quanto più raffinata

l'ebbrezza tanto meno corruttrici sembrano le apparenze. Chi si ubriaca di

acquavite si accorge presto delle conseguenze nefaste, e si può sperare nella sua

salvezza. Chi invece beve champagne è più difficile da guarire. E tu? Tu hai scelto

il mezzo più fine; perché nessuna ebbrezza è bella quanto la disperazione, nessuna

è cosí decorativa, esercita tanto fascino, specialmente agli occhi delle fanciulle, (e

ne sei molto bene informato) sopratutto quando contemporaneamente si possiede

l'arte di saper reprimere le espressioni più incolte, permettendo che la disperazione

venga solo presentita come un incendio lontano e traspaia solo segretamente. Essa

dà un leggero tocco al cappello ed al portamento di tutto il corpo; lo sguardo

diviene orgoglioso e ribelle; il labbro sorride arrogante. Essa dà una indescrivibile

leggerezza alla vita, una regale superiorità su tutto. E quando una figura simile si

avvicina a una fanciulla, quando questo essere cosí orgoglioso si inchina solo

davanti a lei, per lei sola tra tutti, essa si sente adulata, e, peggio ancora, vi

potrebbe essere una fanciulla tanto innocente da credere a questo inchino. Non è

vergognoso che un uomo cosí... — ma no! non voglio farti una ramanzina, ti farei

soltanto arrabbiare, ho mezzi più potenti : ho il giovane pieno di speranze che forse è innamorato e viene da te; si è ingannato sul tuo conto, crede che tu sia una persona fidata e leale, vuole consigliarsi con te. Tu in realtà dovresti chiudere la porta a ogni giovane fatale come questo, ma il tuo cuore non lo puoi chiudere, e

anche se non desideri che egli sia testimone della tua umiliazione, non per questo

essa mancherà, poiché tanto corrotto non sei e quando ti trovi solo con te stesso la

tua bonomia è forse più grande di quanto si creda.

Ora, riguardo alla tua concezione, credimi, molte cose nella tua vita ti diverranno

chiare, quando con me la considererai come una forma di disperazione intellettuale.

Tu detesti ogni attività nella vita; molto bene; infatti, affinché questa abbia un

significato, la vita deve avere una continuità, che nella tua vita manca. Tu ti occupi

dei tuoi studi, è vero, sei anche assiduo; ma per te è sole un piacere, e non fissi

nessuno scopo al tuo studio. Per il resto sei libero, te ne stai ozioso sulla piazza

come i lavoratori dell'evangelo e colle mani in tasca osservi la vita. Sei

completamente tranquillo nella disperazione; nulla ti occupa, non ti scansi da nulla

« anche se buttassero giù delle tegole, dai tetti, non mi scosterei ». Sei come un

moribondo, muori ogni giorno, non nel senso profondo e grave che di solito ha

questa parola; piuttosto si direbbe che la vita ha perso per te la sua realtà. « Io

calcolo sempre la vita da un giorno di licenziamento all'altro. » Lasci che tutto ti

passi innanzi, nulla ti fa impressione. Poi improvvisamente arriva qualche cosa che

ti attira, un'idea, una situazione, il sorriso di una fanciulla, e stai all'erta. Perché,

mentre in certe occasioni non stai all'erta, altre volte stai all'erta, pronto a tutto.

Dovunque vi sia un avvenimento, ci sei anche tu. Nella vita ti comporti come nella

folla, « ti spingi fino nel folto, cerchi, se possibile, d'esser buttato sopra gli altri, in

modo da poter stare sopra, e, una volta lassù, cerchi di accomodarti meglio che

puoi; nello stesso modo ti fai portare attraverso la vita ». Ma quando la folla è

dileguata, quando l'avvenimento è finito, ti trovi di nuovo all'angolo della via a

guardare il mondo. Si sa che i moribondi hanno una energia sovrumana, e cosí è

anche per te. Se vi è un'idea da studiare, un'opera da leggere, un piano da eseguire,

una piccola avventura da vivere, perfino un cappello da comprare, tu ti butti nella

faccenda con un impeto straordinario. Secondo le circostanze, lavori senza tregua

un giorno, un mese, gioisci nell'accertarti di avere sempre la stessa pienezza di

forze, non ti riposi, « nessun diavolo ce la fa con te ». Se lavori con altri, lavori fino

a ridurli a stracci. Ma quando è trascorso il mese o il tempo che tu sempre consideri

come il massimo, i sei mesi, interrompi dicendo che ormai questa storia è finita; ti

ritiri e lasci che gli altri pensino al resto; e se sei stato solo nell'iniziativa, non ne

parli più con nessuno. Fai credere a te stesso e agli altri d'averne persa la voglia, e

ti lusinghi col vanitoso pensiero che avresti potuto continuare a lavorare colla

stessa intensità se solo ne avessi avuto voglia. Ma questo è un tradimento colossale.

Saresti riuscito a finire, come quasi tutti gli altri, se tu pazientemente l'avessi

voluto, ma nello stesso tempo avresti anche sperimentato che per far questo occorre

un tutt'altro genere di sopportazione di quella che hai tu. Cosí hai deluso te stesso, e

non hai imparato nulla per la vita avvenire. Qui ti posso servire con una piccola

informazione. Non sono all'oscuro di quanto sia traditore il nostro cuore, di quanto

sia facile tradire se stessi, specialmente quando si è, come te, maestri di quella

dialettica, che non solo dispensa ogni cosa, ma tutto sa annullare e scomporre.

Quando nella vita mi è accaduto qualcosa, quando ho preso una decisione che

temevo dovesse, coll'andar del tempo, prender per me un altro volto, quando ho

fatto qualcosa a cui temevo, coll'andar del tempo, di dover dare un'altra

interpretazione, spesso con poche e chiare parole ho scritto ciò che intendevo o

quello che avevo fatto e il perché. Quando poi ne sento il bisogno, quando la mia

decisione o la mia azione non sono vive davanti a me, prendo il mio scritto e mi

giudico. Ti parrà forse una pedanteria, una complicazione, e che non valga la pena

di far tante difficoltà. Non ti posso rispondere altro che questo : se non ne senti il

bisogno, se la tua coscienza è sempre così indefettibile e la tua memoria cosí

fedele, fanne pure a meno. Ma non lo credo affatto, perché la facoltà dello spirito

che veramente ti manca è la memoria, cioè, non la memoria per questa o quella co8

sa, per le idee, le facezie o i giochi dialettici, mi guardo bene da affermarlo, ma ti

manca la memoria per la tua vita intima, per quello che in essa hai vissuto. Se tu

l'avessi, lo stesso fenomeno nella tua vita non si ripeterebbe tanto sovente, essa non

mostrerebbe tanti di quelli che io chiamerei lavori di mezz'ora, perché li posso

chiamare cosí anche se hai impiegato mezz'anno per compierli, perché non li hai

finiti. A te piace illudere te stesso e gli altri. Se tu fossi sempre forte come lo sei nei

momenti di passione, saresti, non lo voglio negare, l'uomo più forte che io abbia

conosciuto. Ma non lo sei, anche tu lo sai abbastanza bene. Per questo che ti ritiri,

ti nascondi quasi a te stesso e ti torni a riposare nell'indolenza. Ai miei occhi, alla

cui osservazione non sempre puoi sfuggire, diventi quasi ridicolo pel tuo fervore

momentaneo e pel diritto che ti assumi di schernire gli altri. ... La forza che hai è la

forza della disperazione; è più intensa della comune forza umana, ma di contro

dura meno.

Tu aleggi sempre sopra te stesso, ma l'etere superiore, il sublime finissimo, nel

quale sei evaporato, è il nulla della disperazione. Ai tuoi piedi vedi una quantità di

scienze, nozioni, studi, osservazioni, le quali, purtroppo, non hanno alcuna realtà

per te; ne usufruisci, le combini a tuo capriccio, al solo scopo di addobbare, con

quanto buon gusto è possibile, quella villa di piacere del tuo spirito, nella quale, per

l'occasione, dimori. Non c'è dunque da meravigliarsi se per te l'esistenza è una

favola e «se spesso sei tentato a cominciare ogni discorso così : "c'era una volta un

re e una regina, che non potevano avere dei figli"; poi dimentichi ogni altra cosa

per osservare che questo fatto, strano a dirsi, nella favola è sempre ragione di

dolore per il re e la regina, mentre invece nella vita di tutti i giorni ci si addolora

perché si hanno dei figli; il che vien dimostrato dagli asili e da tutte le istituzioni

del genere. Ma poi ti viene l'idea che "la vita è un'avventura" ». Sei in grado di

spendere un intero mese solo per leggere avventure, ne fai uno studio profondo, fai

paragoni e prove ed il tuo studio non è senza frutto. Ma a che ti serve? Per divertire

il tuo spirito; dissipi tutto in un brillante fuoco d'artificio.

Aleggi sopra te stesso e quello che vedi sotto a te è una quantità di sensazioni e di

stati che adoperi per trovare contatti interessanti colla vita. Sai essere sentimentale,

spietato, ironico, spiritoso, bisogna riconoscere che in questo hai classe. Non

appena qualche cosa riesce a distoglierti dalla tua indolenza, con tutto il tuo ardore

sei in piena attività, e la tua attività non manca di arte, perché sei fin troppo fornito

di intelligenza, di agilità e di tutte le seducenti doti dello spirito. Non sei mai, come

ti esprimi con tanta compiacente ricercatezza, tanto poco galante da mostrarti senza

portare con te un mazzetto profumato e appena colto di arguti motti di spirito. Più ti

si conosce, più ci si stupisce dell'intelligenza calcolatrice che pervade tutto quello

che fai nel breve tempo che dura la tua passione; poiché la passione non ti acceca

mai, ti rende solo più avveduto. Dimentichi la tua disperazione e tutto ciò che di

solito aggrava il tuo animo e il tuo spirito. Sei occupato completamente dal casuale

contatto in cui ti trovi con una persona. Voglio ricordarti un fatterello che accadde

a casa mia. Probabilmente devo ringraziare le due giovani svedesi allora presenti

per la dissertazione che ci offristi. La conversazione aveva preso una piega

piuttosto seria ed era giunta ad un punto che non era piacevole per te; mi ero

espresso un pò vivacemente contro l'intempestivo rispetto per le doti spirituali che

è particolare della nostra epoca: avevo ricordato che è qualche cosa di

completamente diverso quello che importa, un certo fervore di tutto l'essere per il

quale la lingua non conosce altra espressione che la parola fede. Con ciò, forse, tu

venivi posto in una luce meno favorevole, e poiché certamente comprendesti che

per la via su cui avevi cominciato a incamminarti non potevi più andare avanti, ti

sentisti tentato a provarti in quella che tu stesso chiami follia superiore, ed

esclamasti in un tono sentimentale : « Forse che io non credo? Credo che nel più

profondo del solitario silenzio della foresta, dove gli alberi si specchiano nelle

acque cupe di uno stagno, nella oscura segretezza che regna anche a mezzogiorno,

là vive un essere, una ninfa, una fanciulla; credo che sia più bella di ogni

immaginazione; credo che di mattino intrecci corone, a mezzogiorno si bagni nelle fresche acque, e alla sera malinconicamente colga le foglie delle corone; credo che sarei felice, l'unico uomo che meriterebbe di esser chiamato così, se la potessi

prendere e possedere; credo che nel mio animo alberghi una nostalgia che scruta il

mondo e credo che sarei felice se questa potesse esser soddisfatta; credo sopratutto

che il mondo abbia un senso, se solo lo si sapesse trovare — ed ora non dite che non sono forte nella fede e ardente nello spirito! ». Forse tu credi che un discorso

come questo potrebbe renderti degno di diventar membro di un simposio greco;

poiché, tra l'altro, tu ti educhi per questo, tu ritieni sia una vita splendida trovarsi

ogni notte con giovanetti greci, sedere con una corona nei capelli inneggiando all'amore

o a quello che la fantasia vi ispira, anzi ti sacrificheresti completamente per

inneggiare. A me questo parlare sembra cosa da matti, per quanto artistico possa

essere, per quanto al momento faccia una certa impressione, specialmente quando

tu stesso lo esponi colla tua febbrile eloquenza; ma mi pare, anche, che sia

un'espressione del tuo stato d'animo turbato, poiché è naturalissimo che chi non

crede a nulla di tutto ciò a cui credono gli altri, creda a simili esseri misteriosi, cosí

come accade spesso nella vita che chi non teme nulla né in cielo né in terra, teme i

ragni. Qua sorridi, pensi che sono caduto in trappola, che ho davvero creduto che tu

credessi quello che eri più lontano dal credere di chiunque. E giustissimo, poiché le

tue dissertazioni finiscono sempre in assoluto scetticismo, ma per quanto

intelligente calcolatore tu sia, non puoi proprio negare che tu, per un attimo, scaldi

te stesso al calore malaticcio che emana da queste esaltazioni. Forse la tua

intenzione è quella di ingannare la gente, ma vi è un momento in cui tu, anche

senza rendertene conto, inganni te stesso.

Quello che dico dei tuoi studi vale anche per tutte le tue azioni. Tu sei nell'attimo, e

nell'attimo sei di una grandezza soprannaturale; vi sprofondi con tutta la tua anima,

anche coll'energia della volontà, poiché nell'attimo hai il tuo essere assolutamente

in tuo potere. Chi ti vede solo in un istante come questo, è assai facile che venga

ingannato, mentre chi attende l'istante che segue, potrà facilmente trionfare su te.

Forse ricordi ancora la nota favola di Museo intorno ai tre valletti di Rolando. Uno

di essi, da una vecchia strega che andarono a trovare in un bosco, ebbe in dono un

ditale che lo rendeva invisibile. Per mezzo di esso penetrò nella camera della bella

principessa Urraca e le dichiarò il suo amore, facendole grande impressione, poiché

essa non vedeva mai nessuno e perciò presumeva che chi la onorasse del suo amore

fosse almeno un principe azzurro. Pertanto essa pretese da lui che si rivelasse. Qui

stava il difficile; non appena egli si fosse mostrato, l'incanto sarebbe svanito;

eppure non avrebbe potuto avere nessuna gioia dal suo amore se non si fosse potuto

manifestare a lei. Ho proprio la favola di Museo alla mano e ne voglio trascrivere

un piccolo passo, che ti prego di leggere attentamente per il tuo vero bene. « Egli

acconsenti di mala voglia a mostrarsi e la fantasia della principessa si figurava

l'immagine dell'uomo bellissimo ch'essa con vivissima attesa aspettava di scorgere.

Ma quale contrasto v'era tra l'originale e l'ideale! Dinnanzi le stava un volto

comune, uno dei soliti uomini la cui fisonomia non rivelava né lo sguardo del genio

né uno spirito sentimentale! » Quello che tu desideri ottenere dai contatti colla

gente, lo otterrai certo, perché sei più intelligente di quel valletto e comprendi facilmente

che non ti conviene manifestarti. Quando hai fatto brillare davanti agli

occhi di qualcuno una figura ideale — e devo ammettere che ti sai mostrare ideale

sotto qualunque aspetto — ti ritiri prudentemente, divertito di averlo gabbato.

Realizzi il tuo scopo, ma interrompi anche la coesione della tua vita : hai ottenuto

un momento di più che ancora una volta ti costringe a ricominciare da capo.

In senso teorico hai finito col mondo; la finitezza non può esistere per il tuo

pensiero; anche praticamente, in un certo senso, hai finito col mondo, cioè in senso

estetico. Ciononostante non hai nessuna concezione della vita. Hai qualche cosa

che assomiglia ad una concezione, ed è questa che dà alla tua vita una certa

tranquillità, che però non va confusa con una confidente e consolante fiducia nella vita. La tranquillità l'hai solo in confronto a chi va ancora a caccia delle chimere del piacere, per mare pauperiem fugiens, per saxa, per ignes1. Riguardo al godimento stai in un atteggiamento di orgoglio assolutamente aristocratico. Questo

è assai logico, poiché hai chiuso la partita con ogni finitezza. Eppure non sai

rinunciare ad essa. Sei soddisfatto nei confronti di coloro che vanno a caccia di

soddisfazioni, ma quello per cui tu sei soddisfatto è l'assoluta insoddisfazione. Non

ti turba vedere tutti gli splendori del mondo, perché col pensiero sei sopra ad essi;.

se te li offrissero diresti come sempre: « Si, una giornatina la potrei dedicare a

queste cose ». Non ti preoccupa non esser diventato milionario, e se te lo offrissero

probabilmente risponderesti: «Si, sarebbe abbastanza interessante l'esserlo stato, e

un mesetto lo potrei occupare così ». Anche se ti offrissero l'amore della più bella

fanciulla risponderesti: « Si, per un mezz'annetto potrebbe andar bene ». Io non

voglio ora unirmi alle critiche che sento spesso fare sul tuo conto, che sei insaziabile;

preferisco dire: in un certo senso hai ragione; nulla di finito, infatti, nemmeno

l'intero mondo può soddisfare l'animo umano, che sente il bisogno dell'eterno. Se ti

si potesse offrire onore e gloria, l'ammirazione dei contemporanei — anche se

questo forse è il tuo debole — risponderesti: « Si, per un breve periodo potrebbe

anche andare bene ». Ma tu, a dir la verità, non hai siffatti desideri, non muoveresti

un passo per soddisfarli. Se la fama avesse per te un significato, dovresti

riconoscerla come vera; ma persino le più elevate doti spirituali ti sembrano pur

sempre qualche cosa di effimero. La tua polemica perciò si esprime ancor più

profondamente quando tu, nella tua amarezza interiore contro tutta la vita, desideri

essere il più sciocco di tutti gli uomini, e d'esser nondimeno ammirato e adorato dai

contemporanei come il più saggio di tutti, poiché questo sarebbe un vero sarcasmo

su tutta l'esistenza, assai più profondo che se il superiore davvero fosse onorato

come tale. Perciò, tu non aspiri a nulla, non desideri nulla; l'unica cosa che potresti

desiderare è una bacchetta magica che ti potesse dare tutto, e poi la useresti per

pulire la pipa. È così che sei finito per la vita e « non hai bisogno di fare

testamento, perché non lasci nulla dopo di te ».

Ma su questo vertice non ti puoi mantenere, perché il tuo pensiero ti ha bensí tolto

tutto, ma non ti ha dato nulla in cambio. Nell'attimo seguente una cosuccia

insignificante ti afferra. La consideri con tutta la signorilità e l'orgoglio del tuo

pensiero presuntuoso, la disprezzi come un giocattolo meschino che ti ha quasi

stancato già prima di prenderlo in mano, ma pure ti occupa, anche se non è l'oggetto

in sé che ti occupa — e questo non è mai — ma pure ti occupa tanto che ti

abbassi fino ad esso. A questo riguardo, non appena hai da fare colla gente, il tuo

essere mostra un alto grado di slealtà, di cui però eticamente non ti si può

incolpare, perché tu stai al di fuori delle determinazioni etiche. Fortunatamente per

gli altri, partecipi assai poco ai loro fatti, e perciò la gente se ne accorge poco.

Spesso vieni a trovarmi, e sai d'esser sempre benvenuto, ma sai anche che non mi

verrebbe mai in mente di invitarti a prender parte a qualcosa, nemmeno a delle

inezie. Non andrei nemmeno a fare una gita nei boschi con te, non perché tu non

sappia essere allegro e di compagnia, ma perché la tua partecipazione è sempre

falsa, perché, se tu ti rallegri veramente, si può star certi che non è per le cose che

rallegrano noi o per la gita, ma per qualche cosa che hai « in mente »; e se non ti

rallegri, non è perché accadono delle cose spiacevoli che ti mettono di cattivo

umore, — questo potrebbe succedere anche a noi altri, — ma perché tu, già dal

momento in cui sali in carrozza, hai colto la nullità di questo divertimento. Te lo

perdono volentieri, perché il tuo spirito è sempre troppo mosso, ed è vero quello

che spesso dici di te stesso, che sei come una puerpera, e quando si è in questo

stato non c'è da meravigliarsi se si è un po' diversi dagli altri.

Pure, non si può schernire lo spirito, esso si vendica su di te, ti lega colle catene

della malinconia. Mio giovane amico, qui comincerebbe la via che conduce a 1 Cit. da Orazio, Epist. I,. 1, 46. (N. d. T.)

diventare un Nerone, se nel tuo animo non vi fosse una sincera serietà, se nel tuo

pensiero non vi fosse una innata profondità, se nel tuo spirito non vi fosse della

magnanimità, — e se tu fossi diventato imperatore di Roma. Pure, tu vai per un'altra

strada. Poi ti appare una concezione di vita che sembra l'unica che possa

soddisfarti, quella cioè di sprofondare la tua anima nella malinconia e nella

tristezza. Però il tuo pensiero è troppo sano perché questa concezione di vita possa

sopportar la sua prova: perché, per una tristezza estetica di questo genere,

l'esistenza è vana, come per ogni altra concezione di vita estetica; e se l'uomo non

può soffrire più profondamente, dico il vero quando dico che la sofferenza finisce

non meno della gioia, poiché tutto ciò che è soltanto finito perisce. Molti trovano

che sia una consolazione che la sofferenza passi; a me pare sconfortante quanto il

dire che passa la gioia. Cosí il tuo pensiero annulla di nuovo anche questa

concezione di vita. Quando si è annullata la sofferenza, si tiene la gioia; ma invece

della sofferenza tu scegli una gioia che è un cattivo sostituto della sofferenza. La

gioia che hai scelto è il riso della disperazione. Tu ritorni di nuovo alla vita; sotto

questo aspetto l'esistenza assume un nuovo interesse per te. Come tu provi una gran

gioia nel parlare ai bambini in modo che quello che tu dici sia compreso da loro

con chiarezza, facilità e naturalezza, mentre per te significa qualche cosa di ben diverso,

cosí tu provi gioia nell'ingannare la gente col tuo riso. Quando riesci a far

ridere, giubilare e cantare per opera tua, trionfi sul mondo, dici a te stesso: « se

sapeste di cosa ridete! ». …

Guarda, mio giovane amico, questa vita è disperazione. Nascondilo agli altri, ma a

te stesso non lo puoi nascondere : è disperazione. Sei troppo frivolo per disperare, e

troppo malinconico per non venir a contatto colla disperazione. Sei come una

partoriente, eppure continui a procrastinare il momento e rimani sempre colle

doglie. Se una donna, nel momento delle doglie, fosse colta dal dubbio di poter

partorire un mostro o se volesse ragionare con se stessa cosa è che deve veramente

partorire, essa avrebbe una certa somiglianza con te. Il suo tentativo di fermare il

corso della natura sarebbe infruttuoso, ma il tuo è possibile; poiché quello che

l'uomo partorisce in senso spirituale è il nisus formativus della volontà, ed esso è in

potere dell'uomo. Cosa temi dunque? Tu non devi partorire un altro uomo, devi

solo partorire te stesso. Eppure, lo so, in ciò è una serietà che scuote tutta l'anima;

divenir coscienti di se stessi nel proprio eterno valore è il momento più importante

di tutta la vita. È come se tu venissi preso e legato e non potessi mai più svincolarti,

né nel tempo né nell'eternità; è come se tu perdessi te stesso, come se tu cessassi di

essere; è come se tu nel momento seguente dovessi pentirtene, ma non potessi più

tornare indietro. È un momento terribilmente serio e importante quello in cui ci si

lega per l'eternità a una potenza eterna, in cui si accetta se stesso come colui il cui

ricordo non sarà mai cancellato in nessun tempo, in cui, in senso eterno ed

inalterabile, si diventa coscienti di se stessi come quello che si è. Eppure, si può

farne a meno! Ecco, qui, v'è un aut-aut. Lascia che ti parli come non ti parlerei mai

se qualcun altro ci ascoltasse, perché in un certo senso io non ho il diritto di farlo e

perché parlo piuttosto solo del futuro. Se non vuoi scegliere, se vuoi continuare a

divertire la tua anima colla frivolezza e colla vanità delle spiritosaggini, fallo pure;

abbandona la tua casa, emigra, va a Parigi, datti al giornalismo, fa la corte al

sorriso di donne sdolcinate, rinfresca il loro sangue ardente colla frescura delle tue

battute di spirito, fa che l'orgoglioso compito della tua vita sia di scacciare la noia

delle donne senza cuore o gli oscuri pensieri dei gaudenti smidollati; dimentica di

essere stato un fanciullo, un fanciullo devoto, innocente, sii sordo a ogni voce più

elevata nel tuo petto, assopisci la tua vita nella brillante meschinità delle serate di

gala, dimentica che in te abita uno spirito immortale, dissipa la tua anima fino

all'estremo; e quando poi le battute di spirito taceranno, rimane ancora acqua nella

Senna, polvere da sparo nelle botteghe e neppure la compagnia di viaggio ti

mancherà. Ma se non puoi farlo, se non vuoi farlo — e né lo puoi né lo vuoi fare — allora tirati su, soffoca ogni pensiero ribelle che osi l'alto tradimento contro il tuo

essere migliore, disprezza ogni meschinità che ti invidia le tue doti di spirito perché le desidera per sé, per farne un uso ancor peggiore; disprezza l'ipocrita profondità

che sopporta di mala voglia il peso della vita e pretende ancora di essere onorata

per questo; ma non disprezzare la vita, onora ogni sforzo lodevole, ogni modesta

attività, che umile si nasconde; e abbi, sopratutto, un po' più di rispetto per la

donna; credimi, è proprio da lei che viene la salvezza, come è certo che la

perdizione viene dall'uomo. Sono un marito, e quindi parte in causa; ma è mia

ferma convinzione che se alcune donne hanno gettato l'uomo nella corruzione, esse

hanno anche lealmente ed onestamente cercato di rimediare e continuano a farlo;

poiché di cento uomini che si sviano nel mondo, novantanove vengono salvati dalle

donne, uno solo vien salvato da immediata grazia divina. È dell'uomo sviarli in un

modo o nell'altro; eppure anch'egli deve tornare a riposarsi nella pace pura e

innocente dell'immediatezza, che è caratteristica della donna. Se qualche volta la

donna lo allontana, essa compensa largamente il danno recato.

Cosa ti rimane dunque da fare? Un altro forse ti consiglierebbe: « sposati ed avrai

altro da pensare! ». È vero; ma bisogna chiedersi se la cosa ti giova. Qualunque sia

il modo in cui tu giudichi l'altro sesso, so che sei troppo cavalleresco per sposarti

per questa sola ragione. Inoltre se non puoi tenere a freno te stesso, difficilmente

troverai qualcun altro che sia in grado di farlo. O ti si potrebbe anche consigliare: «

cerca una posizione, gettati nella vita degli affari, lavora; questa è la cosa migliore,

ti distrarrà, facendoti dimenticare la tua malinconia ». Forse ti riuscirebbe di

arrivare al punto di credere d'averla dimenticata; ma non l'hai dimenticata;

improvvisamente proromperà più terribile che mai; e forse allora sarà in grado di

fare quello che non ha saputo fare finora : prenderti di sorpresa. Inoltre: qualunque

cosa tu pensi della vita e del lavoro, tu sei troppo cavalleresco con te stesso per

sceglierti una posizione per questa ragione; sarebbe una specie di falsità come sarebbe

una falsità quella di sposarsi per questa ragione. Allora che ti rimane da fare?

Ho una risposta sola : « dispera! ».

Io sono un marito, la mia anima è attaccata fermamente e irremovibilmente a mia

moglie, ai miei figli, a questa vita di cui loderò sempre la bellezza. E se dico,

dispera, non sono un giovane esaltato che ti vuole gettare nel vortice delle passioni,

né un demone sarcastico che beffa i naufraghi con questo conforto. Non lodo la

disperazione come una consolazione, o come uno stato in cui tu debba rimanere.

Essa è una missione per la quale occorre tutta la forza, la serietà e la coerenza

dell'anima ed è la mia convinzione, la mia vittoria sul mondo, che, chi non abbia

assaporato l'amarezza della disperazione, non ha compreso il significato della vita,

anche se la sua vita è stata quanto mai bella e quanto mai ricca di gioie. Tu non

commetti nessun tradimento verso quel mondo nel quale vivi, non sei perso, per

esso, anche se l'hai superato colla disperazione; così anch'io confido di essere un

buon marito nonostante che abbia disperato io pure.

Quando considero la tua vita in questo modo ti stimo felice; poiché in verità è della

massima importanza che un uomo nel momento della disperazione non sbagli nel

considerare la vita; commettere uno sbaglio è altrettanto pericoloso per lui come

per la partoriente. Colui che dispera per qualche cosa di particolare, corre il

pericolo che la sua disperazione non sia vera e profonda, che sia un disappunto, un

dolore per il particolare. Non devi disperare cosí, poiché non sei stato defraudato di

nulla di particolare, tu hai ancora tutto. Se chi dispera si inganna, se crede che

l'infelicità stia nel molteplice al di fuori di lui, la sua disperazione non è vera e lo

condurrà ad odiare il mondo, non ad amarlo; poiché come è vero che il mondo per

te è ora un peso, perché è come se volesse essere per te qualche cosa di diverso da

quello che può essere, cosí è anche vero che quando tu nella disperazione hai

trovato te stesso, l'amerai, perché è quello che è. Se è colpa, peccato o una cattiva

coscienza che conduce l'uomo alla disperazione, forse egli avrà delle difficoltà a

ritrovare la sua gioia. Disperati dunque, con tutta la tua anima e con tutto il tuo

spirito; più rinvii, più dure saranno le condizioni, e l'esigenza rimane sempre la

stessa. ...

Scegli dunque la disperazione, poiché la disperazione stessa è una scelta. Si può

dubitare senza scegliere il dubbio, non si può disperare senza scegliere la

disperazione. E mentre si dispera, si sceglie di nuovo. E cosa si sceglie? Si sceglie

se stessi, non nella propria immediatezza, non come questo individuo casuale, ma

si sceglie se stessi nel proprio eterno valore.

Mi sforzerò di spiegare meglio questo punto riguardo a te. Nella nuova filosofia si

è parlato, più che a sufficienza, del fatto che tutta la speculazione comincia col

dubbio; d'altra parte io, quando occasionalmente mi son potuto occupare di queste

meditazioni, ho inutilmente cercato degli schiarimenti per sapere in che cosa il

dubbio sia diverso dalla disperazione. Qui cercherò di mettere in evidenza questa di

differenza, sperando che essa giovi ad orientarti in senso teorico e pratico. Son ben

lontano dal credere di avere un vero estro filosofico, non ho il tuo virtuosismo nello

scherzare colle categorie, ma quello che in senso più profondo è il significato della

vita, potrà certo esser compreso anche da chi è più ingenuo. Il dubbio è la

disperazione del pensiero, la disperazione è il dubbio della personalità; e per questo

tengo tanto alla determinazione della scelta, che è diventata il mio motto, il nerbo

della mia concezione di vita; e ho una concezione di vita, anche se non pretendo

affatto di avere un sistema. Il dubbio è il movimento interno del pensiero stesso, e

nel mio dubbio mi comporto più impersonalmente che posso. Supposto che il

pensiero, quando il dubbio si completa, trovi l'assoluto e si riposi in lui, esso riposa

in lui non in seguito ad una scelta ma in seguito alla stessa necessità per cui

dubitava; poiché il dubbio stesso è una determinazione di necessità, e così pure il

riposo. Questo è il sublime del dubbio: ciò per cui esso tanto spesso è stato vantato

e lodato da gente che non capisce nemmeno quello che dice. Ma proprio il fatto che

sia una determinazione di necessità dimostra che non tutta la personalità è

compresa nel movimento. Dice perciò qualche cosa di molto vero chi dice: crederei

volentieri, ma non posso, bisogna che dubiti. Perciò si vede anche spesso che chi

dubita può tuttavia possedere in sé un valore positivo, che sta fuori di ogni rapporto

col suo pensiero; questi può, ad es., essere una persona coscienziosissima, che non

dubita affatto del valore del dovere come regola della sua azione e i cui sentimenti

di umana simpatia non sono affatto toccati dal dubbio. D'altra parte si vedono,

specialmente ai nostri giorni, persone che hanno la disperazione in cuore, anche se

hanno vinto il dubbio. Questo mi fu palese specialmente nel considerare alcuni dei

filosofi tedeschi. Il loro pensiero è tranquillo, il pensiero logico oggettivo si è acquietato

nella sua corrispondente oggettività; eppure essi sono disperati anche se si

distraggono colla speculazione oggettiva. L'uomo infatti può distrarsi in molti

modi, e non vi è un narcotico migliore della speculazione astratta, perché ciò che in

essa è necessario è di mantenersi più impersonali che sia possibile. Il dubbio e la

disperazione stanno dunque di casa in due sfere completamente diverse; sono corde

assai diverse dell'anima che vengono messe in movimento. Ma questa conclusione

non mi soddisfa affatto, perché il dubbio e la disperazione vengono in questo modo

coordinati, e questo non deve avvenire. La disperazione è un'espressione molto più

profonda e completa, il suo movimento è molto più ampio di quello del dubbio. La

disperazione è l'espressione di tutta la personalità, il dubbio solo del pensiero. La

presunta obiettività del dubbio, che lo rende tanto aristocratico, è proprio

un'espressione della sua imperfezione. Il dubbio sta perciò nella differenza, la disperazione

nell'assoluto. Per dubitare occorre del talento, ma per disperare non ne

occorre affatto. Ma il talento come tale è una differenza, e quello che per farsi

valere esige una differenza, non sarà mai l'assoluto; perché l'assoluto può solo

essere l'assoluto per l'assoluto. L'uomo più insignificante, meno intelligente può

disperare, una fanciulla, che è tutto meno che un pensatore, può disperare, mentre

ognuno capisce facilmente quanto sia sciocco dire che essi sono dei dubbiosi. Se il

dubbio di un uomo si acquieta, e egli però dispera e rimane in questo stato, questo

significa che egli non vuole la disperazione in senso più profondo. Non si può

assolutamente disperare senza volerlo; ma per disperare per davvero si deve per

davvero volere la disperazione; ma quando la si vuole veramente, allora per dav14

vero si è fuori dalla disperazione; quando veramente si ha scelto la disperazione, si

ha scelto per davvero quello che la disperazione sceglie: si ha scelto se stessi nel

proprio valore eterno. Solo nella disperazione la personalità è acquietata; non con

necessità (perché non dispero mai necessariamente), ma con libertà, e solo così

vien conquistato l'assoluto. A questo riguardo, penso che la nostra epoca farà un

progresso, se posso permettermi una opinione sulla nostra epoca, dato che la

conosco solo dalla lettura dei giornali e da qualche libro o dai miei colloqui con te.

Non è lontano il giorno in cui, forse a caro prezzo, si esperimenterà che il vero

punto di partenza per trovare l'assoluto non è il dubbio ma la disperazione.

Pure, ritorno alla mia categoria (non sono un logico, e ho solo una categoria, ma ti

assicuro che è la scelta del mio cuore e del mio pensiero, la delizia della mia anima

e la mia beatitudine) : ritorno all'importanza dello scegliere. Quando dunque scelgo

in modo assoluto, scelgo la disperazione, e nella disperazione scelgo l'assoluto

poiché io stesso sono l'assoluto; io pongo l'assoluto e sono l'assoluto stesso; ma

come perfettamente identico ad esso devo dire: io scelgo l'assoluto che sceglie me,

io pongo l'assoluto che pone me; poiché se non ricordo che quest'altra espressione è

altrettanto assoluta, la mia categoria dello scegliere è falsa, perché è proprio

l'identità di ambedue. Quello che scelgo non lo pongo, perché se non fosse posto

non lo potrei scegliere; eppure, se non lo ponessi nell'atto della scelta, non

sceglierei realmente. Esso è, poiché se non fosse, non lo potrei scegliere; non è,

perché diventa solo in quanto lo scelgo : altrimenti la mia scelta sarebbe illusione.

Ma che cosa è dunque che scelgo? E questa cosa o è quell'altra? No, perché io

scelgo in modo assoluto, e scelgo in modo assoluto proprio in quanto ho scelto di

non scegliere questa o quella cosa. Io scelgo l'assoluto. Ma cos'è l'assoluto? Sono

io stesso nel mio eterno valore. Altro all'infuori di me stesso non potrò mai

scegliere come assoluto; poiché se scelgo qualche cosa d'altro lo scelgo come una

cosa finita, e perciò non lo scelgo in modo assoluto. ...

Ma cosa è questo me stesso? Se volessi parlare di un primo momento, di una sua

prima espressione, la mia risposta sarebbe : è la cosa più astratta di tutte, che nello

stesso tempo in sé è la più concreta — è la libertà. Lasciami introdurre una piccola

osservazione psicologica. Si sente spesso la gente esprimere la propria

insoddisfazione e lamentarsi della vita; spesso la si sente desiderare qualche cosa.

Immagina ora un povero diavolo (lasciamo da parte i desideri capricciosi che qui

non hanno nulla da insegnarci, perché sono completamente immersi nel casuale).

Ecco i suoi desideri : avessi lo spirito del tale, od il talento del talaltro, ecc., anzi

per arrivare al massimo: avessi la fermezza di quel tale. Simili desideri si sentono

pronunciare assai spesso, ma hai mai sentito che alcuno desiderasse seriamente di

poter diventare un altro? Ne è anzi talmente lontano che è proprio caratteristico di

quelle che si chiamano individualità infelici di aggrapparsi tenacissimamente a se

stesse, tanto che, nonostante tutte le loro sofferenze, per nessuna ragione al mondo

vorrebbero essere degli altri. Ciò ha il suo motivo nel fatto che queste individualità

sono molto vicine alla verità e sentono l'eterno valore della personalità, non nella

sua benedizione, ma nel suo tormento. Anche se devono rinunciare alla gioia,

preferiscono tuttavia rimanere se stessi. Ma anche colui che ha molti desideri

intende sempre rimanere se stesso, anche se le circostanze mutano. Dunque in lui

vi è qualche cosa di assoluto in rapporto a tutto il resto, qualche cosa per cui egli è

quello che è, anche se il cambiamento sopraggiunto col realizzarsi del suo

desiderio sia stato il più grande immaginabile. L'espressione più astratta di questo «

se stesso » che lo rende quello che è non è altro che la libertà. Per questa via si

potrebbe realmente giungere ad una plausibilissima dimostrazione dell'eterno

valore della personalità. Perfino un suicida propriamente non vuole sbarazzarsi di

se stesso; quello che lui desidera è solo un'altra forma di se stesso. Perciò si potrà

anche trovare un suicida che sia convinto al massimo grado dell'immortalità

dell'anima. Ma il suo essere è così accecato che con questo passo egli crede di

trovare la forma assoluta per il suo spirito.

Pure, la ragione per cui ad un individuo può parere che egli si possa costantemente

trasformare, pur rimanendo sempre se stesso, come se il suo essere più profondo

fosse una grandezza algebrica che potesse indicare quello che si vuole, è che egli si

trova in una posizione falsa, che non ha scelto se stesso e non ne ha una idea;

eppure anche nella sua incomprensione vi è un riconoscimento dell'eterno valore

della personalità. Per chi invece si trova in una posizione giusta le cose vanno

diversamente. Egli sceglie se stesso, non in senso finito, poiché allora questo «io»

diventerebbe una cosa finita che si mescolerebbe colle altre cose finite, ma in senso

assoluto: eppure egli sceglie se stesso e non un altro. Questo « io », che egli così

sceglie, è infinitamente concreto, poiché è lui stesso; eppure è assolutamente

diverso dal suo «io» precedente, poiché egli l'ha scelto in modo assoluto. Questo «

io » non esisteva prima, poiché venne creato colla scelta; eppure esisteva poiché

era « lui stesso ».

La scelta qui rende i due movimenti dialettici in una volta: quello che vien scelto

non esiste e vien creato dalla scelta; quello che vien scelto esiste, altrimenti non

sarebbe una scelta. Infatti, se quello che io scelgo non esistesse ma divenisse in

modo assoluto colla scelta, non sceglierei, ma creerei; ma io non creo me stesso,

scelgo me stesso. Mentre perciò la natura è creata dal nulla, mentre io stesso come

personalità immediata sono creato dal nulla, come spirito libero sono nato dal

principio fondamentale della contraddizione, nato per il fatto di aver scelto me

stesso.

Chi sceglie se stesso scopre che quell'io che egli sceglie ha una infinita molteplicità

in sé. Esso ha una storia; una storia nella quale egli riconosce la sua identità con se

stesso. Questa storia presenta diversi aspetti, poiché in questa storia egli sta in

relazione con altri individui della stirpe e con tutta la stirpe; e questa storia contiene

qualche cosa di doloroso. Eppure egli è ciò che è solo attraverso questa storia.

Perciò ci vuole del coraggio per scegliere se stesso; poiché, mentre pare che egli si

isoli più intensamente che mai, nello stesso tempo egli si sprofonda più che mai in

quella radice per la quale è congiunto al tutto. Questo lo preoccupa eppure deve

essere così: infatti quando l'ardore della libertà si è risvegliato in lui (e si è

risvegliato nella scelta, così come esso presuppone se stesso nella scelta), egli

sceglie se stesso e la lotta per questo possesso come per la propria suprema

salvezza, e questa è la sua suprema salvezza. Egli non può rinunciare a nulla di

tutto questo, né al dolore più forte, né alle fatiche più gravi; eppure l'espressione di

questa lotta, di questa conquista è il pentimento. Col pentimento ritorna in se

stesso, ritorna nella famiglia, ritorna nella stirpe, finché trova se stesso in Dio.

Sceglie se stesso mentre si rinnega, rinnega se stesso mentre si sceglie. Solo a

questa condizione egli può scegliere se stesso; e questa è l'unica condizione che

egli vuole, perché solo così può scegliere se stesso in modo assoluto. Cosa è mai

l'uomo senza amore? Ma vi sono molte qualità di amore; amo mio padre

diversamente da mia madre, mia moglie diversamente ancora, ed ogni diverso

amore ha una sua diversa espressione; ma vi è anche un amore col quale amo Dio,

e questo ha un'espressione sola nella lingua : il pentimento. Se non l'amo cosí, non

lo amo in modo assoluto con tutto il mio essere più profondo. Ogni amore diverso

per l'assoluto è un malinteso. Quando io tento di cogliere l'assoluto con la passione

del pensiero (anche questo è un amore per l'assoluto, che io lodo), non è più

l'assoluto che io amo, non amo in modo assoluto. Questo amore per Dio è infatti

necessario. Ma non appena amo liberamente, e amo Dio, non posso far altro che

pentirmi. E se non vi fosse nessun'altra ragione perché l'espressione del mio amore

per Dio fosse pentimento, basterebbe il fatto che egli mi ha amato per primo. Ma

anche questa è una definizione imperfetta, poiché solo quando scelgo me stesso

come colpevole scelgo me stesso in modo assoluto, se la mia scelta deve essere una

scelta e non coincidere con una creazione. Anche se fosse il peccato del padre ad

andare in eredità al figlio, egli si pente anche di quello, perché soltanto così può

scegliere se stesso, scegliersi in modo assoluto; e anche se le lacrime dovessero

quasi distruggerlo, egli continua a pentirsi, poiché solo così sceglie se stesso. E come se il suo io fosse fuori di lui e dovesse essere conquistato, il pentimento è il suo amore per esso, perché lo sceglie in modo assoluto dalla mano del Dio eterno.

… Non si conviene amare una fanciulla come se fosse la propria madre, e

la propria madre come fosse una fanciulla; ogni amore ha la sua particolarità. L'amore per

Dio ha la sua assoluta particolarità e la sua espressione è il pentimento. E, cosa è

mai ogni altro amore a paragone di questo? Solo un balbettio infantile. Non sono

un giovane eccitato che cerchi di raccomandare le sue teorie, sono un marito e

certo non tremo se mia moglie mi sente dire che ogni amore a paragone col

pentimento è solo un balbettio; eppure so di essere un buon marito, « io che come

marito ancora lotto sotto le vittoriose bandiere del primo amore ». So che essa

condivide la mia convinzione, e per questo l'amo ancor di più; e perciò non vorrei

essere amato da quella tale fanciulla, perché essa non condivide la mia

convinzione. …

Nella scelta della disperazione scelgo dunque « me stesso ». Mentre io dispero,

come dispero di ogni altra cosa, dispero anche di me stesso; ma l'io di cui dispero è

una cosa finita, come ogni altra cosa finita, e l'io che scelgo è l'io assoluto, o il mio

io secondo il suo valore assoluto. Questo è il motivo profondo per cui io dicevo e

continuo a dire che l'aut-aut tra la vita estetica e la vita etica non è un dilemma

perfetto, perché solo un termine può venir scelto e l'altro sorge dal fatto di non

scegliere. ...

Dispera dunque, e la tua leggerezza non ti farà più vagabondare come uno spirito

incostante, come un fantasma, tra le rovine di un mondo che pure è perso per te;

dispera, e il tuo spirito non sospirerà mai più nella malinconia, poiché il mondo diventerà nuovamente bello e pieno di gioie per te, anche se lo vedrai con occhi diversi da prima, e il tuo spirito divenuto libero si innalzerà fino al mondo della libertà.

Qui potrei interrompere; perché ti ho condotto al punto che volevo; ormai dipende

da te. Vorrei che tu ti liberassi dalle illusioni dell'estetica e dai sogni di una mezza

disperazione per risvegliarti alla serietà dello spirito. Potrei interrompere, ma non

ne ho l'intenzione, poiché voglio farti considerare la vita da questo punto di vista e

presentarti la concezione etica. Sono solo cose modeste che ho da offrirti, in parte

perché il mio talento non è affatto all'altezza del compito, in parte perché la

modestia è una delle principali qualità di ogni etica, una qualità che è molto

appariscente per chi viene dall'abbondanza dell'estetica. Qui vale il detto : nihil ad

ostentationem, omnia ad conscientiam. Se qui mi interrompessi, potrebbe essere

sospetto, anche per il motivo che facilmente sembrerebbe che anch'io finisco in una

specie di quietismo, in cui la personalità deve riposare, colla medesima necessità

del pensiero, nell'assoluto. Cosa importerebbe allora aver conquistato se stesso,

cosa importerebbe aver ricevuta una spada che può conquistar tutto il mondo,

quando non se ne vuol fare altro uso che infilarla nel fodero? …

Avviciniamoci ora di più ad alcune delle condizioni di vita, specialmente a quelle

in cui etica e estetica si toccano, per riflettere se la considerazione etica ci derubi di

qualche bellezza, o se piuttosto non doni a tutto una più alta beltà. Immagino perciò

un determinato individuo, un uomo comunissimo, ma un uomo nella sua

particolare concretezza. Voglio proprio essere prosaico. Quest'uomo deve mangiare

e bere, vestirsi, avere un'abitazione, in breve, deve esistere. Forse si rivolgerà a un

esteta per poter sapere come si debba comportare nella vita. E le informazioni non

gli mancheranno. Questi gli direbbe forse: « Quando si è soli occorrono circa 3.000

talleri all'anno per vivere comodamente; se si dispone di 4.000 talleri si adoperano

anche questi; se ci si vuole sposare occorrono per lo meno 6.000 talleri. Il denaro è

e sarà sempre nervus rerum gerendarum, la vera conditio sine qua non. È bello

leggere della parsimonia campestre, della modestia idilliaca; questi scritti mi piacciono ma di questo modo di vivere ci si stanca presto; e quelli che vivono in

questo modo, non godono la loro vita nemmeno la metà di quelli che hanno del

denaro e se ne stanno con tutta comodità a leggere i poemi degli scrittori. Il denaro

è e sarà sempre la condizione assoluta per vivere. Non appena si è senza denaro, si

vien esclusi dal numero dei patrizi, e si diventa e si rimane plebei. La condizione è

il denaro, ma non ne consegue affatto che ognuno che abbia del denaro lo sappia

adoperare. Quelli che lo sanno fare sono i veri ottimati tra i patrizi ». Ma

evidentemente il nostro eroe non è soddisfatto di questa spiegazione; tutta la saggezza

degli altri non lo commuove, ed egli si sente come un passero a un ballo di

gru. Se infatti egli dicesse all'esteta : « questo va bene, ma io non ho né 3.000 né

6.000 talleri all'anno, non ho proprio nulla, né capitale né rendita, nulla del tutto,

quasi nemmeno un cappello da mettere in testa », questi scrollerebbe le spalle e

direbbe: « questo è un altro discorso, non vi rimane altro da fare che mettervi a

lavorare ».

Se l'esteta fosse molto bonario, forse con un cenno richiamerebbe il povero diavolo

e gli direbbe: « non voglio che vi diate alla disperazione prima di aver tentato le

ultime risorse; vi sono alcuni mezzi di salvezza che non bisogna lasciare intentati,

prima di dire addio per sempre alla gioia, di fare i voti e di mettersi la camicia di

forza. Sposate una ragazza ricca, giocate al lotto, andate nelle colonie, cercate in

due anni di accumulare del denaro, cercate di attirarvi il favore di un vecchio

scapolo perché vi faccia suo erede. Per il momento i nostri cammini sono divisi;

procuratevi il denaro ed in me troverete sempre un amico che saprà dimenticare

che una volta eravate senza denaro ». Ma in una concezione di vita come questa vi

è qualche cosa di terribilmente spietato; è odioso spegnere a sangue freddo ogni

gioia di vivere in tutti coloro che non hanno denaro. Ed è questo che fa l'uomo

avido di denaro, perché egli pensa che senza denaro non vi sia nessuna gioia nella

vita. Se io ora ti volessi mettere in un fascio con questi esteti, se ti accusassi di

nutrire o di esprimere simili pensieri, ti farei un grave torto. Infatti il tuo cuore è

troppo buono per dar dimora a tali bassezze, e la tua anima è troppo generosa per

esprimere questi pensieri, anche se tu li avessi.

Non penso che chi non ha denaro abbia bisogno di esser commiserato, ma mi pare

che il meno che si possa pretendere da chi crede di essere favorito dalla fortuna, è

che non se ne inorgoglisca, e non senta il desiderio di mortificare gli altri che non

sono stati altrettanto favoriti. Lascia pure che l'uomo sia orgoglioso; in nome di

Dio, sarebbe meglio che non lo fosse, ma lascia pure che lo sia; ma che non sia

orgoglioso del suo denaro, poiché non vi è nulla che degrada tanto l'uomo. Ora tu

sei abituato ad avere del denaro e sai bene cosa voglia dire. Tu non offendi

nessuno, in questo sei diverso da quegli esteti. Aiuti volentieri dove puoi, anzi,

quando fai risaltare quanto sia miserevole non avere del denaro, lo fai spinto da

simpatia. Il tuo scherno perciò non è diretto agli uomini, ma all'esistenza in genere

nella quale è stato disposto che non tutti abbiano del denaro. Tu dici : «

Innegabilmente Prometeo ed Epimeteo erano molto intelligenti, ma è

incomprensibile che mentre rifornivano gli uomini tanto abbondantemente, non sia

loro venuto in mente di fornirli di denaro ». Se tu fossi stato presente allora, e

avessi saputo quello che sai adesso, ti saresti fatto avanti e avresti detto: «O buoni

Dei, vi ringraziamo per tutto questo, ma — perdonatemi se parlo tanto francamente

con voi — non avete conoscenza del mondo; perché l'uomo possa essere felice gli

manca ancora una cosa — ed è il denaro. A che serve ch'egli sia stato creato per

comandare tutto il mondo, se non ha il tempo di farlo per colpa delle preoccupazioni

materiali? Cosa significa mettere al mondo una creatura razionale per poi

farla lavorare e sfacchinare? Che modo è questo di trattare l'uomo?» Su questo

punto sei inesauribile. « La maggior parte degli uomini », dici, « vive per avere il

pane quotidiano; quando l'ha avuto vive per avere un buon pane quotidiano; e

quando ha ottenuto anche questo, muore. » Con genuina commozione perciò lessi

qualche tempo fa nel giornale un annuncio col quale una moglie annunciava la

morte di suo marito. Invece di lamentarsi prolissamente sul doloroso fatto di aver perduto il migliore dei mariti e il padre più affettuoso, si esprimeva molto brevemente: questa morte era tanto dolorosa perché suo marito proprio da poco

tempo era riuscito a procurarsi una buona posizione. In questo sta molto più di

quello che la vedova addolorata o il solito lettore di annunci sul giornale vi veda.

Questa considerazione si lascia sviluppare come una dimostrazione dell'immortalità

dell'uomo. La si potrebbe enunciare cosí : la missione di ogni uomo è quella di trovare

un buon sostentamento. Se egli muore prima di averlo trovato, non ha

realizzato la sua missione, e ognuno è indotto a credere che egli, in un altro mondo,

debba realizzarla. Se egli invece raggiunge una buona posizione, e realizza la sua

missione, la sua stessa missione non può volere ch'egli muoia, ma anzi, che egli

viva e goda della sua buona posizione: ergo l'uomo è immortale. Questa dimostrazione

la si potrebbe chiamare la dimostrazione popolare o la dimostrazione

coll'argomento della posizione. Se questa dimostrazione la si aggiunge a tutte le

precedenti, ogni dubbio assennato intorno all'immortalità dovrebbe esser liquidato.

Questa dimostrazione la si può benissimo mettere in relazione colle precedenti,

anzi, qui si mostra proprio nella sua piena gloria, perché come conclusione si allaccia

alle altre e le dimostra. Le altre dimostrazioni partono dal principio che

l'uomo è un essere ragionevole; se qualcuno dovesse dubitarne, la dimostrazione

coll'argomento della posizione gli verrebbe in aiuto e dimostrerebbe questo

postulato col seguente sillogismo: Dio dà la ragione a colui al quale concede una

buona posizione; all'uomo cui concede una buona posizione Dio dà, ergo, la

ragione. Tutto questo la vedova addolorata l'ha sentito confusamente, ha sentito

quanto di profondamente tragico vi sia nelle contraddizioni della vita. » Riguardo a

questo problema non sai far altro che tirar fuori dello scherno. Probabilmente non

pensi nemmeno che la tua concezione possa essere utile o istruttiva per qualcuno.

Ma neppure immagini che con queste tirate tu possa fare del male. Un uomo infatti

che già sente disgusto abbastanza per esser costretta a lavorare per vivere, sentendo

l'ardore non privo di spirito, col quale tu difendi il suo segreto pensiero, ascoltando

il tuo scherno piccante, diventerebbe ancora più impaziente, ancor più indignato.

Dovresti perciò star bene attento a quello che dici.

Sulla via battuta fin qui il nostro eroe cercherà invano dei consigli. Sentiamo ora

cosa gli risponderebbe un moralista. La sua risposta sarebbe la seguente : è dovere

di ogni uomo lavorare per vivere. Se non avesse altro da dire probabilmente

interloquiresti : « ecco le vecchie chiacchiere intorno a l'eterno dovere; dappertutto

e sempre dovere! non ci si può immaginare nulla di più noioso di questo letto di

Procuste che soffoca e opprime ogni forma di vita ». Ricordati, di grazia, che il

nostro eroe non ha denaro, che quell'esteta senza cuore non ne aveva da donargli, e

che anche tu non ne hai di troppo, da potergli assicurare l'avvenire. Se egli dunque

non vuol mettersi a sedere a pensare cosa avrebbe fatto se avesse avuto denaro,

bisogna che pensi a un'altra via d'uscita. Osserva inoltre che l'uomo etico gli si

rivolge con tutta cortesia, non lo tratta come una eccezione, non gli dice : « Dio

buono, dato che siete tanto sfortunato, cercate di abituarvi ». Al contrario,

considera l'esteta un'eccezione, e afferma: è dovere di ogni uomo lavorare per

vivere; se per un uomo questo non è necessario, è un'eccezione, ma il fatto di

essere un'eccezione non è qualcosa di grande ma una cosa meschina. Perciò quando

l'uomo vuol considerare la questione eticamente, vedrà il fatto di avere del denaro

come un'umiliazione. Quando egli lo vede in questo modo, egli non si ingannerà

circa i favori del destino. Egli si umilierà dei favori ricevuti, e fatto questo, sarà

nuovamente elevato dal pensiero che l'esser stato favorito gli impone un più alto

compito.

Quando l'individuo etico, presso il quale il nostro eroe cercò degli schiarimenti, sa

personalmente quel che significhi lavorare per vivere, le sue parole hanno un peso

anche maggiore. Sarebbe desiderabile che gli uomini, a questo riguardo, avessero

maggior coraggio; la ragione per cui si sente tanto spesso difendere ad alta voce la

spregevole opinione che il denaro sia la cosa principale, risiede nel fatto che coloro

che devono lavorare mancano della forza etica che occorre per riconoscere.

l'importanza del lavoro, mancano della convinzione etica della sua importanza.

Quelli che nuocciono al matrimonio non sono i seduttori, ma i mariti vili. Così

anche qui. Quei discorsi spregevoli non fanno del male, ma fanno del male coloro

che, costretti a lavorare per vivere, un momento riconoscono l'utilità del lavoro, e

poi, subito dopo, si lamentano, invidiano la vita oziosa, sospirano e dicono : « la

cosa più bella però è di essere indipendenti ». Che stima può avere per la vita un

giovane, quando sente gli anziani parlare in questo modo! Anche qui hai

danneggiato te stesso con tutti i tuoi esperimenti, perché sei venuto a sapere molte

cose che non sono affatto buone né allegre. Tu sai molto bene tentare l'uomo per

fargli confessare che nel profondo del suo cuore egli preferirebbe di non lavorare, e

così trionfi. …

Il dovere di lavorare per vivere esprime l'universale umano, e lo esprime anche nel senso che è una manifestazione della libertà. Proprio col lavoro l'uomo si rende

libero; col lavoro signoreggia la natura, col lavoro mostra che sta più in alto della

natura.

Perde forse la vita la sua bellezza, perché l'uomo deve lavorare per vivere? Sono ancora al vecchio punto: cosa si intende per bellezza? È bello vedere che i gigli nei campi, benché non filino e non tessano, sono vestiti più splendidamente di

Salomone in tutta la sua pompa; è bello vedere gli uccelli trovare senza affanno il

loro nutrimento; è bello vedere Adamo ed Eva nel paradiso, dove potevano avere

tutto quello che volevano; ma è più bello ancora vedere un uomo che col suo

lavoro conquista quello che gli abbisogna. E bello vedere la provvidenza che sazia

tutti e pensa a tutto; ma è più bello ancora vedere un uomo che è, per così dire, la

propria provvidenza. In questo modo l'uomo è più grande di ogni altra creatura, nel

provvedere a se stesso. E bello vedere un uomo che ha dell'abbondanza di cui si è

provveduto da sé; ma è bello anche vedere un uomo che opera il miracolo più

grande, di trasformare il poco in molto. E una espressione della perfezione umana

che l'uomo sappia lavorare; ed è un'espressione anche più alta, che egli debba

lavorare.

Se il nostro eroe vorrà adottare questa concezione, egli non si sentirà indotto a

desiderare una sostanza acquistata dormendo, non si sbaglierà sulle condizioni

della vita, sentirà la bellezza del lavorare per vivere, sentirà in ciò la sua dignità di

uomo : non costituisce la grandezza della pianta che essa non tessa, ma è la sua

imperfezione, che essa non possa tessere. Egli non sentirà il desiderio di stringere

amicizia con quel ricco esteta. Mediterà sulla vera grandezza e non si lascerà

impressionare dalle persone danarose. …

Allora forse il nostro eroe si deciderà a lavorare, ma vorrebbe esser liberato dalle

preoccupazioni materiali. Io non ho mai avuto preoccupazioni materiali; sebbene in

certo modo io debba lavorare per vivere, ho sempre avuto dei proventi abbondanti;

perciò non posso parlare per esperienza, ma ho sempre avuto gli occhi aperti per

quello che in questo v'è di triste, ma anche gli occhi aperti per quello che v'è di

bello, di educativo, di nobilitante; perché credo che non vi sia preoccupazione

altrettanto educativa. Ho conosciuto uomini che io non chiamerei affatto vili o

effeminati; uomini che non pensano affatto che la vita debba trascorrere senza

lotta, che sentono d'aver forza, coraggio e voglia di lottare là dove altri

cederebbero; ma ho anche sentito che dicono: purché Dio mi liberi da

preoccupazioni materiali! Non vi è nulla che maggiormente soffochi ciò che di più

elevato è nell'uomo. In occasione di questi discorsi ho spesso pensato (ciò che

anche la mia vita tanto spesso mi ha dato occasione di riconoscere) che non vi è

nulla di così infido come il cuore umano. Si ha il coraggio di arrischiarsi nelle lotte

più pericolose, ma non si vogliono affrontare le preoccupazioni materiali; ciò

nonostante si pretende che sia merito più grande vincere questa lotta piuttosto di

quella. Ma questo è troppo facile; si sceglie una lotta più facile che agli occhi della

gente sembra più pericolosa; si fa credere a se stessi che sia vero; si vince e si è un

eroe, e un eroe ben diverso da chi vince in quell'altra lotta meschina, indegna di un

uomo. Davvero, quando oltre alle preoccupazioni materiali si ha nel proprio intimo un nemico nascosto come questo con cui lottare, non è meraviglia se si desidera

farla finita con questa lotta. Però bisognerebbe essere tanto onesti verso se stessi da

confessare il motivo per cui si voleva schivare questa lotta : che essa è molto più

dura di ogni altro combattimento; ma se è così, anche la vittoria è molto più bella.

… La lotta per il sostentamento materiale ha questo di sommamente educativo, che la

ricompensa è assai meschina, anzi, non esiste; si lotta per procurarsi la possibilità

di poter continuare a lottare. Più è grande, esteriore, la ricompensa della lotta, tanto

più il lottatore s'affida a tutte le ambigue passioni che albergano in ogni uomo.

Ambizione, vanità, orgoglio, sono forze che hanno una elasticità enorme e possono

spingere l'uomo lontano; chi lotta per le preoccupazioni materiali vede presto che

queste passioni lo abbandonano, perché come può credere che una lotta come la

sua possa interessare gli altri, o destare la loro ammirazione? Se egli non possiede

altre forze è perduto. La ricompensa è molto piccola; perché quando ha lavorato,

servito e faticato, sarà riuscito soltanto a procacciarsi il necessario — il necessario

per mantenersi in vita, per poter di nuovo lavorare e faticare. Ecco perché le

preoccupazioni materiali sono tanto nobilitanti ed educative, perché non

permettono che l'uomo inganni se stesso. …

Dunque il nostro eroe ora è pronto a lavorare, non perché per lui è una necessità,

ma perché egli la ritiene la cosa più bella e perfetta. (Che egli giudichi a questo

modo perché dopo tutto, non può cambiare la sua sorte, è uno degli equivoci

sciocchi e maligni, che pongono il valore dell'uomo fuori di lui, nel casuale.) Ma

proprio perché vuol lavorare, il suo lavoro potrà diventare un lavoro e non una

schiavitù. Egli perciò esige un'espressione più alta per il suo lavoro, un'espressione

che indichi la relazione del suo lavoro colla sua persona e con quella degli altri

uomini, un'espressione che caratterizzi il lavoro come la sua gioia e, nello stesso

tempo, come la sua dignità. Qui è necessaria un'altra, riflessione. Certo il nostro

giovane troverà che è al di sotto della sua dignità rivolgersi all'esperto gentiluomo

dei 3.000 talleri : ma il nostro eroe non è diverso dalla maggior parte degli uomini.

Egli è stato si preso per tempo, ma però ha assaporato le prime dolcezze del vivere

estetico, ed egli è, come la maggior parte degli uomini, ingrato. Cosí nonostante

che sia stato il moralista ad aiutarlo nelle sue precedenti difficoltà, non è a lui che

si rivolge per primo. Forse, nel suo intimo è fiducioso che il moralista, alla fin fine,

lo potrà aiutare di nuovo a tirarsi d'impaccio; perché il nostro eroe non è poi tanto

meschino da non riconoscere di buon grado che il moralista veramente l'ha aiutato

ad uscire dalle sue difficoltà, benché non avesse del denaro da dargli. Egli, dunque,

si rivolge a un esteta un po' più umano. Forse anche questi saprà esporgli qualche

cosa intorno all'importanza del lavoro: senza lavoro alla fine la vita diventa noiosa.

« Il proprio lavoro però », egli osserva, « non dev'essere lavoro nel senso più

stretto, ma deve sempre poter venire considerato come piacere. Si scopre in sé

qualche talento aristocratico, col quale distinguersi dalla massa. Questo lo si educa

non alla leggera (perché altrimenti ci si stanca troppo presto), ma con ogni serietà

estetica. Così la vita acquista un nuovo significato, perché uno ha trovato il proprio

lavoro, un lavoro che, a dir la verità, è il proprio piacere. Colla propria

indipendenza lo si cura, perché esso, indisturbato dalla vita, si possa sviluppare in

tutto il suo rigoglio. Questo talento pertanto non lo si fa diventare un legno che ci

tiene a galla nel naufragio della vita, ma un'ala colla quale ci si eleva sopra la terra;

non lo si fa diventare un robusto cavallo da soma, ma un cavallo da parata. » Il

nostro eroe purtroppo, non ha nessun talento aristocratico: è un uomo

comunissimo, come tutti gli altri. Allora l'esteta non sa trovare nessun'altra via

d'uscita per lui che quella « di accontentarsi di trovarsi coinvolto nel triviale

destino della massa di essere una macchina da lavoro. Non si perda di coraggio;

anche questo ha la sua importanza ed è molto dignitoso e lodevole. Divenga un

uomo bravo e laborioso, un membro utile della società. Fin d'ora mi compiaccio di

vederla nel suo lavoro perché quanto più è varia la vita, tanto più è interessante per

lo spettatore. E per questo che io e tutti gli esteti detestiamo l'uniforme : sarebbe troppo noioso veder tutti vestiti alla stessa maniera! Così se ognuno sceglie la sua

professione nella vita, questa diventa tanto più bella per me e per i miei compagni

che per professione osserviamo la vita ». Spero che il nostro eroe diventi un pò

impaziente a essere trattato in questo modo, che si indigni della sfacciataggine di

una simile suddivisione degli uomini. Si aggiunga poi che anche la concezione di

questo esteta presupponeva quell'indipendenza che egli non ha.

Forse non si saprà ancora decidere a rivolgersi al moralista e farà ancora un altro

tentativo. Incontra un tale che dice: « bisogna lavorare per vivere, ormai la vita è

stata stabilita così ». Qui gli pare di aver trovato quello che cerca, perché questa è

proprio anche la sua opinione. E farà attenzione alle sue parole. Quello continua : «

Bisogna lavorare per vivere, ormai la vita è stata stabilita così; questo è l'aspetto

banale dell'esistenza. Si dormono sette ore al giorno, è tempo perso, ma dev'essere

così; si lavorano cinque ore al giorno, è tempo perso, ma dev'essere così. Con

cinque ore di lavoro si ha di che sostentarsi, e, risolto questo problema, si comincia

a vivere. E preferibile che il proprio lavoro sia quanto mai noioso ed insignificante;

deve infatti solo bastare per il sostentamento. Se si hanno delle doti speciali, non si

commetterà mai verso di queste il peccato di farle divenir sorgente di lucro. No,

bisogna accarezzare il proprio talento, lo abbiamo per noi stessi, esso ci dà più

gioie di quante un bambino ne dia alla propria madre; lo si educa, lo si sviluppa

nelle dodici ore del giorno, si dorme per 7 ore, si è inumani per cinque; e così la

vita diventa abbastanza sopportabile, anzi quasi bella; perché non saranno poi tanto

terribili quelle cinque ore di lavoro, poiché, dato che i propri pensieri non sono mai

nel lavoro, si raccolgono le forze per quell'occupazione che è il proprio piacere ».

Il nostro eroe è sempre allo stesso punto. Non ha nessuna dote speciale per

riempire le 12 ore che è in casa; inoltre ha già una concezione più bella del lavoro,

una concezione che non vuole abbandonare. Allora forse si deciderà a cercar di

nuovo l'aiuto del moralista. Questi parla brevemente : «è un dovere di ogni uomo

avere un mestiere». Di più non può dire. L'etica come tale è sempre astratta; ma un

mestiere in abstracto non esiste per tutti gli uomini; al contrario ogni uomo,

secondo la concezione etica ha un mestiere particolare. Quale mestiere debba

scegliere il nostro eroe? Su questo il moralista non lo può illuminare. Per far questo

è necessaria una conoscenza profonda dell'estetica in tutta la sua personalità; e

anche se il moralista avesse questa conoscenza si asterrebbe dallo scegliere per un

altro, poiché egli, a questo modo, rinnegherebbe la sua concezione di vita. Il

moralista insegna soltanto che esiste una vocazione per ognuno, e quando il nostro

eroe ha scelto la sua, egli gli raccomanda di sceglierla eticamente. Quello che

l'esteta infatti diceva intorno ai talenti aristocratici, è un parlare confuso e scettico

di quello che l'etica chiama mestiere. La concezione dell'esteta vede la vita dal

punto di vista della differenza: alcuni hanno talento, altri non l'hanno. Eppure

quello che li divide, a guardar bene, è un più o un meno, una determinazione

quantitativa. Per questo è una arbitrarietà, in questo più o meno, voler fermare un

punto nel quale il talento dovrebbe cominciare a cessare; eppure il nerbo della loro

concezione di vita sta proprio in questa arbitrarietà. La loro concezione di vita

perciò mette in tutta l'esistenza una discordia, che essi non si sentono in grado di

togliere, mentre con leggerezza e freddezza tentano di armarsi contro ad essa.

L'etica, al contrario, cerca di conciliare l'uomo colla vita, poiché dice: ogni uomo

ha un mestiere. Essa non annulla le differenze, ma dice: in tutte le differenze v'è un

universale, e in esso si fondano i vari mestieri. Il talento più eminente è un

mestiere, e l'individuo che lo possiede non può perder di vista la realtà, non può

porsi fuori dell'universale umano, perché il suo talento è un mestiere. Anche

l'individuo più insignificante ha un mestiere; egli non dev'essere espulso, non

dev'essere mandato a vivere tra le bestie, non sta al di fuori dell'universale umano,

perché ha un mestiere.

Il principio etico, che ogni uomo ha un mestiere esprime l'esistenza di un ordine

razionale delle cose in cui ognuno, se vuole, riempie il suo posto in modo da

esprimere insieme l'universale umano e l'individuale. Con questa considerazione è diventata meno bella la vita? No di certo. Al posto di una aristocrazia il cui

significato è fondato arbitrariamente sulla differenza casuale del talento, abbiamo

piuttosto un regno di Dei. In quale concezione la vita ci mostra un aspetto più bello e più lieto?

Non appena il talento non è più concepito come mestiere (se viene concepito come

mestiere, ogni uomo ha un mestiere) esso diviene assolutamente egoistico. Perciò

ognuno che giustifica il suo modo di vivere in virtù di un talento, difende, come

meglio può, un'esistenza da usurpatore. Egli non ha un'espressione più alta per il

talento se non quella che è un talento. Questo talento vuol dunque mettersi in

mostra come qualcosa di particolare, di eccezionale. Ogni talento perciò propende

a divenire il centro dell'esistenza, e ogni condizione deve esser utilizzata per

favorirlo; perché solo in questa selvaggia corsa in avanti sta il vero godimento

estetico del talento. ...

Il nostro eroe cosí ha trovato quello che cercava, un lavoro di cui vivere. Nello

stesso tempo questo lavoro ha acquistato un significato più profondo per la sua

personalità: è il suo mestiere e il suo perfezionamento soddisfa tutta la sua

personalità. Egli infine è entrato, mediante il suo lavoro, in un rapporto ben più

importante cogli altri uomini; siccome il suo lavoro è il suo mestiere, egli con

questo è messo sullo stesso gradino, in quello che è essenziale, con tutti gli altri

uomini; egli così, col suo lavoro, esercita il suo mestiere, come tutti gli altri. Egli

esige questo riconoscimento, altro non esige, perché questo è l'assoluto. «Se il mio

mestiere è meschino » dice, « pure posso essere fedele al mio mestiere, e così, per

l'essenziale, sono grande come il più grande, senza per questo essere, anche un solo

istante, tanto sciocco da voler dimenticare le differenze; io stesso lo sconterei più

degli altri, perché se le dimenticassi, vi sarebbe un mestiere astratto per tutti, ma un

mestiere astratto non è un mestiere, e io avrei di nuovo perduto tanto quanto i più

grandi. Se il mio mestiere è meschino, pure posso essergli infedele, e se lo sono,

commetto un peccato altrettanto grande di quello che commette l'uomo più grande.

Non sarò tanto sciocco da dimenticare le differenze o da credere che la mia

infedeltà debba avere delle conseguenze tanto corruttrici per il tutto come

l'infedeltà del più grande; finirei con scordarlo, perché io stesso sarei quello che

con ciò perderebbe di più. »

La concezione etica, che ogni uomo ha un mestiere, ha perciò due vantaggi nei

confronti della teoria estetica del talento. Essa mostra che non vi è nulla di casuale

nell'esistenza, ma solo l'universale, e quest'ultimo lo mostra nella sua vera bellezza.

Perché il talento è bello solo quando è interpretato come mestiere, e la vita è bella

solo quando ognuno ha un mestiere. Siccome le cose stanno cosí, ti pregherei di

non disdegnare una piccola osservazione empirica, che tu in rapporto alla

concezione principale avrai la bontà di considerare superflua. Quando qualcuno ha

un mestiere, è lieto di avere nella vita una norma al di fuori di sé, che, senza

renderlo uno schiavo, pure approssimativamente gli mostra quello che deve fare.

Egli sa come suddividere il suo tempo, sa quando deve cominciare. Se una volta

non ha successo, spera di poter far meglio un'altra volta, e la prossima volta non è

molto lontana nel tempo. Chi invece non ha nessun mestiere, se vuole porsi un

compito, molto sovente deve lavorare ben altrimenti. Non ha nessuna interruzione

nel lavoro, a meno che voglia interrompersi da sé. Se non vi riesce, tutto va a

monte, e fa grandissima fatica a ricominciare di nuovo, poiché gli manca

l'occasione. Allora è facilmente portato a diventare un pedante, per non diventare

un fannullone. E assai comune accusare di pedanteria le persone che hanno dei

compiti determinati, di regola persone del genere non possono assolutamente

diventare pedanti. Chi invece non ha compiti determinati, è portato a diventarlo,

per far da contrappeso alla troppo grande libertà, nella quale facilmente si può

sperdere. Gli si perdona facilmente la sua pedanteria, perché è segno di qualche

cosa di buono : ma d'altra parte deve essere considerata una punizione, perché ha

voluto emanciparsi dall'universale. …

Ritorniamo al nostro eroe. E strano, ma né tu, né io, né egli stesso, né il perspicace

esteta abbiamo osservato che il nostro eroe possiede un talento straordinario. La

spiritualità nell'uomo può esser latente per un lungo periodo, fino a che la sua

silenziosa crescita è giunta a un certo punto in cui improvvisamente si annuncia in

tutto il suo rigoglio. L'esteta dirà: « ormai è troppo tardi, ormai è rovinato, peccato

per lui! ». Il moralista invece direbbe: «è stato proprio un bene, poiché ora che ha

capito il vero, il suo talento non potrà più diventare una trappola davanti al suo

piede; vedrà che non occorre né indipendenza né cinque ore di lavoro da schiavi

per lasciarlo crescere in pace, ma che il suo talento è proprio il suo mestiere ».

Il nostro eroe lavora dunque per vivere; questo lavoro è anche il suo piacere; egli

attua il suo mestiere, compie il suo lavoro, e, per dirla in parole che a te fan orrore,

ha di che sostentarsi. Non perdere la pazienza: invece dei doni alati della poesia

egli ha ottenuto un buon stipendio con cui vivere dignitosamente. E poi? Sorridi;

pensi che io abbia ancora qualche cosa da dire; inorridisci già temendo la mia

prosaicità ed esclami : « ora non rimane altro che farlo sposare; ecco, prego, fategli

subito le pubblicazioni, io non avrò nulla da obiettare al suo ed al tuo pio proposito.

È incredibile quale logica assennata vi sia nella esistenza: di che vivere e una

moglie; perfino quel poeta ci canta a chiare note che dopo il pane quotidiano ci

vuole la moglie. Voglio protestare per una cosa sola, che tu chiami eroe il tuo

cliente. Sono stato molto docile e compiacente, non l'ho voluto condannare

irrevocabilmente, ho sempre sperato in lui, ma ora mi devi proprio scusare se me

ne vado per la mia strada e non ho più voglia di ascoltarti. Ho ogni stima per

l'uomo che si guadagna da vivere e per il marito, ma non chiamarlo eroe, e

speriamo che nemmeno lui pretenda di esserlo ». Con ciò vorresti dire che per

poter esser chiamato eroe sia necessario qualche cosa di straordinario. In questo

caso hai veramente delle magnifiche probabilità. Supponiamo che ci voglia molto

coraggio per fare le cose più comuni (chi mostra molto coraggio è un eroe, lo

sappiamo). Perché uno possa essere chiamato un eroe, non bisogna tanto riflettere a

quello che fa quanto al modo in cui lo fa. Uno può conquistare regni e paesi senza

essere un eroe, un altro invece nel signoreggiare il suo carattere può rivelarsi un

eroe. Uno può mostrare coraggio facendo cose straordinarie, un altro facendo cose

comuni. Ciò che importa è il modo in cui agisce. Non vorrai negare che il nostro

eroe ha mostrato finora una certa inclinazione per fare cose straordinarie; anzi non

oso ancora garantire del tutto per lui. Su questo, probabilmente, hai fondato la tua

speranza che egli divenga un vero eroe; per questo io ho temuto che egli divenga

un buffone. Io ho mostrato per lui la stessa indulgenza tua, fin dal principio ho

sperato in lui, l'ho chiamato eroe benché parecchie volte avesse dato segno di

volersi rendere indegno di questo titolo. Perciò se riesco a farlo sposare, lo lascio

tranquillamente scappar dalle mie mani e lo affido contento a quelle di sua moglie.

A causa della sua precedente insubordinazione egli si è qualificato in modo da

essere messo sotto particolare sorveglianza. Questo lavoro lo assumerà sua moglie,

e tutto andrà bene; poiché ogni volta che si sentirà tentato ad essere una persona

straordinaria sua moglie immediatamente lo orienterà di nuovo, e cosí egli, in tutta

calma, meriterà il nome di eroe, e la sua vita non sarà senza prodezze. E cosí io non

ho più altro da fare con lui; a meno che egli non si sentisse attratto verso di me,

cosí come anch'io mi sentirei attratto verso di lui, se egli persegue nel suo eroico

cammino. Così in me vedrà un amico, e la nostra relazione avrà il suo significato.

Egli si saprà rassegnare quando tu ti ritirerai da lui, tanto più che facilmente

potrebbe diventargli un po' sospettoso, il tuo compiacimento e il tuo

interessamento. A questo riguardo gli faccio i miei auguri ed auguro la medesima

fortuna ad ogni marito.

Ma siamo ancora ben lontani da quella conclusione. Tu puoi ancora sperare un

pochino e io, per parte mia, devo ancora temere un pochino. Il nostro eroe infatti è

un uomo come tutti gli altri, e ha perciò una certa tendenza per lo straordinario;

nello stesso tempo è un po' ingrato, e perciò vorrà di nuovo cercare la sua fortuna

presso gli esteti, prima di cercar rifugio presso il moralista. Egli sa, naturalmente, abbellire la sua ingratitudine; poiché, egli dice : « il moralista veramente mi tolse dal mio imbarazzo; la concezione che vede il senso della vita nell'agire la devo a lui e mi soddisfa pienamente; la sua serietà mi eleva. Invece per quel che riguarda

l'amore, mi piacerebbe godere la mia libertà, seguire del tutto gli impulsi del mio

cuore; all'amore non piace la grave serietà, esso esige la grazia e la leggerezza

dell'esteta ».

Vedi, ho ancora parecchi guai da sormontare con lui. Pare quasi che non abbia

capito quanto precede. Egli continua a credere che l'etica stia al di fuori

dell'estetica, e questo, nonostante che egli stesso debba confessare che è per la

concezione etica che la vita acquista la sua bellezza. Ma stiamo a vedere! ed ora

soffia un po' nel fuoco, così a me non mancheranno le deviazioni.

Benché tu non abbia mai risposto a una mia lettera precedente, né verbalmente né

per iscritto, credo che ricorderai il suo contenuto. Cercai di mostrare che il

matrimonio, proprio per il suo carattere etico, è l'espressione estetica più esatta

dell'amore. Probabilmente mi farai credito se io spero di poter persuadere il nostro

eroe con assai minor fatica di quella che impiegai per renderti comprensibile questa

mia concezione. Egli si è rivolto agli esteti e li ha poi abbandonati; da loro ha

imparato non quello che deve fare, ma piuttosto quello che non deve fare. È stato

per breve tempo testimone dell'astuzia di un seduttore, ha ascoltato i suoi viscidi

discorsi, ma ha imparato a disprezzare la sua arte, ha imparato a indovinare i suoi

pensieri, a vedere che è un bugiardo, un bugiardo quando finge amore, quando si

diletta di sentimenti nei quali forse una volta c'era della verità, quando

appartenevano a un'altra; egli è due volte mentitore, verso quella alla quale vuol far

credere di nutrire questi sentimenti, e verso quella alla quale appartengono di

diritto; ed è un bugiardo quando fa credere a se stesso che nel suo piacere vi sia

qualche cosa di bello. Ha imparato a disprezzare l'astuto scherno che dell'amore

vuol fare un gioco da bambini, che fa solo ridere. …

Per breve tempo si è lasciato cullare dalla sfiducia nella vita, che gli vuol insegnare

che tutto è vanità, che il tempo cambia ogni cosa, e che non bisogna fidarsi di

costruire in nessun luogo, e perciò non far mai dei piani per tutta la vita. La pigrizia

e la viltà in lui trovarono questa saggezza accettabilissima : è un abito comodo con

cui rivestirsi, e non disdicevole agli occhi degli uomini. Ma quando l'ha considerata

più a fondo, vi ha visto dentro l'ipocrisia, la frenesia del piacere nelle vesti

dell'umiltà, la bestia da preda vestita da pecora, e ha imparato a disprezzarla. Ha

compreso che è offensivo, e perciò non bello, voler amare una persona seguendo le

forze oscure nel proprio essere, e non seguendo la coscienza; voler amare in modo

che si possa pensare la possibilità della fine di questo amore, e che poi si osi dire:

io non ci posso fare nulla, i sentimenti non sono in potere dell'uomo. Ha capito che

è offensivo, e perciò brutto, voler amare con una parte dell'anima, e non con tutta

l'anima; far del proprio amore un momento, e ciononostante prendere tutto l'amore

di un altro; voler essere in un certo grado, un mistero e un segreto. Ha compreso

che sarebbe brutto se avesse cento braccia per poterne in una volta abbracciare

molte; egli ha un petto solo e desidera abbracciare solo una donna. Ha compreso

che sarebbe un'offesa volersi legare a un'altra persona come ci si lega alle cose

finite e casuali, condizionatamente, perché si possa, qualora si mostrassero delle

difficoltà, togliersi d'impiccio. Egli non crede che sia possibile che colei ch'egli

ama possa cambiarsi se non in meglio; e se questo dovesse succedere, egli crede

nella potenza della relazione perché tutto ritorni ad essere come prima. Riconosce

che quello che l'amore esige è come la tassa del tempio, un'imposta sacra che si

paga con una moneta siffatta che tutta la ricchezza del mondo non basta a far da

contrappeso se il conio è falso.

Come vedi, il nostro eroe è sulla buona strada. Ha perso la fede nella indurita

assennatezza degli esteti e non crede più al mito degli oscuri sentimenti, che

sarebbero troppo delicati per venir tradotti in dovere. Si è accontentato della

spiegazione datagli dal moralista, che è dovere di ogni uomo sposarsi; e ha

compreso bene, che colui che non si sposa, non è colpevole se non in quanto rifiuta liberamente il matrimonio; in questo caso egli pecca contro ciò che è universalmente

umano, che anche per lui costituisce un compito da tradurre in realtà; e ha

compreso che l'universale si realizza nel matrimonio. Il moralista non può portarlo

oltre, perché l'etica, come dicemmo, è sempre astratta, e può indicargli solo

l'universale. Cosí non gli può affatto dire con chi si debba sposare. Per far ciò

dovrebbe avere una esatta conoscenza di tutta l'estetica in lui; ma il moralista non

l'ha, e, anche se l'avesse, si guarderebbe bene dal distruggere le proprie teorie

coll'assumersi lui la scelta. Perciò quando ha scelto, l'etica sanzionerà la scelta e

darà al suo amore la consacrazione più alta. In un certo grado può essergli d'aiuto

anche nello scegliere, poiché lo libererà dalla superstizione della casualità (una

scelta soltanto estetica è propriamente una scelta infinita e quindi casuale).

Inconsciamente l'etica è d'aiuto ad ogni uomo, ma siccome agisce inconsciamente,

l'aiuto dell'etica prende l'aspetto di una svalutazione, quasi esprimesse solo la

meschinità della vita, mentre è un elevamento, che mette in valore la divinità della vita.

« Un uomo con questi ottimi principi » dici, « lo si potrà certo lasciar andare per

conto suo; da lui non ci si può più attendere nulla di grande. » Anch'io sono di

questa opinione, e spero che i suoi principi siano tanto solidi da non venir scossi

dal tuo scherno. Però vi è ancora una pericolosa scogliera intorno alla quale

dobbiamo navigare, prima di essere in porto. Il nostro eroe infatti ha sentito un

uomo del cui giudizio e del cui sapere egli ha grande stima, dire: siccome col

matrimonio ci si lega per tutta la vita ad una persona, bisogna esser molto prudenti

nella scelta; bisogna cercare una ragazza fuori dell'ordinario, che proprio per le sue

doti straordinarie ci dia affidamento per tutto il nostro avvenire. Questo

ragionamento ha fatto il suo effetto. Non ti vien voglia di sperare ancora un po' per

il nostro eroe? Io per conto mio temo per lui.

Esaminiamo la cosa fino in fondo. Tu credi che nel solitario silenzio del bosco abiti

una ninfa, un essere, una fanciulla. Orbene, questa ninfa, questa fanciulla, questo

essere abbandona la sua solitudine ed appare qui a Kopenhagen. .. Quando essa è

apparsa, il nostro eroe è diventato il fortunato al quale essa ha donato il proprio

amore. Dobbiamo trovarci d'accordo su questo? Io non ho nulla da obiettare,

perché sono già sposato. Tu invece forse ti sentirai un poco offeso perché un uomo

tanto comune è stato preferito a te. Ma siccome ti interessi anche del mio cliente, e

questa è l'unica via che gli rimanga per diventar un eroe ai tuoi occhi, gli concedi il

tuo consenso. Vediamo ora se il suo amore, il suo matrimonio diventano anch'essi

una cosa bella. L'essenza del suo amore e del suo matrimonio sta nel fatto che la

fanciulla è l'unica in tutto il mondo. L'essenza sta dunque nella sua eccezionalità;

felicità pari alla sua non la si può trovare al mondo, e proprio in questo sta la sua

felicità. Egli è tentato a non volersi affatto sposare con lei: non sarebbe una

profanazione di questo amore così eccezionale dargli un'espressione cosí comune e

volgare come il matrimonio? Non sarebbe impudente esigere che due amanti come

questi debbano entrare nella grande compagnia del matrimonio, di modo che, in un

certo senso, non vi sarebbe altro da dire di loro, se non quello che si dice di ogni

coppia di sposi, cioè che sono sposati? Questo probabilmente lo troverai molto ben

detto, e l'unica obiezione che avresti da fare sarebbe che è ingiusto che un pezzente

come il mio eroe debba portar via una fanciulla come quella; se egli invece fosse

stato un uomo straordinario, come sei per esempio tu, o un uomo straordinario

quanto lo è lei, tutto sarebbe a posto, e la loro relazione amorosa sarebbe la più

perfetta che si possa pensare.

Il nostro eroe si è messo in una situazione critica. Intorno alla fanciulla vi è un

parere solo : è una fanciulla straordinaria. Ma però, il nostro eroe ha egli stesso

riconosciuto la bellezza del matrimonio. Cosa ha dunque da obiettare al

matrimonio? Lo deruba forse di qualche cosa? Toglie bellezza a lei? Toglie

qualche differenza tra lei e le altre donne? Niente affatto. Ma gli mostra tutto

questo come casualità fin che non si è sposati. Solo quando si scorge anche

nell'eccezione l'espressione dell'universale, se ne prende saldamente possesso.  L'etica gli insegna che la relazione è l'assoluto. La relazione è infatti l'universale.

Gli toglie la gioia vanitosa di essere lo straordinario, per dargli la vera gioia di essere l'universale. Lo mette in armonia con tutta l'esistenza; gli insegna a rallegrarsi di essa. Come eccezione, egli è in conflitto con l'esistenza : se la sua

felicità è quella di essere fuori dell'universale, egli deve divenir cosciente della

propria esistenza come di un tormento per l'universale — e deve in verità essere

una sfortuna essere tanto fortunato che la propria fortuna, vista propriamente, è

diversa da quella di tutti gli altri. Come eccezione egli acquista la bellezza casuale

e perde la vera bellezza. Egli lo comprenderà e ritornerà al postulato etico, che è

dovere di ogni uomo lavorare e sposarsi; e vedrà così che non solo ha la verità

dalla sua, ma anche la bellezza. Lascia dunque che egli abbia quella meraviglia;

non verrà ingannato dalle differenze. Si rallegrerà intimamente per la bellezza, per

la grazia, per la ricchezza dello spirito, e per il calore dei sentimenti che essa

possiede, sentirà di essere felice, ma essenzialmente, dirà, non sono diverso da

qualunque altro marito; « perché la relazione è l'assoluto ». Supponiamo che abbia

una fanciulla meno dotata; sarà ugualmente contento della sua fortuna, perché dirà:

« anche se essa sta molto al di sotto di tante altre, essenzialmente mi rende

altrettanto felice, poiché la relazione è l'assoluto ». Egli non vuol disconoscere l'importanza

della differenza. Come ha compreso che non esiste un mestiere astratto,

ma che ognuno ha il suo, cosí comprenderà che non esiste nessun matrimonio

astratto. Il moralista gli dice soltanto che si deve sposare, non gli può dire con chi.

Il moralista gli indica l'universale nella differenza; egli accoglie la differenza

nell'universale.

La concezione etica del matrimonio ha perciò diversi vantaggi di fronte ad ogni

visione estetica dell'amore. Essa illumina l'universale non il casuale. Non mostra

come una coppia di persone eccezionali possano diventar felici in virtù della loro

eccezionalità, ma come lo può diventare ogni coppia di sposi. Vede la relazione

come l'assoluto e non cerca nella differenza una garanzia, ma la concepisce come

un compito. Vede la relazione come l'assoluto e perciò vede l'amore secondo la sua

vera bellezza, cioè secondo la sua libertà, e cosí comprende anche la bellezza storica.

Il nostro eroe vive dunque del suo lavoro; il suo lavoro è anche il suo mestiere,

perciò lavora con piacere; il suo mestiere lo mette in relazione con altre persone, e

mentre compie il suo lavoro, compie quello che gli potrebbe desiderare di compiere

nel mondo. È sposato, soddisfatto della sua casa, ed il tempo passa benissimo per

lui, egli non capisce come il tempo possa essere un peso per l'uomo, o possa

diventare un nemico della sua felicità, anzi, il tempo gli sembra che sia una vera

benedizione. A questo riguardo egli confessa di dover moltissimo a sua moglie. E

vero, credo di aver dimenticato di raccontarlo, è stata un equivoco la storia della

ninfa della foresta; egli non fu il fortunato prescelto, dovette accontentarsi di una

fanciulla come sono le fanciulle di solito, nello stesso senso in cui anch'egli è un

uomo come tutti gli altri. Pertanto egli è molto contento ugualmente, anzi una volta

mi confessò che crede che sia stata una fortuna non aver sposato quella meraviglia;

il suo compito forse sarebbe stato troppo grande per lui; dove tutto è già perfetto

prima di cominciare, è tanto facile combinare dei guai. Ora invece è pieno di

coraggio, di fiducia e di speranza, è addirittura entusiasta, e mi dice con entusiasmo: è la relazione che è l'assoluto; egli è convinto sopratutto che la relazione avrà il potere di sviluppare in questa comune fanciulla tutto quello che vi

è di bello e di grande; sua moglie con tutta modestia è dello stesso parere. Proprio, mio giovane amico, le cose di questo mondo sono ben strane; io non credevo proprio che vi fosse al mondo una meraviglia come quella di cui parli tu, ed ora

quasi mi vergogno di non aver voluto credere, poiché questa comune fanciulla, colla sua grande fede, è una meraviglia, e la sua fede è più preziosa di tutto l'oro del mondo. Riguardo a una sola cosa rimango il vecchio incredulo, non credo cioè che una meraviglia come questa si possa trovare nella solitudine delle foreste.

Il mio eroe, — o vuoi negargli ancora il diritto a questo nome? Non ti pare che il

coraggio che osa credere alla trasformazione di una semplice fanciulla in una

meraviglia, sia un coraggio eroico? — ringrazia specialmente sua moglie perché il

tempo ha preso un significato tanto bello per lui, e anche questo egli lo attribuisce,

in un certo grado, al matrimonio, ed in questo siamo completamente d'accordo noi

due mariti, lui ed io. Se avesse avuto quella ninfa dei boschi e non avesse osato

sposarla, avrebbe temuto che il loro amore divampasse in pochi e rari momenti

belli, ai quali sarebbero però seguiti dei fiacchi intervalli. Forse avrebbero

desiderato vedersi solo quando la vista reciproca avrebbe potuto diventare

veramente significativa; se questo qualche volta non si fosse verificato, egli teme

che tutta la relazione, poco a poco, si sarebbe dileguata nel nulla. Invece il modesto

matrimonio, che fa loro dovere di vedersi giornalmente, sian essi ricchi o poveri, ha

avvolto tutta la relazione di una intimità e cordialità che lo rendono felice. Il

prosaico matrimonio ha nascosto nel suo meschino incognito un poeta, che non

solo illumina la vita in certe occasioni, ma che è sempre alla mano e colle sue fini

note echeggia delicatamente anche nelle ore più squallide.

A questo riguardo, io condivido pienamente le idee del mio eroe intorno al

matrimonio. Risultano bene evidenti i suoi vantaggi, non solo nei confronti del

celibato, ma anche nei confronti di ogni relazione soltanto erotica. Quest'ultimo

punto l'ha messo in luce in questo momento il mio nuovo amico, perciò io mi

limito solo a commentare con due parole il primo punto. Per quanto intelligenti,

attivi, entusiasti di un'idea si possa essere, giungono pure dei momenti in cui il

tempo pare lungo. Tu schernisci molto spesso l'altro sesso; ti ho pregato sovente di

farne a meno; considera pure una fanciulla come un essere quanto mai imperfetto;

mi piacerebbe dirti: mio bravo sapientone, va dalla formica e diventa saggio,

impara da una fanciulla a far passare il tempo, perché essa ha un virtuosismo innato

per questo. Essa forse non ha una concezione del lavoro duro e continuo come

l'uomo, ma non è mai disoccupata, è sempre affaccendata e non si annoia mai. Ne

posso parlare per esperienza. A volte mi accade (ora però più raramente, perché

ritengo dovere di un marito sforzarsi di essere, per quanto possibile, dell'età della

moglie), a volte mi accade di starmene a oziare incantato. Ho finito il mio lavoro,

non ho voglia di nessuna distrazione, uno sfondo melanconico nel mio

temperamento ha il sopravvento su me; divento di molti anni più vecchio di quel

che sono, divento quasi estraneo alla vita familiare, vedo bene che essa è bella, ma

la vedo con occhi diversi dal solito; è come se io fossi un vecchio e mia moglie una

mia sorella più giovane, sposata felicemente, nella casa della quale io sono un

ospite. In momenti come questi le ore quasi cominciano a parermi assai lunghe. Se

mia moglie fosse un uomo, forse accadrebbe a lei quello che accade a me, e forse ci

fermeremmo tutti e due (il fermarsi di un orologio !); ma essa è una donna, ed in

buoni rapporti col tempo. È una perfezione della donna, questo segreto rapporto in

cui essa si trova col tempo, o è un'imperfezione? E perché essa è un essere più

terreno dell'uomo, o perché ha più dell'eternità in sé? Rispondimi, tu che sei una

testa filosofica. …

Quando sono nel mio studio, quando mi sento stanco, quando il tempo comincia a

pesarmi, sguscio in salotto, mi siedo in un angolo, non dico una parola per timore

di disturbarla nel suo lavoro, poiché benché questo sembri un gioco, procede con

una dignità ed una convenienza che incutono rispetto, ed essa è ben lontana

dall'essere quello che tu dici della signora Hansen, cioè una trottola, che gira

intorno e che col suo rumore amplifica nel salotto la musica coniugale. …

La donna ha sopratutto un altro talento innato, una dote originaria : un assoluto

virtuosismo per dar senso al finito. Quando fu creato l'uomo, eccolo signore e

padrone di tutta la natura; tutto lo splendore e la magnificenza della natura, tutta la

ricchezza delle cose finite non attendevano che il suo cenno, ma egli non sapeva

cosa dovesse fare di tutto questo. Le guardava, ma era come se tutto sparisse allo sguardo dello spirito, era come se muovendosi con un solo passo dovesse passar oltre a tutto. Così egli stava, figura imponente, pensieroso, sprofondato in sé, eppure comico, poiché fa ridere questo uomo così ricco che non sa come usare la sua ricchezza; ma è anche tragico non poter usare ciò che si ha. Allora fu creata la donna. Essa non fu imbarazzata, seppe subito come affrontare questo problema; senza far difficoltà, senza preparativi, essa fu subito pronta per cominciare. Questa

fu la prima consolazione che fu donata all'uomo. Essa si avvicinò all'uomo, felice

come un bambino, umile come un bambino, triste come un bambino. Voleva soltanto

essere un conforto per lui, lenire la sua nostalgia, una nostalgia che essa non

capiva, che essa neppure pensava di colmare; voleva solo fargli passare il tempo.

Ed ecco che il suo umile conforto divenne la gioia più ricca della vita, il suo

innocente passatempo la bellezza più dolce della vita, il suo gioco infantile divenne

il significato più profondo della vita. La donna capisce il finito, lo comprende fin

nelle radici : per questo essa è adorabile, e tale, a guardar bene, è ogni donna;

per questo è graziosa, e nessun uomo lo è; per questo è felice, come nessun

uomo può o deve essere; per questo è in armonia coll'esistenza, come nessun

uomo può o deve essere. Perciò si può dire che la sua vita è più felice di quella

dell'uomo, poiché colui che spiega qualche cosa sarà più perfetto di colui che va

in cerca di una spiegazione. La donna spiega le cose finite, l'uomo va a caccia di

quelle infinite. Cosí deve essere, e ognuno ha il suo dolore; la donna partorisce

con dolore, ma l'uomo concepisce le idee con dolore; la donna non conosce il

terrore del dubbio o le pene della disperazione, essa non sta al di fuori delle

idee, ma le riceve di seconda mano. Ma siccome la donna cosí spiega la

finitezza, essa è la vita più profonda dell'uomo, una vita che deve esser nascosta

e segreta, come è sempre la vita delle radici. Ecco perché odio quelle orribili

chiacchiere sull'emancipazione della donna. Dio non permetta che ciò avvenga

mai. Non ti posso dire quale dolore mi rechi questo pensiero quando penetra

nel mio animo, e nemmeno che appassionata amarezza, che odio io nutra per

tutti coloro che ardiscono pronunciare queste cose. Mi consolo vedendo che i

difensori di questa sapienza non sono astuti come serpi, ma solo comuni

imbecilli, le cui vuote chiacchiere non possono far del male. Perché se il serpe

potesse inocularle questo veleno, se la potesse tentare con questo frutto

apparentemente attraente, se questa epidemia dilagasse, se penetrasse fino a colei

che io amo, fino a mia moglie, mia gioia, mio rifugio, radice della mia vita, il

mio coraggio sarebbe spezzato, la passione per la libertà sarebbe infiacchita nel

mio animo; e so cosa farei allora, mi siederei sulla piazza a piangere, a piangere

come quell'artista il cui capolavoro era stato distrutto, e che non sapeva ricordare

cosa rappresentasse. Ma questo non succederà, non può e non deve succedere;

lascia che gli animi cattivi tentino, lascia che lo facciano quegli stupidi che non

hanno nessuna idea di cosa sia un uomo, né della sua grandezza né della sua

miseria, nessuna intuizione della perfezione che la donna realizza proprio nella

sua imperfezione! …

Intanto io me ne sto a predicare e dimentico quello di cui dovrei veramente parlare,

dimentico che è con te che devo parlare. Scusami; ti avevo completamente

dimenticato a causa del mio nuovo amico. Vedi, con lui parlo volentieri di queste

cose; perché egli non è uno schernitore ed è un marito, e solo chi ha occhi per la

bellezza del matrimonio capisce la verità delle mie asserzioni.

Ora ritorno al nostro eroe. Credo che meriti questo titolo, però per l'avvenire non

voglio più adoperarlo per lui; preferisco un'altra denominazione che mi è più cara,

e con tutto il cuore lo chiamo mio amico, come con gioia io mi chiamo amico suo.

Vedi, la sua vita l'ha provveduto di «quell'articolo superfluo che si chiama un

amico ». Tu credevi forse che avrei passato sotto silenzio l'amicizia, perché non ha

nessuna importanza etica, ma cade completamente sotto determinazioni estetiche.

Forse ti meraviglierà che io, volendone parlare, la menzioni solo ora : poiché

l'amicizia è il primo sogno della gioventù; è proprio nella giovinezza che l'anima la

ricerca, nella sua tenerezza e nel suo entusiasmo. Sarebbe perciò stato più giusto parlare dell'amicizia prima di permettere al mio amico di entrare nella condizione sacra del matrimonio. Potrei rispondere che, riguardo al mio amico, le cose stavano in un modo tanto strano che veramente egli, prima di sposarsi, non si era sentito

attratto da nessuno al punto da chiamare amicizia quella relazione; potrei

aggiungere che questo mi è stato caro, perché volevo trattare dell'amicizia per

ultimo, perché non credo che l'etica in essa abbia lo stesso valore come nel

matrimonio; e proprio in questo vedo la sua imperfezione. Questa risposta potrebbe

parere insufficiente, perché si potrebbe pensare che il mio amico fosse casualmente

anormale; per questo devo soffermarmi un po' più diffusamente su questo

argomento. Tu che sei un osservatore, confermerai la mia osservazione che le

individualità si differenziano in modo caratteristico a seconda del periodo in cui

cadono le loro amicizie, se nella primissima giovinezza o soltanto nell'età più

avanzata. Le nature più incostanti non hanno difficoltà a trovarsi a loro agio in se

stesse. Il loro io è, sin dal principio, moneta corrente, e subito avviene quella

circolazione che si chiama amicizia. Le nature più profonde non hanno tanta

facilità a trovare se stesse e, fintanto che non hanno trovato il loro io, non possono

desiderare che qualcuno offra loro un'amicizia che non possono ricambiare. Queste

nature in parte sono sprofondate in loro stesse, in parte sono osservatrici; ma un

osservatore non è un amico. In questo modo si potrebbe spiegare come le cose sono

andate per il mio amico. Non vi sarebbe nulla di anormale, e non sarebbe nemmeno

un cattivo segno. Però s'è sposato. Ora ci chiediamo se non è una cosa anormale

che l'amicizia sia apparsa soltanto dopo; poiché in quanto precede fummo

d'accordo nel ritenere che è giusto che l'amicizia possa subentrare nell'età più matura;

ma non parlammo della sua relazione col matrimonio. Approfittiamo ancora

una volta delle tue e delle mie osservazioni. Dobbiamo accogliere nel nostro studio

anche la relazione coll'altro sesso. A quelli che cercano la relazione d'amicizia

nell'età molto precoce, sovente accade che, quando comincia a farsi valere l'amore,

l'amicizia impallidisce completamente. Trovano che l'amicizia è una forma più imperfetta,

rompono i rapporti precedenti e raccolgono tutta la loro anima esclusivamente nel matrimonio. Il contrario accade ad altri. Coloro che gustarono troppo presto le dolcezze dell'amore, forse ebbero una concezione errata dell'altro

sesso, e forse divennero ingiusti. Colla loro leggerezza forse acquistarono amare

esperienze, forse cedettero a sentimenti in loro che poi si mostrarono incostanti; o cedettero a sentimenti negli altri che scomparvero come un sogno. Così abbandonarono l'amore che era per essi, insieme, troppo e troppo poco, perché

erano venuti in contatto colla dialettica dell'amore senza poterla sciogliere.

Scelsero perciò l'amicizia. Ambedue queste formazioni devono esser considerate

anormali. Il mio amico non è in nessuno di questi due casi. Egli non ha fatto

giovanili tentativi nell'amicizia prima di imparare a conoscere l'amore, ma non ha

neppure fatto del male a se stesso, col godere troppo presto il frutto acerbo

dell'amore. Nel suo amore trovò la soddisfazione più profonda e completa; ma

proprio perché egli stesso aveva raggiunto una quiete cosí completa, gli apparve la

possibilità di altre relazioni che, in un modo diverso, potevano ricevere un

significato profondo e bello per lui; poiché a chi ha, verrà dato, e avrà in

sovrabbondanza. A questo riguardo, egli di solito ricorda che vi sono degli alberi in

cui il fiore viene dopo il frutto oppure è anche contemporaneo ad esso. Egli

paragona la sua vita a queste piante.

Ma proprio perché nel matrimonio, e per esso, egli imparò a vedere la bellezza

dell'amicizia, non ha dubitato nemmeno un attimo su come bisogna considerare

l'amicizia, e ha capito che questa perde la sua importanza quando non la si

considera eticamente. Se le sue precedenti esperienze avevano quasi

completamente annientata la sua fede negli esteti, il matrimonio ne ha estirpato

anche l'ultima traccia nel suo animo. Egli perciò non ha sentito nessun bisogno di

lasciarsi sedurre dai miraggi dell'estetismo, ma si è subito acquietato nella

concezione dell'etica.

Se il mio amico non fosse stato di questo avviso, avrei provato piacere di mandarlo

da te per punizione; quello che tu dici dell'amicizia è talmente contorto che

probabilmente gli avresti fatto girare la testa. Ti accade coll'amicizia quello che ti

accade con tutto. La tua anima manca talmente di concentrazione etica, che si

possono aver da te, intorno alla stessa questione, opposte spiegazioni, e le tue

osservazioni dimostrano perfettamente l'esattezza del detto che sentimentalismo e

mancanza di cuore sono una cosa sola. La tua concezione dell'amicizia si può

paragonare a una lettera magica : chi la vuole adoperare deve diventar pazzo come

chi la cede, e fino ad un certo punto bisogna supporre che lo sia. Se ti si sente

declamare quel che ti passa per il cervello, sulla divina gioia di amare i giovani,

sulla bellezza dell'accordo delle anime che si incontrano, si è quasi tentati a temere

che la tua sentimentalità ti costi la tua giovane vita. In altri momenti parli di nuovo

come un vecchio praticante che abbia imparato abbastanza a conoscere il vuoto e la

vacuità del mondo. «Un amico », dici allora, «è una cosa misteriosa, lo si vede,

come una nebbia, solo a distanza, poiché soltanto quando si è infelici si comprende

di aver avuto un amico. » È facile vedere che base di un simile giudizio

sull'amicizia è una esigenza ben diversa da quella che avevi prima. Prima parlavi

dell'amicizia intellettuale, della bellezza dell'amore spirituale, di una comune

passione per le idee : ora parli di un'amicizia pratica nelle cose di questo mondo, di

una reciproca assistenza nelle difficoltà della vita terrena. In entrambe queste

esigenze vi è qualche cosa di vero, ma se non si può trovare il loro punto di unione,

si è costretti a concludere con te che l'amicizia è un non senso. Questo è sempre il

risultato al quale arrivi, sia che tu consideri singolarmente i diversi aspetti

dell'amicizia, sia che tu provi la loro reciproca esclusione.

Condizione assoluta per l'amicizia è l'unità della concezione di vita. Quando essa

esiste, non ci si sente tentati a voler giustificare la propria amicizia con sentimenti

oscuri e con inspiegabili simpatie. E non succederà che l'amicizia sia, come il

tempo, mutevole di giorno in giorno. Non si vuole disconoscere l'importanza

dell'inspiegabile simpatia; infatti in senso rigoroso non si è amici di chiunque

condivida la nostra concezione di vita. Ma non ci si deve nemmeno limitare alla

mera simpatia in tutto il suo mistero. Una vera amicizia esige sempre la coscienza,

ed è questo che la mette a un piano ben più alto dell'esaltazione.

La concezione di vita in cui si è concordi deve essere però una concezione positiva.

Così il mio amico ed io abbiamo in comune una concezione positiva. Perciò,

quando ci vediamo, non ci accade quello che accadeva a quegli auguri che si

mettevano a ridere, quando si incontravano; noi ci guardiamo con serietà negli

occhi. Era giustissimo che gli auguri ridessero, perché la concezione di vita che

avevano in comune era negativa. Questo lo comprendi molto bene, perché è uno

dei tuoi desideri esaltati di trovare un'anima in armonia alla tua colla quale ridere di

tutto; «perché è terribile e angoscioso nella vita, che quasi nessuno si accorga di

quanto è penoso stare al mondo; e di questi pochi solo pochissimi sanno mantenersi

di buon umore e ridere di tutto ». Se non riesci ad appagare la tua aspirazione, ti sai

rassegnare: « Il vero pessimista riconosce come conseguenza di tutta quanta la sua

visione della vita, che egli, solo con se stesso, può ridere del mondo; se trovasse

compagnia, il mondo non sarebbe poi tanto brutto ». Con questo ragionamento il

tuo pensiero è messo in gran movimento, e non conosce limiti. Pensi che «perfino

il ridere è solo un'espressione imperfetta del vero scherno sulla vita. L'irrisione più

completa dovrebbe avvenire in serietà. Sarebbe lo scherno più perfetto del mondo

se chi ha esposto la verità più profonda non fosse un esaltato, ma uno scettico. E

non sarebbe nemmeno assurdo : nessuno sa esporre verità positive con tanto garbo

come lo scettico, solo che egli stesso non vi crede. Se fosse un ipocrita ad esporle,

finirebbe collo schernire se stesso; ma se è uno scettico, che forse desidererebbe

credere a quello che espone, lo scherno è assolutamente obiettivo : l'esistenza

schernirebbe attraverso se stessa. Egli espone una dottrina che potrebbe spiegare

tutto, l'intero genere umano ci si potrebbe affidare; ma questa dottrina non può

spiegare il proprio creatore. Se un uomo fosse tanto furbo da poter nascondere di esser pazzo, potrebbe far impazzire tutto il mondo ». Ecco, quando si ha una concezione di vita come questa, è difficile trovare un amico che la condivida. …

L'amicizia dunque esige una concezione di vita positiva. Ma non si può pensare una concezione positiva della vita che non abbia un momento etico in sé. Ai nostri giorni si trovano spesso delle persone che hanno adottato un sistema in cui l'etica non si trova affatto. Lascia che abbiano anche dieci sistemi, ma non hanno una concezione di vita. …

Se si considera l'amicizia eticamente, essa acquista nello stesso tempo bellezza e significato. Devo citare un'autorità per me contro te? Orbene, come concepiva l'amicizia Aristotele? La fece punto di partenza per tutta la concezione etica della

vita, poiché coll'amicizia, dice, si amplifica il concetto del diritto, cosicché

amicizia e diritto van per la stessa strada. Egli fonda così il concetto del diritto

sull'idea dell'amicizia. La sua concezione è così, in un certo senso, più perfetta di

quella moderna che fonda il diritto sul dovere, su di un astratto come l'imperativo

categorico; egli lo fonda sulla società. Da questo è facile vedere che l'idea dello

Stato diventa per lui il valore più alto; ma questo è un lato imperfetto della sua concezione.

Però non mi azzarderò ad entrare in ricerche così sottili come lo studio del rapporto

tra la concezione etica aristotelica e quella kantiana. Citai Aristotele soltanto per

ricordarti che anch'egli capiva che l'amicizia contribuisce a realizzare una visione

etica della realtà.

Chi considera l'amicizia eticamente, la considera dunque come un dovere. Potrei

perciò dire che è dovere di ognuno avere un amico. Però preferisco adoperare

un'altra espressione, che mette in evidenza i comuni aspetti etici nell'amicizia e nel

matrimonio, e insieme fa rilevare nettamente la differenza che passa tra etica e

estetica : è dovere di ogni uomo manifestarsi. La Scrittura dice che ad ogni uomo

tocca morire e poi apparire in giudizio, dove tutto diventerà manifesto. L'etica dice

che il significato della vita e della realtà è che l'uomo diventi manifesto. Se egli non

lo diventa, il suo manifestarsi apparirà come un castigo. L'esteta invece non vuol

dar importanza alla realtà; egli rimane costantemente nascosto, poiché per quanto

spesso e intensamente egli si dedichi al mondo, non lo fa mai totalmente, rimane

sempre qualche cosa che egli tiene indietro; se lo facesse totalmente, sarebbe in un

atteggiamento etico. Pure il voler giocare a nascondersi si sconta sempre e nel

modo più naturale, col diventar misteriosi a se stessi. E per questo che tutti i

mistici, quando non riconoscono l'esigenza che la realtà pone di diventar manifesti,

si incontrano con difficoltà e tribolazioni quali nessun altro conosce. E come se

scoprissero un mondo completamente diverso, come se il loro essere fosse

sdoppiato. Chi non vuol combattere con le realtà, deve combattere coi fantasmi.

Con questo ho finito per questa volta. Non è mai stata mia intenzione esporti una

dottrina del dovere. Volevo solo mostrarti come l'etica, nei diversi casi, non toglie

affatto alla vita la sua bellezza, ma gliela dona. Dona pace, sicurezza, fiducia nella

vita, perché ci grida costantemente: quod petis, hic est2. Salva da ogni

fantasticheria che voglia indebolire l'anima, e le dona salute e forza. Le insegna a

non sopravalutare il casuale e a non idolatrare la felicità. Insegna ad esser contenti

nella felicità, e, con una saggezza che l'esteta non conosce, insegna ad esser

contenti nell'infelicità.

Considera ciò che ho scritto come insignificante, come delle note marginali agli

elementi dell'arte di vivere; non importa. Ma ciò che ti ho scritto ha ugualmente

un'autorità, che spero vorrai rispettare. O forse ti pare che io me la sia voluta

accaparrare ingiustamente? Che io abbia fatto valere, senza tatto, la mia posizione

borghese in questa faccenda? Che mi sia eretto giudice, mentre non son che una

parte? Rinuncio volentieri ad ogni pretesa; di fronte a te non rappresento nemmeno

2 Cit. da Orazio, Epist. I, n, 29. (N. d. T.)

una parte. Riconosco di buon grado che l'estetica potrebbe benissimo darti la

procura per agire per conto suo, ma io sono ben lontano dal sentirmi così importante

da agire quale procuratore per l'etica. Io non sono che un testimone e solo in

questo senso attribuisco a questa lettera una certa autorità; poiché chi parla di

quello che ha esperimentato può sempre parlare con autorità. Sono solo un

testimone, e qui hai la mia testimonianza in ottima forma.

Esercito la professione di assessore in tribunale, sono contento del mio mestiere,

credo che corrisponda alle mie facoltà ed a tutta la mia personalità, so che esige

tutte le mie forze. Cerco di perfezionarmi sempre più, e, mentre lo faccio, sento

anche che mi evolvo sempre più. Amo mia moglie, sono felice nella mia casa;

ascolto le nenie che mia moglie canta alla culla, e il suo canto mi pare più bello di

ogni canto, senza per questo credere che essa sia una cantante; sento gli strilli del

piccolo che al mio orecchio non sono disarmoniosi; vedo il suo fratellino maggiore

che cresce e progredisce e guardo contento e fiducioso verso il suo avvenire; non

sono impaziente, perché ho tempo da attendere, e questa stessa attesa è una gioia

per me. La mia opera ha importanza per me stesso e credo che, in un certo senso,

l'abbia anche per altri, anche se non ne posso determinare e misurare esattamente la

portata. Provo gioia perché la vita personale degli altri ha importanza per me, e

spero e desidero che anche la mia ne possa avere per coloro i quali simpatizzano

con tutta la mia concezione di vita. Amo la mia patria natale, e non posso

immaginare di potermi trovare bene in nessun altro paese. Amo la mia lingua, che

libera il mio pensiero, trovo che quello che posso avere da dire nel mondo lo posso

esprimere magnificamente con essa. In questo modo la vita ha significato per me,

tanto da sentirmene contento e soddisfatto. Nello stesso tempo vivo una vita più

alta, e quando a volte accade che io respiri questa vita più alta nel respiro della mia

vita terrena e familiare, mi stimo beato, e si fondono per me l'arte e la grazia. E così

che io amo l'esistenza, perché è bella e ne spero una ancor più bella.

Ecco la mia spiegazione come testimone. Se dovesse sorgermi un dubbio se ho

fatto bene a darla, sarebbe per riguardo a te: perché temo quasi che ti possa far

male sentire che la vita nella sua semplicità possa esser tanto bella. Accetta però la

mia testimonianza, lascia che ti cagioni un po' di dolore, ma lascia anche che ti

cagioni della gioia; ha una certa qualità di cui purtroppo è priva la tua vita : la

fedeltà. Su di essa puoi costruire confidente.

S. Kierkegaard, Aut-Aut, Arnaldo Mondadori, Milano, 2008. Estratti pag. 56-65, 71-101,

160- 209

 

Diario del seduttore (1843)3

Non posso celarlo a me stesso: a mala pena domino l'ansia che in questo attimo

m'assale, allorché, spinto dal mio interesse, mi risolvo a trascrivere accuratamente

la copia affrettata che, a gran precipizio e con molto affanno, riuscii a

procurarmi allora. L'episodio, oggi come allora, mi si presenta innanzi

egualmente angoscioso ma anche altrettanto pieno di rimproveri. Contrariamente

al solito, egli non aveva chiusa a chiave la sua scrivania, il cui intero contenuto

in tal modo giaceva a mia disposizione, e inutilmente ora cercherei di giustificare

il mio contegno ricordando a me stesso che io non aprii nessun cassetto. Un

cassetto era aperto.

Dentro c'era un mucchio di fogli sparsi e, sopra questo, stava poggiato un

volume in quarto, elegantemente rilegato. Sulla pagina su cui s'apriva era

attaccato un pezzo di carta bianca, sul quale di proprio pugno egli aveva scritto:

Commentarius perpetuità n. 4. Sarebbe pertanto inutile illudersi che se il

libro non fosse stato aperto su quella pagina e il titolo non fosse stato così allettante

io non avrei ceduto alla tentazione, o almeno avrei cercato di resistervi. Il titolo

in sé era già strano, e se non proprio per se stesso almeno per quel luogo. Da una

fuggevole occhiata ai fogli sparsi appresi che essi non contenevano altro che

allusioni a episodi erotici, qualche accenno a relazioni personali e abbozzi di

lettere di natura privatissima, di cui in séguito imparai a conoscere l'artificiosa,

calcolata negligenza. Se ora, dopo che ho penetrato l'intimo tenebroso di

quell'uomo corrotto, rievoco l'istante in cui, la mente tesa e gli occhi ben

aperti, m'avvicinai a quel cassetto, provo un'impressione simile a quella che deve

provare un questurino allorché penetra nel covo di un falsario e, rovistando tra

le sue cose, scopre in un cassetto un mucchio di fogli sparsi e di bozze di

stampa: su una c'è un pezzetto di arabesco, su un'altra un monogramma, su una

terza una filigrana a rovescio; ha così la prova evidente di trovarsi sulla pista

giusta, e dentro di lui alla gioia della scoperta si mescola un senso di

ammirazione per lo studio e la diligenza impiegati in quel falso. Per me,

invece, era ben diverso, che non ero abituato a indagare delitti e, in quel caso,

neppure ero munito d'un mandato poliziesco. Avrei desiderato che in tutto il suo

peso mi si fosse palesata la verità: che mi stavo cioè avviando per una strada

affatto illegale; ma in quel momento, come generalmente succede, mi sentivo

non meno povero di pensieri che di parole. Spesso noi veniamo sopraffatti da

un'impressione, finché la riflessione di nuovo non ci libera e, mutevole e solerte

nella sua azione, riesce a penetrare l'imponderabile incognito. Ebbene,

malgrado che la mia facoltà, di riflettere sia fortemente sviluppata, sulle prime

io rimasi profondamente costernato. Ricordo benissimo: impallidii, e quasi fui

sul punto di cadere privo di sensi. E quale angoscia me ne derivò! Se lui fosse

rincasato e m'avesse trovato svenuto, con il cassetto in mano... una cattiva

coscienza è pur capace di rendere la vita interessante!

… Il titolo del libro, di per sé, non mi aveva grandemente impressionato.

Pensai che si trattasse di una raccolta di estratti, la qual cosa mi pareva

abbastanza naturale dato che lo sapevo così assiduo nei suoi studi. Ma il

contenuto era ben altra cosa. Si trattava, né più né meno, di un diario, e

diligentemente redatto per giunta. Benché io non ritenga, per come

precedentemente ebbi a conoscerlo, che la sua vita avesse gran bisogno di un

commentario, tuttavia non potrei negare, dopo l'occhiata che v'ho data ora, che il

titolo fosse scelto con molto gusto e appropriatezza, con una obiettività superiore

e davvero estetica, nei confronti propri e della situazione. Quel titolo è in

3 Benché in seguito il testo sia stato pubblicato separatamente, in origine costituiva una parte di Aut-Aut.

perfetta armonia con il contenuto del libro. La sua vita, infatti, fu costantemente

ispirata al di vivere poeticamente. Dotato di una sensibilità sviluppatissima,

continuamente egli riusciva a ritrarre poeticamente la propria esperienza. …

Io conobbi quella fanciulla della cui storia principalmente tratta il diario. Se

altre ancora ne abbia sedotte, ignoro; ciò potrebbe risultare in seguito dalle sue

carte. Sembra pertanto che in questo caso egli fosse stato sollecitato a tenere

tutt'altro comportamento, il che sarebbe abbastanza caratteristico in lui dato che,

dopo tutto, egli era troppo spiritualmente dotato per essere un seduttore nella

comune accezione della parola. Dal diario stesso si ricava che sempre gli

appartenne una certa ricercatezza: non bramava, ad esempio, nient'altro che

un saluto, se il saluto era quanto di meglio offriva la vittima designata, e a

nessun prezzo avrebbe accettato di più. Avvalendosi delle sue doti naturali, egli

sapeva circuire una fanciulla fino al punto da legarla a sé, senza curarsi poi di

possederla in senso stretto. Immagino che sapesse spingere una fanciulla fino al

punto da essere poi sicuro che tutto ella avrebbe sacrificato per lui. Giunto a

tanto, troncava ogni cosa, senza che da parte sua fosse occorsa la benché minima

pressione, senza che un solo accenno fosse stato fatto all'amore, senza neppure

una dichiarazione o una promessa. Eppure a tanto era arrivato; e dalla

consapevolezza di ciò una doppia amarezza derivava alla infelice, perché ella

non aveva la minima cosa a cui richiamarsi e perché vagava tra disparatissimi

stati d'animo, in una terribile ridda infernale. Semmai, perdonando a lui, a se

stessa faceva rimproveri, tosto lui dopo rimproverava, e allora, giacché la

relazione aveva avuto realtà soltanto in senso improprio, continuamente

doveva combattere col dubbio che tutto non fosse stato altro che pura

immaginazione. E neppure poteva confidarsi con qualcuno, poiché in effetti

non aveva alcunché da confidare. Qualora s'abbia sognato si può raccontare ad

altri il proprio sogno, ma quel che ella aveva da raccontare non era un sogno: era

realtà; e pertanto, appena voleva riferirlo ad altri per alleggerire il suo cuore

afflitto, tutto ritornava nel nulla. E questo ella lo avvertiva benissimo da sé. Se

tutto ciò nessuno poteva comprendere, tanto meno lei stessa vi riusciva, malgrado

che la opprimesse col peso angoscioso del dubbio. Le sue vittime, quindi,

erano d'un tipo tutto particolare. Non si trattava affatto di fanciulle infelici che

scacciate, o nell'idea di essere scacciate dalla società, in preda all'angoscia,

quando il cuore trabocca, s'affannano disperatamente, abbandonandosi all'odio o

al perdono. Nessun cambiamento notevole avveniva in esse, continuavano a

mantenere, stimate come sempre, le abituali relazioni; eppure un mutamento,

oscuro a loro stesse e incomprensibile agli altri, era in esse avvenuto. La loro vita

non era, come quella delle sedotte, schiantata, spezzata: esse erano state

soltanto piegate nel loro intimo. Perdute agli altri, invano cercavano di

ritrovare se stesse. E come si sarebbe potuto dire che il suo cammino attraverso

la vita non lasciava traccia alcuna (giacché i suoi passi erano a tal punto

regolati che poteva controllarne ogni impronta, ed io riesco ad immaginare

l'infinita diligenza che egli impiegava in questo), altrettanto vero era che

nessuna vittima cadeva al suo passaggio. Aveva una vita spirituale troppo

sviluppata per essere un seduttore dei soliti. Nondimeno, egli assumeva talvolta

un corpo panasiatico, divenendo allora affatto sensuale. Per di più, la sua storia

con Cordella è a tal punto complicata che perfino gli fu possibile d'apparire

lui come il sedotto e la stessa infelice Cordella poteva talvolta abbandonarsi a

un simile dubbio, giacché anche nel suo caso egli seppe rendere le proprie

tracce talmente incerte che qualsiasi prova era impossibile. Egli si serviva degli

individui soltanto come incitamento per gettarli poi via da sé, così, come gli

alberi si scrollano delle foglie: lui ringiovaniva, le foglie appassivano.

Ma nel suo intimo egli come giudicava tutto questo? Come ha indotto altri a

smarrirsi così, io credo, egli stesso finirà con lo smarrirsi. Non ha sconvolto gli altri

solo esteriormente, ma nel profondo del proprio intimo. Guidare un viandante che

sia incerto della strada su un falso sentiero, ovvero lasciare uno nel proprio errore, è azione abbastanza torbida, ma non tanto come il guidare un uomo a sperdersi in se stesso. Al viandante smarrito è pur sempre di conforto il paesaggio

che muta continuamente intorno a lui, e a ogni svolta nasce pur sempre la

speranza di trovare finalmente una via d'uscita; ma colui che s'è smarrito in se

stesso non ha un si grande spazio entro cui aggirarsi. Comprende subito di trovarsi

in un labirinto da cui non potrà mai più uscire. Questo, io credo, potrà anche

a lui capitare una volta o l'altra, ma il suo caso allora sarà ben più orribile.

Nulla so immaginare di più penoso d'un ingegno intrigante che smarrisca il suo

orientamento e che, allorché la coscienza gli si ridesta, per cercare di venire a

capo di quello smarrimento rivolga contro se stesso tutto il suo acume.

Inutilmente la sua tana di volpe possiede molte uscite! Nell'attimo stesso in. cui

la sua anima angosciata già crede di vedervi piovere dentro la luce del giorno,

s'accorge che quella è una nuova entrata e, quale fiera atterrita, cerca sempre

uscite, e trova solo entrate che lo riconducono a se stesso. Un uomo simile

non bisognerebbe sempre chiamarlo delinquente, che molto spesso egli è

ingannato dai suoi stessi intrighi e quindi incorre in un castigo ben più

tremendo che non un delinquente vero, giacché: che cos'è il tormento

dell'espiazione in confronto a questo cosciente delirio? Il suo castigo ha un

carattere puramente estetico, perché perfino il risveglio della coscienza è per lui

un termine troppo etico. La coscienza gli appare solo sotto forma di una

superiore conoscenza che si esterna come inquietudine e nemmeno propriamente lo

accusa, ma lo tien desto e nessun riposo concede alla sua sterile irrequietezza. E

tuttavia non è nemmeno un pazzo, giacché l'infinita molteplicità dei suoi

pensieri non ancora s'è pietrificata nell'eternità della pazzia.

Anche la povera Cordella difficilmente riuscirà a trovare pace. Ella gli perdona

dal profondo del cuore, eppure non trova requie, perché il dubbio torna a ridestarsi

in lei: fu lei che ruppe il fidanzamento, fu lei stessa la cagione della propria

infelicità, fu il suo orgoglio che bramò l'insolito. Prova allora rimorso, ma lo

stesso non ha requie perché subito la sua coscienza le dice che lei è innocente:

fu lui che, conscio del proprio inganno, suggerì quella condotta alla sua

anima. Infine odia, il suo cuore trova sollievo nella meditazione, ma ella non

trova requie, perché torna a farsi rimproveri: rimproveri per averlo odiato e per

aver ella stessa peccato, rimproveri perché ella, per quanto ingannata

dall'astuzia di lui, rimane pur sempre colpevole. Grave è per lei l'inganno

subito da lui, ma ancora più grave, oseremmo dire, fu la riflessione che egli

destò in lei, lo sviluppo estetico che egli le diede, tale che non più ormai ella sa

porgere umilmente l'orecchio a una sola voce, ma più discorsi in una volta riesce

ad ascoltare.

Quando i ricordi si ridestano nella sua anima, colpa e peccato ella dimentica,

e riandando agli attimi felici si lascia stordire da una esaltazione innaturale. In

simili momenti ella non solo lo ricorda, ma lo rievoca con una clair voyamee

che dimostra fino a qual punto ella fu plasmata. In tali istanti non scorge più in lui

il criminale, ma neppure l'uomo nobile: ella lo percepisce solo esteticamente.

Una volta mi scrisse un biglietto in cui così si pronunciava sul conto di lui:

“Talvolta egli era così spirituale che io come donna mi sentivo annichilita,

tal'altra così impetuoso e appassionato e seducente che io quasi tremavo innanzi

a lui. Talvolta sembrava che gli fossi sconosciuta, tal'altra tutto s'abbandonava a

me; se mai poi lo cingevo con le mie braccia, allora improvvisamente tutto

svaniva e io non abbracciavo che nuvole. Conoscevo questa espressione già

prima di conoscere lui ma egli m'insegnò a comprenderla, e ogni volta che

l'adopero sempre penso a lui che, credo, riesce a conoscere ogni mio

pensiero. Io ho amato sempre la musica, egli era un incomparabile strumento,

sempre accordato e d'una ricchezza di toni quale nessun altro strumento ha. Tutti

i sentimenti e tutti gli stati d'animo erano fusi in lui; nessun pensiero era troppo

elevato per lui, nessuno troppo disperato.

Sapeva infuriare come un temporale d'autunno, ma sapeva anche sussurrare

impercettibilmente. Non una sola mia parola era priva d'effetto per lui, e pure non

saprei dire se alle mie parole non ne mancò, perché mi era impossibile sapere

quale effetto avrebbero sortito. Con un indescrivibile, eppur misterioso e beato

senso d'angoscia, io ascoltavo quella musica che io stessa evocavo e pure non

evocavo. Una musica, con la cui dolce armonia egli sempre sapeva trascinarmi”.

Se questo è terribile per lei, ancora più terribile sarà per lui l'espiazione; lo

posso arguire dall'ansia che mi afferra e che a malapena riesco a dominare ogni

qualvolta che vado pensando a tutto ciò. Anch'io vengo trascinato in quel regno

delle nebbie, in quel mondo di sogni dove ad ogni istante perfino la propria ombra

suscita terrore. Inutilmente cerco di liberarmene: lo inseguo come un

minaccioso figuro, come un muto accusatore.

Quale stranezza! Su tutto egli ha disteso il velo del più profondo mistero,

eppure un segreto rimane, ancor più profondo, ed è che io sono iniziato a questo

suo segreto. Si, vi fui iniziato nella maniera più illecita.

Dimenticare tutto è impossibile. Talvolta ho perfino pensato di parlarne con lui. Ma

quale sollievo ne trarrei? O mi farebbe una quantità di domande, sostenendo poi

che il Diario fu un suo tentativo poetico, oppure mi ingiungerebbe di tacere, e

questo non potrei negarglielo, considerato il modo con cui fui iniziato al suo

segreto. Niente comporta tanta seduzione e tanta maledizione quanto un segreto.


Amo Cordella?4 sì! Sinceramente? sì! Lealmente? sì!... In senso estetico, e Ciò significa pure qualche cosa. Quale giovamento ne avrebbe tratto questa fanciulla se fosse caduta tra le braccia di un qualsiasi marito fedele? Che cosa ne

sarebbe stato di lei? Nulla. Si dice che al mondo c’è bisogno di qualcosa di più

della lealtà per vivere; io direi: c'è bisogno di qualcosa di più della lealtà per

amare siffatta fanciulla. Questo di più l'ho io: è la falsità. Eppure io l'amo

lealmente. Con severità e moderazione, vigilo su me stesso affinché tutto quel

che è in lei, tutta la sua ricca e divina natura, possa mostrarsi. Io sono uno dei

pochi che possa riuscirci; ella è una delle poche che lo merita. Non siamo, per

questo, fatti l'uno per l'altra? …

In tal modo io constato, quanto più considero la cosa, che la mia pratica è in

perfetta armonia con la mia teoria. Il convincimento cioè che la donna

essenzialmente esista per un altro essere ha sempre informata la mia pratica.

Donde l'infinita importanza che in questi casi acquista l'attimo; giacché

l'esistere per gli altri è sempre questione di attimo. Molto o poco tempo potrà

trascorrere prima che l'attimo giunga, ma allorché è giunto, quello che

originariamente era un essere che esisteva per gli altri, assume una natura relativa,

per cui cessa di essere. So bene che gli ammogliati favellano di una loro teoria, che

la donna cioè anche in un altro senso sia un essere che esiste per gli altri,

essendo per essi tutto per tutta la vita.

Bisogna pur essere indulgenti con gli ammogliati. In verità, io credo che questa

teoria siano essi stessi a suggerirsela a vicenda. In generale, in questa vita,

ogni condizione ha certi usi convenzionali e, specialmente, certe menzogne

convenzionali. Tra le quali va contata anche questa barbosa teoria. Intendersi

dell'attimo è tutt'altro che facile, e colui che lo fraintende ne ricava

naturalmente noia, per tutta la vita. L'attimo è bello, e nell'attimo la donna è tutto, e

di conseguenze io non me ne intendo. Tra queste, invece, s'annovera anche

quella d'aver figli. Ora io immagino d'essere un pensatore abbastanza

4 Siamo qui ormai verso la fine del rapporto tra i due

 

conseguente, ma anche se divenissi pazzo furioso non sono uomo da badare alle conseguenze, non le capisco affatto, sono cose adatte a un ammogliato. Ieri Cordella ed io facemmo visita a una famiglia che sta in villeggiatura. La brigata si trattenne per lo più nel giardino, dove si passò il tempo con ogni specie di

esercizi fisici. Tra l'altro, si giocò anche ai cerchi. Profittai dell'occasione che

un altro signore, il quale aveva giocato con Cordella, andasse via, per sostituirlo.

Qual tesoro di grazia ella non dispiegò, resa ancora più seducente e

incantevole dallo sforzo del gioco! Quale soave armonia nel contrasto dei suoi

movimenti! Com'era leggera quasi danzasse sul prato e quanto energica, pur

senza bisogno d'impegnarsi a resistere! insidiosa, fino a sfidare l'equilibrio!

Come era ditirambico il suo portamento, com'era provocatore il suo sguardo! Il

gioco naturalmente aveva per me un interesse tutto particolare. Cordella, invece,

sembrava non badarvi. Ma un cerchio che gettai a un'altra giocatrice fu per lei

una folgore. Una luce più intensa illuminò da quel momento la situazione,

conferendo ad essa un più profondo significato, ed ella fu animata da una

maggiore energia. Trattenni entrambi i cerchi sulle mie mazze, mi fermai un

attimo scambiando qualche parola con gli astanti.

Ella comprese questa pausa. Tornai a lanciare i cerchi. Subito ella li afferrò entrambi sulle sue mazze. Quindi, quasi inavvertitamente, li rilanciò ambedue troppo lontano, sicché mi fu impossibile afferrarli.

Questo lancio fu accompagnato da uno sguardo pieno di infinita temerarietà. Si racconta che a un soldato francese, il quale prendeva parte alla campagna di Russia, dovesse essere amputata una gamba affetta di cancrena. Nell'attimo

stesso in cui la dolorosa operazione fu portata a termine, egli afferrò pel piede la gamba amputata e la lanciò lontano, gridando: « Vive l’empereur! ». Con un aria simile ella lanciò lontano, più bella che mai l'avessi vista prima, ambedue i cerchi, quasi dicesse a se stessa: « Viva l'amore! ». Pertanto non ritenni opportuno di lasciarle prendere il sopravvento in tale stato d'animo, né di abbandonarvela, per timore di quel languore che sovente s'accompagna ad esso. Mi mantenni perciò abbastanza calmo e la costrinsi, aiutato in ciò dalla presenza di spettatori, a continuare il gioco, come se nulla avessi notato. …

Come m'avvince Cordella! Eppure il tempo lesto trascorre, e l'anima mia chiede sempre di ringiovanire. Già quasi odo il canto lontano del gallo. Forse anch'ella lo ode, ma crederà che sia il mattino che esso annunzia... Perché mai una

fanciulla è tanto bella? e perché così breve è la durata della sua bellezza? Questi

pensieri potrebbero indurmi alla malinconia, sebbene non mi riguardino affatto.

Godiamo, senza indugi!

Di solito, la gente che di siffatte meditazioni fa professione non gode affatto. Al tempo stesso, non può essere dannoso che la mente indugi su un tale pensiero; giacché questo affanno, non di per sé ma per apporto altrui, rende di solito un

uomo virilmente più bello.

Un affanno che piombi, buio come un velo di nebbia e illusorio, sulla possanza

maschile, anch'esso appartiene all'erotica mascolina. Ad esso, nella donna,

corrisponde una certa malinconia... Non appena una fanciulla si è concessa

completamente, tutto è finito. Ancora oggi io mi accosto a una giovanetta con

una certa ansia, col cuore in palpiti, che avverto l'eterna potenza che si cela nel

suo essere. Nei confronti di una donna ciò non m'è mai capitato. E nulla è

quella briciola di resistenza che artatamente questa cerca di opporre. Sarebbe come

dire che il cappuccio di una donna maritata incuta maggior rispetto che non

la testa scoperta di una verginella. Perciò Diana è stata sempre il mio ideale.

Quella pura verginità, quell'assoluto ritegno, m'han sempre avvinto. E mentre

ella ha sempre occupata la mia attenzione, io al tempo stesso l'ho considerata

di cattivo occhio. In altri termini, ritengo che di fatto ella per nulla abbia meritati tutti quegli elogi alla sua verginità di cui ha fatto raccolta. Ella sapeva cioè che il suo gioco nella vita è riposto nella sua verginità, donde la gran cura che ne

ha avuto. Ne consegue che in un cantuccio del mondo, in cui si respirava aria

filologica, ho sentito bisbigliare del fatto che ella abbia avuto un ammonimento

nei gran dolori spaventevoli che sua madre ebbe a soffrire nel partorirla. Questo

l'avrebbe intimorita, e in ciò non posso disapprovare Diana, direi piuttosto con

Euripide: preferirei andar tre volte in guerra, anziché partorire una volta sola. Di

Diana, in verità, io non potrei innamorarmi, ma non nego che darei molto per

un colloquio con lei, per quel che io chiamerei un onesto scambio di vedute.

Ella dovrebbe convenire appunto in ogni sorta di raggiri. È chiaro che in un modo o

nell'altro la mia buona Diana ha una certa dose di cognizioni che la rendono

di gran lunga meno ingenua di Venere. Io non mi piglierei la briga di spiarla al

bagno, niente affatto, piuttosto la spierei attraverso le mie domande. Se mi

recassi a un appuntamento, in cui temessi per la mia vittoria, mi terrei allora ben

preparato e armato; metterei in moto, in un colloquio con lei, tutte le malizie dell'erotica.

Io ho spesso meditato su quale sia la situazione, quale sia l'attimo che debba

pur ritenersi come il più seducente. La risposta naturalmente dipende da ciò che si

desidera, da come lo si desidera e dal grado di sviluppo a cui si è giunti. Io

propendo per il giorno delle nozze, e specialmente per un ben determinato

momento. Quando ella è leggiadramente vestita da sposa e tutta la sua

magnificenza impallidisce al confronto con la sua bellezza ed ella stessa a sua

volta impallidisce, quando il sangue si arresta, quando il seno rimane immobile,

quando il piede vacilla, quando la donzella trema, quando il frutto matura,

quando il cielo la esalta, quando la serietà le dà forza, quando la promessa la

sorregge, quando la preghiera la benedice, quando il mirto le cinge il capo, quando

il cuore palpita, quando l'occhio s'abbassa a terra, quando ella si rifugia in se

stessa, quando ella non è più di questo mondo per appartenervi abbastanza,

quando il seno le si agita, quando la figura è scossa da sospiri, quando la voce

vien meno, quando la lacrima trema, quando l'enigma non ancora è chiarito,

quando lo sposo attende... questo è il momento. Tosto si compie. Solo un passo

rimane ancora da fare; ma può essere benissimo un passo falso. Questo attimo

può perfino rendere interessante una fanciulla insignificante. Tutto deve essere

tenuto pronto, se nell'attimo in cui gli estremi si toccano manca qualche cosa,

specialmente uno dei principali estremi, la situazione perde parte della sua

seduzione. C'è una nota incisione in rame. Rappresenta una penitente. Il suo

aspetto è così giovanile e innocente, che quasi ci si trova in imbarazzo, per lei

e per il confessore, riguardo a quel che ella può avere da confessare. Ella

solleva d'un tanto il velo sulla fronte e guarda fuori nel mondo, quasi cercasse

qualcosa che ella possa avere l'opportunità di fare oggetto di confessione, e si

comprende che questa non è niente altro che una doverosa attenzione verso... il

confessore. La situazione è davvero seducente e, poiché del quadretto ella è

l'unica figura, nulla s'opporrebbe a immaginare la chiesa in cui la scena si

svolge tanto spaziosa da potervi senz'altro sermoneggiare più e svariati

predicatori insieme. La situazione è davvero seducente, e non avrei nulla in

contrario a lasciarmi collocare sullo sfondo, specialmente se anche la fanciulla,

a sua volta, nulla avesse in contrario. …

Nei miei rapporti con Cordella sono stato dunque fedele ai miei doveri? Voglio

dire, ai miei doveri verso l'Estetica? giacché quel che mi rende forte è che io ho

sempre l'Idea dalla mia parte. È un segreto come quello del capelli di Sansone,

che nessuna Dalila dovrà strapparmi. Si trattasse semplicemente d'ingannare una

fanciulla, non ne avrei la costanza; ma il fatto che l'Idea mi accompagni nelle

mie mosse, che io agisca al suo servizio e al suo servizio mi consacri, m'infonde

rigore verso me stesso e forza d'astenermi dai piaceri proibiti. È stato sempre tenuto presente l'interessante? Sì, posso affermarlo liberamente e apertamente in questo mio segreto dialogo. L'interessante di questo fidanzamento fu appunto che

esso non diede luogo a quel che d'abitudine s'intende per interessante. Esso

mantenne l'interessante appunto perché l'apparenza esteriore era in

contraddizione con la vita interiore. Fosse stato segreto il mio legame con lei,

sarebbe stato interessante solo alla prima potenza. È invece interessante alla

seconda potenza, e perciò appunto rappresenta per lei anzitutto l'interessante.

Il fidanzamento viene sciolto, ma perché sarà lei stessa a scioglierlo per

prendere il volo verso una sfera più alta. Così dev'essere; questa, cioè, è la

forma dell'interessante che più l'avvincerà.

16 settembre

II legame è infranto; appassionata, forte, ardita, divina, ella s'innalza a volo come

un uccello a cui ora, per la prima volta, sia consentito di spiegare le ali. Vola,

uccello, vola! In verità, se questo volo regale fosse una separazione da me,

illimitato e profondo sarebbe il mio dolore. Come se l'amata di Pigmalione di

nuovo fosse tramutata in sasso, così sarebbe per me. Lieve io l'ho resa, lieve

come un pensiero: e ora questo pensiero non più dovrebbe appartenermi! Ci

sarebbe da impazzire. Un attimo prima, non me ne sarei preoccupato; un attimo

dopo, non me ne sarei afflitto; ma ora... quest'attimo è per me un'eternità! Ma

ella non vola lontano da me. E allora: vola, uccello, vola! levati altero sulle

tue ali, scivola via attraverso il morbido regno dell'aria, presto io sarò da te,

presto mi nasconderò insieme con te nella profonda solitudine!

La zia rimase alquanto sorpresa a questa notizia. D'altronde ella è troppo onesta

per pensare di costringere Cordella, sebbene io, in parte per intontirla, in parte per

raggirare un poco Cordella, abbia fatto qualche tentativo perché s'interessi di

me. Del resto, ella mi si mostra molto solidale e neppure sospetta quanto

fondatamente io possa deprecare ogni solidarietà.

Ella ha avuto dalla zia il permesso di trascorrere qualche pò di tempo in

campagna, e si recherà quindi presso una famiglia di conoscenti. Ciò viene

molto a proposito, perché così ella non s'abbandonerà subito all'esuberanza del

suo nuovo stato d'animo. Ancora per qualche tempo, sarà trattenuta da ogni specie

di esaltazione al riguardo. Io mi manterrò in vago contatto con lei per mezzo di

lettere, in modo che i nostri rapporti torneranno a rinverdire. Ora, a tutti i costi

ella deve essere resa forte; specialmente sarà meglio permetterle che si lasci

andare un pò a un eccentrico disprezzo per gli uomini e per la vita in genere.

Quando il giorno della sua partenza sarà giunto, le comparirà innanzi, in veste di

cocchiere, un giovane fidato. Ad esso si unirà fuori porta il mio fedelissimo

servo. L'accompagnerà fino a destinazione e rimarrà presso di lei per

assisterla e servirla in caso di bisogno. Non conosco nessuno che meglio di

Gianni si presti a essere mandato laggiù. Io stesso ho poi preparato là ogni cosa col

miglior gusto possibile. Nulla manca, che possa in qualche modo servire a far

esultare l'anima di lei e ad acquietarla nel più voluttuoso benessere. …

La primavera è certo la stagione più bella per innamorarsi, l'autunno la più bella

per appagare i propri desideri. All'autunno s'accompagna una mestizia che ben

s'adatta alla commozione cui ci si abbandona al pensiero dell'appagamento

d'un desiderio.

Oggi mi sono recato di persona in campagna, dove per alcuni giorni Cordella

troverà l'ambiente che s'armonizzi alla sua anima. Non desidero neppure

essere partecipe della sua sorpresa e del suo gaudio, siffatte debolezze erotiche

solo fiaccherebbero la sua anima. Se invece si troverà sola, si abbandonerà ai

sogni, ovunque vedrà illusioni, cenni, un mondo incantato; ma tutto

perderebbe ogni importanza se io mi trovassi al suo fianco, lei sarebbe indotta a dimenticare che per noi è giunto il momento in cui tutto ciò, goduto in comunione, tornerà ad avere importanza.

Questo ambiente non deve irretire la sua anima come un narcotico, ma anzi

deve aiutarla di continuo a elevarsi, mentre ella lo considererà uno scherzo privo di

significato in confronto a ciò che dovrà venire. Io stesso baderò, in questi giorni

che ancora mancano, a visitare più di frequente quei luoghi per mantenermi in

egual stato d'animo. …

Certe volte, quando non posso trovarmi personalmente, come vorrei, presso di

lei, mi ha turbato il pensiero che per qualche momento possa esserle capitato di

pensare all'avvenire. Finora non le è mai capitato, giacché troppo bene ho

saputo stordirla esteticamente. Nulla può pensarsi di più antierotico di questi

discorsi sull'avvenire, la cui vera origine è nella mancanza assoluta di argomenti

con cui occupare il tempo presente. Pur di starle vicino, non mi preoccupo di

queste cose, infatti so ben spingerla a dimenticare e il tempo e l'eternità.

Se, in un rapporto con l'anima di una fanciulla, non si sanno disporre a tal

punto le cose, allora non bisognerebbe impegnarsi in un tentativo di seduzione,

giacché, nel caso, sarà difficile evitare due scogli : le domande sull'avvenire e

la catechizzazione sulla fede. …

Ora credo che tutto sia pronto per accogliere lei; non le mancherà l'occasione

per ammirare la mia memoria; ma, meglio, non avrà tempo per ammirarla. Nulla è

stato dimenticato che possa avere qualche importanza per lei, e invece nulla

è stato disposto che anche minimamente possa ricordare direttamente me,

essendo io, invisibile, presente dappertutto. Nondimeno, l'effetto dipenderà in gran

parte da come lei arriverà a vedere tutto fin dal primo momento. A tal fine il

mio servitore ha ricevuto precise istruzioni, ed egli, per una sua certa saggezza, è

un esperto virtuoso in materia. Quando riceve ordini in proposito, casualmente o

negligentemente sa trarre le sue deduzioni, sa essere discreto: in breve, egli per

me è impagabile. La situazione è quale ella meglio non potrebbe augurarsi. …

24 settembre

La notte è tranquilla mancano tre quarti alla mezzanotte; fuori porta, il

cacciatore suona il suo saluto ai campi, che riecheggia dai contrafforti; rientra tra

le mura, torna a soffiare nel suo corno: ora l'eco giunge da più lontano ancora...

Tutto dorme in pace, tranne l'amore. Orsù, destatevi, forze misteriose

dell'amore, raccoglietevi in questo mio petto! La notte è silente: un uccello

solitario rompe questo silenzio col suo grido e il suo battito d'ali, rasentando i

campi rugiadosi, giù verso il ciglio degli spalti; anch'esso s'affretta a un

convegno d'amore. Com'è cupa tutta la natura! Io traggo auspici dal volo degli

uccelli, dai loro gridi, dal rutilante guizzo dei pesci sulla superficie del lago, dal

loro rituffarsi negli abissi, da un abbaiare di cani, dal lontano rumore di una

carrozza, dal suono di un passo che riecheggi lontano da qui. Non vedo fantasmi,

in quest'ora della notte, non quel che è stato vedo, ma quel che sarà, nel seno del

lago, nel bacio della rugiada, nella nebbia che si distende sulla terra a

coprirne il fecondo amplesso. Tutto è Immagine, e io stesso sono il mio stesso

mito, giacché non è un mito che mi affretti a questo convegno? Chi io sia, non

conta. Tutto il caduco e il mortale è dimenticato, solo l'eterno rimane, la potenza

dell'amore, la sua urgente brama, la sua beatitudine... Com'è intenta l'anima

mia, quale arco teso! E come son pronti i pensieri, quali saette nella mia

faretra, non avvelenati, ma pur capaci di mescolarsi al sangue! Com'è gagliarda

l'anima mia, sana, lieta, presente come un dio... Ella era bella di natura. Io ti

ringrazio, natura meravigliosa! Come una madre tu hai vegliato su di lei.

Grazie per la tua attenzione! Ella era illibata. Io vi ringrazio, uomini, al quali ella

lo deve. Il suo sviluppo fu opera mia: presto ne godrò i frutti... Che cosa non ho io

concentrato in questo istante che ora s'avvicina! Morte e dannazione, se

fallissi l'intento!... Ancora non vedo la mia carrozza... Sento uno schiocco di

frusta. È lui, il mio cocchiere... Sferza! per la vita e per la morte! Crollino pure i

cavalli, ma non un secondo prima che saremo giunti a destinazione!

25 settembre

Perché non può una notte simile durare più a lungo? Se Elettra potette dimenticare,

perché in tal caso non può dunque il sole provare compassione? .Ormai tutto è

finito, e io chiedo di non vederla mai più. Allorché una fanciulla ha tutto donato, è

franta, tutto ha perduto; perché se nell'uomo l'innocenza è un momento negativo,

nella donna è l'essenza della vita. Ora ogni resistenza è impossibile, e solo

finché c'è è bello amare; quando è cessata, amare diviene abitudine e debolezza.

Non desidero ricordare questa mia relazione con lei; ella ha perduto ogni

profumo, e son passati i tempi in cui una fanciulla, dal dolore per l'infedeltà

dell'amante, era tramutata in eliotropio. Non prenderò neppure commiato da lei;

nulla m'è più fastidioso di lagrime e suppliche di femmine, che tutto travolgono e

pur nulla in fondo significano. L'ho amata, si, ma d'ora innanzi ella non può più

occupare l'anima mia. Se fossi un dio farei per lei quel che Nettuno fece per una

ninfa, la tramuterei in un uomo.

Valeva davvero la pena di sapere se si era in grado o no di raggirare una fanciulla

al punto che si potesse infonderle tanto orgoglio da immaginarsi d'essere lei a

stancarsi della relazione. Potrebbe essere una farsa davvero interessante, che di

per se stessa potrebbe anche avere un certo interesse psicologico e, da questo

punto di vista, ci arricchirebbe di molte osservazioni erotiche.

S. Kierkegaard, Diario del seduttore, Fabbri, 1982. Estratti pag. 12-22, 101, 150-164-120

 

La malattia mortale (1849)

Parte prima: La malattia mortale è la disperazione

1) La disperazione per il terrestre o per qualcosa di terrestre

2) La disperazione dell'eterno o per se stesso

1) La disperazione per il terrestre o per qualcosa di terrestre

Questa è l'immediatezza pura, o l'immediatezza che contiene una riflessione quantitativa. Qui non c'è alcuna consapevolezza infinita del proprio io, di ciò che è disperazione o del proprio stato di disperazione; la disperazione non è altro che patire, soccombere sotto la pressione esteriore, e non proviene in nessun modo

dall'interno, in forma di azione. … L'uomo immediato (in quanto può esserci, nella realtà, immediatezza senza riflessione alcuna) è determinato soltanto come nel cerchio della temporalità e mondanità, in una concessione immediata con l'altro offrendo soltanto un'apparenza illusoria che ci sia dentro qualcosa di eterno. Così l'io dipende immediatamente dall'altro, desiderando, appetendo, godendo ecc., ma passivo; persino appetendo quest'io è un dativo, come il bambino quando dice: dammi. La sua dialettica è: il piacevole e lo spiacevole; i suoi concetti: felicità, infelicità, destino.

Ora, a quest'io immediato, capita, accade (cade su di lui) qualche cosa che lo porta alla disperazione; in un altro modo non ci può arrivare perché non ha in sé alcuna riflessione; quindi, ciò che lo porta alla disperazione deve venir da fuori, e la disperazione è meramente un patire. Ciò in cui si è concentrata la vita dell'immediato oppure, in quanto egli ha pure in sé un po' di riflessione, la parte

della sua vita alla quale è particolarmente attaccato, gli viene tolta «da un colpo del

destino», in modo che egli, come si dice, diventa infelice, cioè l'immediatezza in

lui viene talmente schiacciata che non si può riprodurre; e allora egli si dispera. …

Dunque, egli si dispera, vale a dire: con una strana inversione e incompleta

mistificazione riguardo a se stesso, egli chiama questo stato disperazione. Ma

disperarsi è perdere l'eterno — e non è questa la perdita di cui egli parla, non se la

sogna nemmeno. La perdita del terrestre come tale non è la disperazione, oppure è

questa di cui egli parla e che chiama disperazione. Ciò che egli dice è, in un certo

senso, vero; solo che non è vero in quel modo in cui l'intende lui. La sua posizione

è inversa, e ciò che egli dice va inteso all'inverso: lo si vede stare li e indicare ciò

che non è disperazione, dichiarando di essere disperato, e intanto effettivamente la

disperazione gli si avvicina da dietro, a sua insaputa. È come se uno, volgendo le

spalle al municipio, stendesse la mano in avanti dicendo: ecco il municipio.

L'uomo ha ragione: eccolo qua, quando si volta indietro. Egli non è disperato, non

è vero che lo sia; eppure ha ragione quando lo dice. Si chiama disperato, dunque; si

considera come morto, come un'ombra di se stesso. Però non è morto; è rimasta, se

si vuol dire così, un po' di vita nel suo corpo. Se a un tratto tutto, cioè tutte le cose

esteriori cambiassero e si realizzasse il suo desiderio, allora la vita ritornerebbe in

lui: l'immediatezza si rialza ed egli comincia a vivere di nuovo. Ma questo è l'unico

modo in cui l'immediato sappia combattere, l'unica cosa che sappia: disperarsi e

svenire — eppure egli non sa affatto che cosa sia disperazione. Egli si dispera e

sviene, e poi rimane là, tutto immobile, come se fosse morto, un gioco di prestigio

come quello di «fare il morto»; infatti, l'immediato fa come certe specie inferiori di

animali che non hanno altre armi o mezzi di difesa che stare immobili e far finta di

essere morti. Intanto passa il tempo. Se viene un aiuto dall'esterno la vita ritorna nell'uomo

disperato: egli comincia dove aveva smesso; non era un io e un io non è diventato,

ma continua a vivere, determinato in modo meramente immediato. Se l'aiuto

dall'esteriorità non viene, allora, il più delle volte, nella realtà succede

qualcos'altro. E allora la vita ritorna nel corpo stesso; ma egli dice che «non diventa

mai più se stesso», ora comincia a intendersi un po' della vita, impara a

scimmiottare gli altri uomini, osservando come fanno a maneggiare la vita, e

finisce per vivere come vivono loro. Nel mondo cristiano egli è pure cristiano, va

in chiesa ogni domenica, ascolta e comprende il pastore; oh, sì, loro si comprendono:

quando muore, il pastore, per dieci talleri, lo introduce nell'eternità —

ma un io non era e un io non è diventato.

Questa forma di disperazione è: disperatamente non voler essere se stesso, o, in una

forma più bassa, disperatamente non voler essere un io, o nella forma più bassa di

tutte: disperatamente voler essere un altro, diverso da se stesso, augurarsi un nuovo

io. L'immediatezza, in fondo, non ha nessuno; essa non conosce se stessa, non può

perciò neanche riconoscere se stessa e si perde spesso nelle avventure. Quando

l'immediato si dispera, non è nemmeno sufficientemente io per desiderare o per

sognare di essere diventato ciò che non è diventato. L'immediato si aiuta in altro

modo: desidera di essere un altro. Di ciò ci si può facilmente convincere

osservando degli uomini immediati; nel momento della disperazione non c'è nessun

desiderio che in loro sorga così presto, come quello di essere diventato un altro o di

diventare un altro. A ogni modo non si può mai fare a meno di sorridere di un tale

individuo disperato che, umanamente parlando, pur essendo disperato, è tanto

innocente. Di solito un tale disperato è infinitamente comico. Si immagini un io (e

dopo Dio non esiste niente di così eterno come un io) e poi si pensi che a un io

venga in mente che non si potrebbe fare in modo che egli diventasse un altro,

diverso da se stesso. Eppure un tale disperato, il cui unico desiderio è la più assurda

di tutte le trasformazioni assurde, gode l'illusione che il cambiamento si possa

effettuare con la stessa facilità con la quale si cambia un vestito. Perché

l'immediato non conosce se stesso; egli conosce se stesso, in un senso strettamente

letterale, soltanto dal vestito; conosce (ecco di nuovo l'infinita comicità) l'esigenza

dell'io dall'esteriorità. Non si trova così facilmente uno scambio più ridicolo perché

l'io è proprio ciò che, è infinitamente diverso dall'esteriorità. Quando l'immediato,

essendo cambiato per lui tutto il mondo esteriore, si è disperato, egli fa un passo

più avanti: gli viene l'idea — che poi diventa un desiderio — : come sarebbe se io

diventassi un altro, mi prendessi un nuovo io? Già, se diventassi un altro,

quest'altro riconoscerebbe se stesso? Si racconta di un contadino il quale, arrivato

scalzo nella capitale, aveva fatto tanti quattrini da potersi comprare un paio di calze

e di scarpe, e gliene avanzavano abbastanza per prendere la sbornia. Si racconta

che egli quando, ubriacatosi, voleva andare a casa, rimase in mezzo alla strada

maestra e si addormentò. Allora venne una vettura e il vetturino lo chiamò per

dirgli che si spostasse, altrimenti gli sarebbe passato sopra le gambe. Il contadino

ubriaco si svegliò, si guardò le gambe e, non riconoscendole per via delle calze e

scarpe, rispose: «Passate pure, non sono mie le gambe». Così l'immediato, quando

si dispera, è impossibile rappresentarlo nel suo vero aspetto se non come figura

comica e, per dirla verità, è già una specie di gioco di destrezza parlare in questo

gergo dell'io e della disperazione.

Quando si suppone che l'immediatezza abbia una riflessione interiore, la

disperazione si modifica alquanto; nasce una maggior consapevolezza del proprio

io e, di conseguenza, di ciò che è la disperazione, e che ogni stato è disperazione;

se un tal uomo dice di essere disperato, le sue parole acquistano senso: ma la

disperazione è essenzialmente quella della debolezza, è un patire; la sua forma è:

disperatamente non voler essere se stesso.

Il progresso, di fronte alla pura immediatezza, si mostra subito nel fatto che non

sempre la disperazione nasce da un colpo, da qualcosa che accade, ma può essere

causata anche dalla stessa riflessione interiore, in modo che la disperazione, se avviene così, non è soltanto patire e soccombere al mondo esteriore, ma, fino a un certo punto, attività dell'io, azione. Qui c'è un certo grado di riflessione interiore; in un certo grado, dunque, l'uomo si rende conto del proprio io; e da questo certo

grado di riflessione interiore comincia il processo di separazione nel quale l'io si

accorge di se stesso come essenzialmente diverso dal mondo esteriore e dalla sua

influenza sull'io. Ma soltanto fino a un certo punto. Ora l'io, quando, con un certo

grado di riflessione interiore, comincia a identificarsi con l'io, si imbatte forse in

questa o quell'altra difficoltà nella composizione dell'io, nella necessità dell'io.

Infatti, come nessun corpo umano è perfetto, così neanche nessun io. Oppure gli

succede qualche cosa che interrompe l'immediatezza in lui più profondamente di

quanto egli aveva fatto con la riflessione interiore, oppure la sua fantasia scopre

una possibilità che, se si avverasse, condurrebbe a una rottura con l'immediatezza.

Così egli si dispera. La sua disperazione è quella della debolezza, è il patire dell'io

in contrasto alla disperazione che è affermazione dell'io; ma con l'aiuto della

relativa riflessione interiore che ha, egli, diverso di nuovo dall'uomo meramente

immediato, fa un tentativo di difendere il suo io. Comprende che è uno

spostamento lasciare andare l'io; non rimane così colpito, come l'immediato, quasi

avesse un colpo apoplettico; per mezzo della riflessione, comprende che ci sono

molte cose che può perdere senza perdere l'io; è capace di fare concessioni, e

perché? Perché egli, fino a un certo punto, ha separato il suo io dal mondo

esteriore, perché si è fatto un'idea oscura che ci deve essere nell'io persino qualcosa

di eterno. Ma la sua lotta è inutile; la difficoltà in cui si è imbattuto richiede una

rottura totale con l'immediatezza e per questa egli non ha né la riflessione sull'io, né

la riflessione etica; non ha consapevolezza alcuna di un io che si conquista

mediante l'infinita astrazione da tutte le cose esteriori, di quell'io che, in contrasto

all'io vestito dell'immediatezza, è nudo e astratto, la prima forma dell'io infinito è la

forza motrice in tutto quel processo in cui un io si identifica illimitatamente col suo

io reale, accettandone tutte le difficoltà e tutti i vantaggi.

Dunque egli si dispera, e la sua disperazione è: non voler essere se stesso. Ma

certamente non gli viene in mente l'idea ridicola di voler essere un altro; egli

mantiene il rapporto col suo io essendovi legato, fino a questo punto, dalla riflessione.

Gli succede, riguardo all'io, ciò che può accadere a un uomo riguardo alla

sua casa (il comico è, in questo paragone, che l'io veramente non si disinteressa mai

di se stesso, come un uomo può disinteressarsi della sua casa): gli diventa schifosa

perché è piena di fumo, o perde la forza di attrattiva per una ragione qualunque;

allora egli esce, ma non lascia la casa definitivamente, non va a prenderne in affitto

una nuova, ma considera sempre come casa sua la vecchia, sperando che

quell'inconveniente passi. Così si comporta l'uomo che si dispera. Finché perdura la

difficoltà, egli, come si dice in un modo particolarmente espressivo, non osa

rientrare in se stesso, non vuole essere se stesso; ma questo passerà; le cose forse

cambieranno, quella possibilità oscura si dimenticherà. Frattanto egli torna talvolta

a se stesso, quasi come ospite, per vedere se non è ancora avvenuto il

cambiamento. E appena è avvenuto si stabilisce di nuovo in casa sua, «è di nuovo

se stesso»; ma questo vuol dire soltanto che egli ricomincia dove si era fermato,

che era un io fino a un certo punto e non lo è diventato di più. Ma se non avviene

cambiamento alcuno, egli si aiuta in un'altra maniera, lasciando la via diretta verso

l'interno per la quale avrebbe dovuto proseguire per diventare in verità un io. Tutto

il problema dell'io nel senso più profondo si riduce a una specie di porta finta nel

fondo della sua anima, dietro alla quale non c'è niente. Egli prende possesso di ciò

che, nel suo linguaggio, si chiama il suo io, vale a dire, tutte le facoltà, tutti i talenti

ecc., che gli sono stati dati; di tutto ciò egli prende possesso, ma rivolto verso

l'esteriore, verso la vita, come si suol dire, la vita reale, attiva, evitando con grande

precauzione quel po' di riflessione interiore che ha perché teme che venga a galla di

nuovo quella cosa nel fondo della sua anima. Così riesce a poco a poco a

dimenticarsene; col passare degli anni gli sembra quasi ridicola, soprattutto se si

trova in buona compagnia di uomini valenti e attivi che hanno senso e capacità per la vita reale! Che bella cosa! ora, come si legge nei romanzi, egli vive da parecchi

anni in un matrimonio felice, un uomo attivo e intraprendente, padre di famiglia e

cittadino, forse persino un grand'uomo; a casa sua la servitù lo chiama «lui», in

città ha il suo posto fra i notabili; si presenta come persona di autorità, o con l'autorità

di una persona, vale a dire egli è, a giudicare dall'apparenza, una persona. Nel

mondo cristiano è cristiano (perfettamente nello stesso senso in cui nel mondo

pagano sarebbe stato pagano o, in Olanda, olandese), uno dei cristiani colti. Si è

spesso occupato della questione dell'immortalità e più d'una volta ha domandato al

pastore se c'era una tale immortalità, se realmente ci si sarebbe riconosciuti;

questione che certamente deve essere per lui di un interesse speciale, dato che egli

non ha nessun io.

È impossibile rappresentare questa specie di disperazione nel suo vero aspetto

senza un'aggiunta di satira. Il comico è che egli dice di essere stato disperato; il

terribile è che il suo stato, dopo aver superato, come crede lui, la disperazione, è

proprio disperazione. È infinitamente comico che alla base di quella accortezza di

vita tanto esaltata nel mondo, alla base di tutta quell'abbondanza satanica di buoni

consigli e raggiri astuti, di quei modi di lasciar passare il tempo, di rassegnarsi al

proprio destino, di far cadere in oblio, alla base di tutto ciò, inteso idealmente, stia

una completa stupidità che ignora dov'è veramente il pericolo, qual è il vero

pericolo. Ma questa stupidità etica è, di nuovo, il terribile.

La disperazione per il terrestre o per qualcosa di terrestre è la specie più comune di

disperazione, soprattutto nella forma seconda, come immediatezza con una

quantitativa riflessione interiore. Più la disperazione viene penetrata dalla

riflessione, più di rado si vede, o esiste nel mondo. Questo dimostra che la maggior

parte degli uomini non si sono neanche molto approfonditi nella disperazione, ma

non dimostra affatto che non siano disperati. Sono pochissimi gli uomini che

vivono, sia pure soltanto in un modo relativo, sotto la determinazione dello spirito,

anzi non sono nemmeno molti quelli che tentano questa vita, e di coloro che lo

fanno, i più ne desistono presto. Non hanno imparato né a temere né a dovere,

indifferenti, infinitamente indifferenti, di fronte a qualunque cosa accada. Perciò

non possono sopportare ciò che già a loro stessi sembra una contraddizione; la

quale poi, riflettendosi nel mondo esterno, si dimostra molto, molto più stridente:

ché preoccuparsi della propria anima e voler essere spirito sembra nel mondo un

perditempo, anzi un perditempo ingiustificabile che, se fosse possibile, dovrebbe

essere punito dalla legge e in ogni modo viene punito con disprezzo e derisione,

come una specie di tradimento contro gli uomini, come una follia ostinata che in

modo insensato impiega il tempo in nulla. Così c'è nella loro vita un momento —

ahimè! è il loro tempo migliore in cui cominciano a prendere la via verso l'interno.

Ma appena si avvicinano alle prime difficoltà, eccoli cambiare direzione: sembra

loro che questa via conduca in un deserto desolato, allora si incamminano verso il

pascolo e presto dimenticano quel loro tempo migliore, ahimè, lo dimenticano

come se fosse stato roba da bambini. Sono anche cristiani — rassicurati dai pastori

riguardo alla loro salvezza.

Come si è detto, questa disperazione è la più comune, è tanto comune che soltanto

da questo fatto si può spiegare quell'opinione, diffusa quasi come una moneta

corrente, che la disperazione sia una caratteristica della giovinezza, si presenti

soltanto nell'età giovanile ma non si trovi nell'uomo posato, arrivato agli anni della

maturità. Questo è uno smarrimento disperato, o piuttosto un errore disperato, a cui

sfugge — e, ciò che è peggio, gli sfugge che quello che gli sfugge è quasi il meglio

che si possa dire — che la maggior parte degli uomini, essenzialmente considerati,

in fondo non riescono, in tutta la loro vita, a diventare più di quello che erano

nell'infanzia e nella giovinezza: immediatezza con l'aggiunta di una piccola dose di

riflessione interiore. No, la disperazione non è davvero qualcosa che si trova

soltanto nei giovani, qualcosa da cui si esce senz'altro crescendo «come si esce,

crescendo, dall'illusione». Al contrario, si incontrano molto spesso uomini e donne

e vecchi che hanno illusioni bambinesche come qualsiasi giovane. Ma non ci si accorge che l'illusione ha essenzialmente due forme: quella della speranza e quella del ricordo. La giovinezza ha l'illusione della speranza, la persona anziana quella del ricordo; ma appunto perché è in illusione, essa ha l'idea assolutamente

unilaterale che l'illusione sia soltanto speranza. E si capisce che l'illusione della

speranza non turba l'anziano; però lo turba, fra le altre, forse anche questa, piuttosto

comica: di guardare, da un presunto punto di vista superiore, senza illusione,

l'illusione del giovane. Il giovane è in illusione sperando lo straordinario dalla vita

o da se stesso; in compenso, nella persona anziana si trovano spesso illusioni

riguardo al modo in cui ricorda la sua giovinezza. Una donna anziana che crede di

aver rinunziato a tutte le illusioni, si vede spesso, più di una giovinetta, vivere in

un'illusione fantastica riguardo al modo in cui si ricorda di se stessa come giovinetta:

come era felice allora, come era bella ecc. Questo fuimus, che si sente così

spesso da una persona anziana, è un'illusione altrettanto grande quanto quella del

giovane, rivolta al futuro; tutti e due sono bugiardi o poeti. Ma ben diversa è la

disperazione che si manifesta nell'erronea convinzione che la disperazione

appartenga soltanto alla giovinezza. Prima di tutto è una grande stoltezza, e

significa proprio non comprendere che cosa è spirito e disconoscere che l'uomo è

spirito e non solo una creatura animalesca, pensare che la fede e la sapienza

vengano senz'altro con gli anni, come i denti, la barba ecc. No, a qualunque cosa

l'uomo possa senz'altro arrivare, qualunque cosa possa accadergli, una cosa è certa:

fede e sapienza non si acquistano fatalmente. Ma la cosa sta così: con gli anni,

l'uomo, in un senso spirituale, non arriva «senz'altro» a niente (questa categoria è

proprio il contrario più spiccato dello spirito); invece è molto facile perdere

senz'altro qualche cosa con gli anni: forse si perde con gli anni quel pò di passione,

di sentimento, di fantasia, quel pò di inferiorità che si aveva, e si arriva senz'altro

(qui, infatti, si arriva senz'altro) a comprendere la vita secondo la determinazione

della trivialità. Questo stato «migliorato», che veramente è venuto con gli anni,

l'uomo lo considera disperatamente come un bene, accertandosi facilmente (e in un

certo senso satirico niente è più certo) che ora non gli potrà mai più venire in mente

di disperarsi — no, egli si è assicurato: egli è disperato, disperato senza spirito.

Infatti, perché Socrate amava i giovani se non perché conosceva l'uomo?

E se non avviene che l'uomo, con gli anni, si abbandona alla forma più triviale

della disperazione, non ne risulta certamente in nessun modo che la disperazione

sia soltanto della giovinezza. Se un uomo con gli anni giunge a uno sviluppo reale,

se matura in lui la consapevolezza essenziale del proprio io, egli può forse

disperarsi in una forma più alta. E se con gli anni non si sviluppa essenzialmente,

senza neanche abbandonarsi assolutamente alla trivialità, cioè se continua quasi a

essere un giovane, pur essendo uomo, padre e uomo canuto, conservando, dunque,

qualcosa del bene che è nei giovani, allora sarà pure esposto alla disperazione del

giovane, alla disperazione per il terrestre o per qualcosa di terrestre.

È vero che ci può essere una differenza fra la disperazione di un tale anziano e

quella di un giovane; però non è essenziale, bensì meramente casuale. Il giovane si

dispera per l'avvenire come per un presente in futuro; c'è qualcosa nell'avvenire che

egli non vuole accettare, con cui non vuol essere se stesso. L'anziano si dispera per

il passato come per un presente in praeterito, che non vuole diventare sempre più

passato; perché non è tanto disperato che gli riesca di dimenticarsene del tutto.

Questo passato è forse persino un fatto a cui si vorrebbe attaccare il pentimento.

Ma perché venga fuori il pentimento, l'uomo dovrebbe prima disperarsi

radicalmente, definitivamente, la vita dello spirito dovrebbe prorompere dal fondo.

Ma, disperato com'è, non osa lasciare che avvenga una tale decisione. Così rimane

dov'è, il tempo passa a meno che non riesca, ancora più disperato, a guarire il male

con l'aiuto dell'oblio, così che egli, invece di diventare un pentito, diventa il proprio

manutengolo! Ma essenzialmente la disperazione di un tal giovane e di un tal

anziano è la stessa: non si arriva a una metamorfosi nella quale prorompe la

consapevolezza dell'eterno, dell'io, perché possa cominciare la lotta la quale o eleva

la disperazione a una forma più alta o conduce alla fede.

 

2) La disperazione dell'eterno o per se stesso

La disperazione per il terrestre o per qualcosa di terrestre in quanto disperazione è

in fondo anche disperazione dell'eterno per se stesso, perché questa è la formula per

ogni disperazione. Ma l'uomo in disperazione, come è stato rappresentato nel

capitolo precedente, non si accorge di ciò che, per così dire, succedeva dietro le sue

spalle; egli crede di disperarsi per qualcosa di terrestre e parla continuamente di

quello per cui si dispera, oppure egli dispera dell'eterno; perché il fatto che egli

attribuisce al terrestre tanta importanza, oppure, più esplicitamente: che egli

attribuisca a qualcosa di terrestre tanta importanza o, dopo aver fatto di qualcosa di

terrestre tutto il terrestre, attribuisca al terrestre tanta importanza, questo significa

per l'appunto disperare dell'eterno.

Ora, questa forma di disperazione è un progresso considerevole. Se quella

precedente era la disperazione della debolezza, questa è la disperazione per la

propria debolezza. Si tratta, dunque, soltanto di una differenza relativa; mentre

nella forma precedente si arriva fino alla consapevolezza della debolezza, qui la

consapevolezza non si ferma a questo punto, ma si eleva a potenza per diventare

una consapevolezza nuova che ha per oggetto la propria debolezza. Il disperato

stesso comprende che è debolezza prendersi tanto a cuore il terrestre, che è

debolezza disperarsi. Ma ora, invece di volgere decisamente le spalle alla

disperazione per andare verso la fede, umiliandosi davanti a Dio sotto la propria

debolezza, egli si sprofonda nella disperazione e si dispera per la propria

debolezza. Così si inverte completamente il suo punto di vista: egli acquista una

consapevolezza più chiara della sua disperazione, si rende conto di disperare

dell'eterno, e si dispera per se stesso, che possa essere così debole da attribuire al

terrestre tanta importanza, il che ora diventa per lui l'espressione disperata del fatto

che egli ha perduto l'eterno e se stesso.

Qui si manifesta un movimento ascendente. Dapprima nella consapevolezza del

proprio io; perché non è possibile disperare dell'eterno senza avere l'idea che l'io

contenga qualcosa di eterno o che l'abbia contenuto. E se ci si deve disperare per se

stesso, bisogna essere consapevole di avere un io; ed è per questo che egli si

dispera, non per il terrestre o qualcosa di terrestre, ma per se stesso. Inoltre, c'è qui

maggior consapevolezza di ciò che è disperazione; perché disperazione è

precisamente aver perduto l'eterno e se stesso. Naturalmente c'è anche maggior

consapevolezza del proprio stato di disperazione. Poi la disperazione non è qui

soltanto un patire, ma un'azione. Infatti, quando l'io si dispera perché gli viene tolto

il terrestre, è come se la disperazione venisse dall'esterno, anche se in realtà

proviene sempre dall'io; ma quando l'io si dispera per questa sua disperazione, la

nuova disperazione proviene dall'io indirettamente, per via indiretta, come

reazione, a differenza dall'ostinazione, che proviene dall'io per via diretta.

Finalmente abbiamo qui ancora un nuovo progresso, sia pure in un altro senso.

Proprio perché questa disperazione è più intensiva, è in un certo senso più vicina

alla salvezza. Una tale disperazione si dimentica difficilmente, è troppo profonda;

ma in qualunque momento la disperazione si tenga aperta, vi è anche la possibilità

della salvezza.

Ciononostante questa disperazione è da classificarsi sotto la forma: disperatamente

non voler essere se stesso. Come un padre che disereda un figlio, l'io non vuole

riconoscere se stesso dopo essere stato così debole. Disperato, non può dimenticare

quella debolezza; odia in un certo modo se stesso, non vuole, credendo, umiliarsi

sotto la sua debolezza per riconquistare così se stesso, non vuole saper dire niente

di se stesso. Ma che si aiuti con l'oblio non è neanche possibile, come non è

nemmeno possibile che, per mezzo dell'oblio, si metta sotto la determinazione

dell'antispiritualità per essere uomo e. cristiano come altri uomini e cristiani.

No, per fare questo l'io è troppo io. Come succedeva spesso al padre che diseredava

il figlio: l'atto esteriore gli giovava poco, non poteva con questo liberarsi del figlio,

almeno non nel pensiero, come così spesso succede quando un amante maledice la persona odiata, cioè: amata — non gli giova molto, si sente quasi legato di più — così succede all'io disperato quando si vuoi liberare da se stesso.

Questa disperazione è di una qualità più profonda di quella precedente e appartiene

alla forma di disperazione che si vede più di rado nel mondo. Quella porta finta di

cui si parlava più sopra, dietro la quale non c'era niente, è qui una porta reale, ma

accuratamente chiusa, e dietro a essa, per così dire, siede l'io badando a se stesso,

impiegando il tempo nel non voler essere se stesso, eppure abbastanza io per amare

se stesso. Questo atteggiamento si chiama taciturnità. E da ora in poi avremo da

trattare della taciturnità che è proprio il contrario dell'immediatezza e, fra l'altro,

nella sfera del pensiero, prova per questa un grande disprezzo.

Ma un tale io non vive nella realtà, è fuggito dalla realtà nel deserto, nel monastero,

nel manicomio? Non è un uomo vero e proprio vestito come gli altri o coperto

come gli altri del solito mantello? Oh, sì, certamente, perché no? Ma al segreto del

suo io non inizia nessuno, nessun'anima viva, o perché non ne sente il bisogno o

perché ha imparato a vincerlo; senti un po' come ne parla lui stesso: «Sono soltanto

gli uomini meramente immediati, i quali, secondo la determinazione dello spirito,

sono all'incirca allo stesso punto del bambino nella prima infanzia, quando, con la

massima disinvoltura, lascia andare da sé tutto — sono soltanto gli uomini

meramente immediati che non possono tenere per sé nulla. È quel genere di

immediatezza che spesso si chiama con grande pretensione "verità, esser vero, un

uomo vero che è tutto e intero quello che è", il che è così vero come è falsità che un

adulto, appena senta un bisogno fisico, non ceda subito. Ciascun io, dotato di un

pochino di riflessione, deve avere un'idea di come si possa dominare l'io». E il disperato

è abbastanza taciturno per poter tenere lontano tutti gli estranei, cioè tutti,

dal segreto del suo io, mentre nel suo aspetto esteriore è perfettamente «un uomo

vero e proprio», è una persona istruita, uomo, padre di famiglia, persino un

funzionario straordinariamente valente, un padre rispettabile, di maniere piacevoli,

molto gentile con la moglie, tutto preoccupato per il bene dei figli. Ed è cristiano?

Oh, sì, è anche questo, ma evita il più possibile di parlarne, anche se vede

volentieri, con un certo piacere malinconico, che sua moglie, per edificarsi, si

occupa di cose religiose. In chiesa va molto di rado perché gli sembra che la

maggior parte dei pastori, in fondo, non sappiano di che cosa parlano. Forse fa

un'eccezione per un singolo pastore, di cui ammette che sa di che cosa parla; ma

per un'altra ragione non desidera ascoltarlo: per la paura che questo potrebbe avere

conseguenze troppo estese. Invece sente non di rado il bisogno della solitudine, la

quale è per lui una necessità vitale, talvolta come il respiro, in altri momenti come

il sonno. Che egli senta questa necessità vitale più della maggior parte degli

uomini, è anche un segno che egli è una natura più profonda. Il bisogno della

solitudine è sempre un segno che in un uomo c'è dello spirito, e offre la misura per

determinare questo spirito. «Gli uomini che non fanno altro che chiacchierare —

tutt'al più copie di uomini — sentono così poco il bisogno della solitudine che,

come certi pappagalli, muoiono appena devono, per un momento, star soli; come il

bimbo dev'essere ninnato, essi hanno bisogno di essere calmati dalla ninna-nanna

della società, per poter mangiare, bere, dormire, pregare, innamorarsi e via

dicendo». Ma tanto nell'antichità quanto nel Medioevo ci si accorgeva di questo

bisogno di solitudine e si rispettava ciò che significava; nella costante socievolezza

dei tempi nostri ci si spaventa tanto della solitudine che (quale epigramma

eccellente!) non si sa adoperarla per altro che come pena per i delinquenti. Ma

siccome è vero che nei tempi nostri è un delitto avere spirito, è nell'ordine delle

cose che tali individui, amanti della solitudine, siano classificati insieme ai

delinquenti.

Il disperato taciturno passa il tempo attraverso ore che, anche se non vissute per

l'eternità, hanno pure a che fare con l'eterno, occupandosi del rapporto del suo io

con se stesso, ma, in fondo, non va mai avanti. Quando si è fatto questo, quando il

bisogno di solitudine è stato soddisfatto, egli quasi va fuori — anche se entra in

casa o si occupa della moglie e dei bambini. Ciò che lo fa diventare un marito così gentile e un padre così premuroso è, oltre la sua bonarietà naturale e il suo senso del dovere, la confessione della sua debolezza che egli, nel suo intimo taciturno, ha fatto a se stesso.

Se fosse possibile che qualcuno venisse a sapere ciò che egli chiude in se stesso, e poi gli dicesse: questo è orgoglio, in fondo tu sei orgoglioso del tuo io, egli difficilmente lo ammetterebbe davanti a un altro. Se fosse rimasto solo con se

stesso, confesserebbe forse che c'era qualcosa di vero in quelle parole, ma la

passione con la quale il suo io ha compreso la sua debolezza lo riporterebbe presto

all'illusione che non poteva assolutamente essere orgoglio, essendo proprio la sua

debolezza la ragione per cui egli si disperava, come se non fosse orgoglio dare così

enorme importanza alla debolezza, come se non fosse per poter essere orgoglioso

del suo io che egli non può sopportare di essere consapevole della sua debolezza.

Se gli si dicesse: «Questa è una complicazione strana, un nodo singolare; perché, in fondo, tutto il male sta nel modo in cui si è intricato il pensiero; per il resto il tuo stato è perfettamente normale: è proprio questa la via che devi prendere, devi passare attraverso la disperazione dell'io per giungere all'io. È giusto che sei

debole, ma non è questa la cosa per cui ti devi disperare; l'io dev'essere spezzato per diventare se stesso»; se gli si parlasse così, egli, in un momento libero di passione, lo comprenderebbe; ma presto la passione gli farebbe smarrire la vista; e

così si volterebbe di nuovo nella direzione falsa, dentro alla disperazione. Come si è detto, una tale disperazione si trova nel mondo più di rado. Se essa non si ferma in questo punto, dove non si fa altro che marciare sul posto, e se, d'altra parte, non avviene uno sconvolgimento nell'anima del disperato, in seguito al quale egli giunge per la via giusta alla fede: allora una tale disperazione o si eleverà a potenza per diventare una forma più alta di disperazione, restando chiusa in se

stessa, o proromperà all'infuori e annienterà l'involucro esterno in cui un tale

disperato è vissuto come in incognito. Nell'ultimo caso un tale disperato si

precipiterà nella vita, si distrarrà forse con grandi imprese, diventerà uno spirito

irrequieto, la cui esistenza lascerà tracce visibili, uno spirito irrequieto che vuole

dimenticare; e siccome c'è troppo rumore nel suo interno, ci vogliono mezzi forti.

Oppure cercherà oblio nella sensualità; forse in una vita sfrenata; vuole

disperatamente tornare all'immediatezza, ma sempre consapevole dell'io che non

vuole essere. Nel primo caso, quando la disperazione si eleva a potenza, essa

diventa ostinazione, e ora diventa manifesto quanta falsità era nel modo di

rappresentare la debolezza; si manifesta la verità dialettica che la prima espressione

dell'ostinazione è appunto disperarsi per la propria debolezza.

Ma ora guardiamo un pò, ancora una volta, dentro all'anima del taciturno, il quale,

nella sua taciturnità, sta marciando sul posto. Se questa taciturnità si mantiene

assoluta, il pericolo più grande per lui diventerà il suicidio. Gli uomini quali sono

di solito non hanno naturalmente la minima idea di ciò che un tale individuo

taciturno è capace di sopportare; se venissero a saperlo, si stupirebbero. Ma così il

suicidio è il pericolo per l'uomo assolutamente taciturno. Se invece egli parla con

un altro, se si apre davanti a un solo uomo, la sua mente, con ogni probabilità, è

talmente rilassata, il suo animo tanto abbattuto che la taciturnità non porterà al

suicidio. Una tale taciturnità, conosciuta da un uomo, è di un tono intero più dolce

di quella assoluta. Quest'uomo probabilmente si salverà dal suicidio. Può accadere

però che egli, proprio quando si è aperto davanti a un altro, si dispera per questo,

che gli sembra dovesse essere suo dovere preferire infinitamente di resistere nel

silenzio anziché far conoscere il suo stato d'animo a un altro. Ci sono esempi per il

caso in cui un individuo taciturno sia portato alla disperazione, appunto per aver

avuto un confidente. Allora ne può pure risultare un suicidio.

S. Kierkegaard, La malattia mortale, Arnaldo Mondadori, Milano, 2008. Estratti pag. 410-

30

 

Timore e tremore (1843)

Elogio d’Abramo

Problemata: Effusione preliminare

Problema I: Esiste una sospensione teleologica della morale?

Elogio d’Abramo

… Ci furono uomini grandi per la loro energia, per la saggezza, la speranza o

l'amore. Ma Abramo fu il più grande di tutti: grande per l'energia la cui forza è

debolezza, grande per la saggezza il cui segreto è follia, grande per la speranza la

cui forza è demenza, grande per l'amore che è odio di se stesso. Fu per fede che

Abramo lasciò il paese dei suoi padri e fu straniero in terra promessa. Lasciò una

cosa, la sua ragione terrestre, e un'altra ne prese: la fede. Altrimenti, pensando all'assurdità

del suo viaggio, non sarebbe partito. Fu per fede uno straniero in terra

promessa, ove nulla gli ricordava quel ch'egli amava, mentre la novità di tutte le

cose gli poneva in cuore la tentazione di un doloroso rimpianto. Eppure, era l'eletto

di Dio, in lui il Signore s'era compiaciuto!

Certo, se fosse stato un diseredato, un bandito dalla grazia divina, avrebbe meglio

compreso quella situazione, che sembrava uno scherno su di lui e sulla sua fede.

… Fu per fede che Abramo ricevette la promessa che tutte le nazioni della terra

sarebbero state benedette nella sua posterità. I1 tempo passava, la possibilità

rimaneva, Abramo credeva. Il tempo passò, la speranza diventò assurda, Abramo

credette. E pur esistito nel mondo colui che ebbe una speranza. Il tempo passò, la

sera fu al suo declino e quell'uomo non ebbe la viltà di rinnegare la sua speranza;

così, anch'egli non sarà mai dimenticato. Poi conobbe la tristezza; e il dolore,

invece di deluderlo come la vita, fece per lui quel che poté, e, nella sua dolcezza,

gli dette il possesso della sua speranza ingannata. È umano conoscere la tristezza,

umano condividere la pena di chi è afflitto, ma è cosa più grande credere, e più

confortevole e benefica cosa contemplare chi crede. Abramo non ci ha lasciato

lamentazioni. Non ha contato tristemente i giorni man mano che trascorrevano; non

ha guardato Sara con occhio inquieto per vedere se gli anni incidevano rughe sul

suo volto; non ha fermato la corsa del sole per impedire a Sara di invecchiare, e di

far invecchiare con essa la sua attesa; per calmare la sua pena, non ha cantato a

Sara un triste cantico. Divenne vecchio, e Sara fu schernita nel paese. Eppure era

l'eletto di Dio e l'erede della promessa, secondo la quale tutte le nazioni della terra

sarebbero state benedette nella sua posterità. Non sarebbe forse stato meglio ch'egli

non fosse l'eletto di Dio? Che cosa significa dunque esser l'eletto di Dio? Significa

vedersi rifiutare nella primavera della vita quello che è il desiderio della

giovinezza, per esser esaudito in vecchiaia dopo grandi difficoltà. Ma Abramo

credette e serbò fermamente la promessa, cui avrebbe rinunciato se avesse dubitato.

Avrebbe detto a Dio, allora: « Forse non è nella tua volontà che questo mio

desiderio si realizzi. Rinuncio dunque al mio desiderio, all'unico mio desiderio, nel

quale riponevo la mia felicità. La mia anima è onesta e non nasconde nessun astio

segreto per il tuo rifiuto ». Non sarebbe stato dimenticato. Avrebbe salvato molti

col suo esempio ma non sarebbe diventato il padre della fede; perché è grande cosa

rinunciare al proprio desiderio più caro, ma è cosa più grande serbarlo dopo averlo

abbandonato. Grande cosa è cogliere l'eterno, ma è più grande riavere il transeunte,

dopo averne fatto rinuncia.

Poi i tempi furono compiuti. Se Abramo non avesse creduto, sicuramente Sara

sarebbe morta di dolore; e lui, roso dalla tristezza, non avrebbe compreso

l'esaudimento, ma ne avrebbe sorriso come di un sogno giovanile. Ma Abramo credette, e perciò rimase giovane. Perché chi spera sempre il meglio invecchia tradito dalla vita; e chi si dispone sempre al peggio è presto consunto; ma chi crede

serba una eterna giovinezza. Sia benedetta questa storia! Perché Sara, benché

anziana d'età, fu abbastanza giovane per desiderare le gioie della maternità; e

Abramo, malgrado i suoi capelli grigi, fu abbastanza giovane per desiderare d'esser

padre. A prima vista, il miracolo consiste nel fatto che l'evento accadde secondo la

loro speranza; ma, in senso profondo, il prodigio della fede consiste nel fatto che

Abramo e Sara furono abbastanza giovani per desiderare e che la fede conservò il

loro desiderio e perciò la loro giovinezza. Egli accettò l'esaudimento della

promessa e accettò per fede, e ciò avvenne secondo la promessa e secondo la fede.

Perché Mosè colpi la roccia col suo bastone, ma non credette.

Fu gioia allora nella casa di Abramo quando Sara fu sposa nel dì delle nozze d'oro.

Eppure quella gioia non doveva durare. Ancora una volta Abramo avrebbe

conosciuto la prova. Aveva lottato contro la scaltra potenza cui nulla sfugge, contro

il nemico la cui vigilanza mai vien meno lungo gli anni, contro il vegliardo che

sopravvive a tutto; aveva lottato contro il tempo e serbato la fede. Ora tutto l'orrore

della lotta si riunì in un solo istante: « E Dio mise Abramo alla prova e gli disse:

prendi il tuo figliolo, il tuo unico, quello che tu ami, Isacco; vai al paese di Moriah

e offrilo colà in olocausto sopra uno dei monti che io ti indicherò ».

Così, dunque, tutto era perduto, oh sciagura atroce più che se il desiderio non fosse

mai stato esaudito. Così il Signore si prendeva gioco di Abramo! Ecco che, dopo

aver realizzato l'assurdo con un miracolo, voleva veder annientata l'opera sua. Che

pazzia! Ma Abramo non ne rise, come Sara aveva fatto quando le fu annunciata la

promessa. Tutto era perduto! Settanta anni di attesa fedele e la breve gioia della

fede esaudita. Ma chi è dunque colui che strappa il bastone dalla mano del

vegliardo, chi è finalmente, per esigere che sia il vecchio padre stesso a spezzarlo!

Chi è, per rendere inconsolabile un uomo di chiome grigie, esigendo che sia lui

stesso la causa della sua sventura! Non c'è dunque nessuna compassione per il vegliardo

venerabile, nessuna per il bambino innocente! Eppure, Abramo era l'eletto

di Dio, era il Signore colui che infliggeva la prova. Tutto dunque stava per essere

perduto! La splendida fama della stirpe futura, la promessa della posterità

d'Abramo, tutto ciò non era stato altro che il lampo di un rapido pensiero nella

mente del Signore; ed ora era proprio ad Abramo che toccava cancellarlo. Quello

stupendo frutto, vecchio quanto la fede nel cuore di Abramo e di tanti e lunghi anni

più vecchio di Isacco, questo frutto della vita di Abramo, santificato dalla

preghiera, maturato nella lotta, quella benedizione sulle labbra del padre, ecco, quel

frutto stava per essergli strappato, stava per perdere ogni significato. Che senso

infatti avrebbe potuto avere il frutto della promessa, quando ormai si trattava di

sacrificare Isacco! … . Ed era Iddio, che lo metteva alla prova. Sventura, sventura al

messaggero che era venuto a recare una notizia simile! Chi dunque aveva osato

farsi l'emissario di quella desolazione? Ma era Dio stesso che poneva alla prova

Abramo. …

Ma Abramo credette e non dubitò. Credette l'assurdo. Se avesse dubitato, avrebbe

agito altrimenti. Avrebbe compiuto un atto grande e magnifico. Che altro avrebbe

potuto fare? Sarebbe andato alla montagna di Moriah, avrebbe spezzato la legna,

acceso il rogo, levato il coltello; avrebbe gridato a Dio: « Non disprezzare questo

sacrificio. Non è quel che io possiedo di meglio, lo so. Che cos'è un vecchio di

fronte al figlio della promessa? Ma è il meglio che io ti possa dare. Fai che Isacco

non ne sappia mai nulla, così che la sua giovane età si consoli ». E si sarebbe

piantato il coltello nel petto. Il mondo lo avrebbe ammirato, e il suo nome non

sarebbe stato dimenticato. Ma altro è essere oggetto d'ammirazione e altro essere la

stella che guida e salva chi è nell'angoscia.

Ma Abramo credette. Non pregò per sé, per commuovere il Signore. Non venne

supplicando se non quando una giusta punizione si abbatté su Sodoma e Gomorra.

Leggiamo nella Scrittura: « E Dio provò Abramo e gli disse: Abramo, Abramo,

dove sei? E Abramo rispose: eccomi! ». Tu, cui si rivolge questo mio discorso, hai tu fatto altrettanto? Quando hai veduto venire da lontano i colpi della sorte, non hai detto alle montagne « nascondetemi! » e alle colline«cadete su di me! »? O, se pur tu fosti più forte, il tuo piede non si avanzò lentamente sulla buona via, non hai tu

sospirato verso gli antichi sentieri? E quando la chiamata ha echeggiato, sei tu

rimasto in silenzio, o hai risposto, forse piano, mormorando? Abramo, lui non

rispose così. Gioiosamente e coraggiosamente, pieno di fiducia e a voce piena,

disse: « Eccomi! ».

Leggiamo anche: « E Abramo si levò di buon mattino». S'affrettò come ad una

festa, e di prima mattina fu al luogo designato, sulla montagna di Moriah. Non

disse nulla a Sara. Infatti, chi avrebbe potuto comprenderlo? E la tentazione, per la

sua stessa natura, non gli aveva forse imposto il voto del silenzio? « Spaccò la

legna, legò Isacco, accese il rogo, sfilò il coltello ». O tu che mi ascolti! Molti padri

han creduto di perdere nel loro figlio il più prezioso tesoro del mondo e di esser

così spogliati d'ogni speranza avvenire. Eppure nessun figlio è stato il figlio della

promessa nel senso in cui Isacco lo fu per Abramo. Molti padri hanno perduto il

loro figliolo, ma esso fu loro tolto dalla mano di Dio, dall'insondabile e immutabile

volontà dell'Onnipotente. Affatto diverso, il caso di Abramo. Una più grave prova

gli era serbata; la sorte di Isacco fu posta nel pugno suo insieme al coltello. Tale la

sorte del vegliardo di fronte alla sua speranza unica! Ma egli non dubitò, non

guardò angosciato a destra e a sinistra, non stancò il Cielo con le sue preghiere.

Dunque l'Onnipotente lo metteva alla prova, egli lo sapeva, e sapeva anche che

quel sacrificio era il più grave che gli si potesse chiedere; ma sapeva che nessun

sacrificio è troppo grave, quando Iddio lo richiede. Ed egli levò il coltello.

Chi dette forza al braccio di Abramo, chi sostenne in alto la sua destra e le impedì

di ricadere impotente? Questa scena paralizza lo spettatore. Chi dette forza

all'anima di Abramo e impedì ai suoi occhi di oscurarsi in modo da non scorgere

più né Isacco né l'ariete? Questa scena acceca lo spettatore. Eppure è forse raro chi

ne divenga cieco e paralizzato e ancor più raro chi degnamente racconti che cosa

avvenne. Noi tutti lo sappiamo: non era che una prova.

Se Abramo, sulla montagna di Moriah, avesse dubitato; se, nella sua irresolutezza

avesse guardato intorno a sé; se, levando il coltello, avesse, per avventura, scorto

l'ariete; se Dio gli avesse permesso di sacrificarlo invece di Isacco; allora egli

sarebbe tornato alla sua casa, tutto sarebbe rimasto come prima. Avrebbe avuto

Sara presso di sé, avrebbe conservato Isacco. Eppure, che mutamento! Perché il

suo ritirarsi sarebbe stato una fuga, la sua salvezza sarebbe stato un caso, la sua

ricompensa un disonore, e il suo avvenire, forse, la perdizione. Allora, egli non

avrebbe testimoniato né della sua fede né della grazia di Dio, ma avrebbe soltanto

dimostrato quanto sia terribile salire la montagna di Moriah. Allora né Abramo, né

la montagna di Moriah sarebbero stati dimenticati. Questa sarebbe stata citata, non

già come l'Ararat dove si fermò l'arca, ma come un luogo di sgomento « è stato

quello (si sarebbe detto), è stato quello il luogo dove Abramo ha dubitato ».

Abramo, venerabile patriarca! Quando tu ritornasti da Moriah a casa tua, non avesti

affatto bisogno di un panegirico per consolarti d'una perdita. Perché, non è vero? tu

avevi guadagnato ogni cosa e conservato Isacco. Il Signore non te lo prese mai più

e tu fosti visto sedere felice a mensa col figlio tuo, come in cielo per l'eternità.

Abramo, venerabile padre! … Secondo padre del genere umano! Tu che per primo

hai sperimentato e testimoniato di quella prodigiosa passione che sdegna la lotta

terribile contro il furore degli elementi e le forze della creazione per combattere

con Dio; tu, che per primo hai sperimentato quella sublime passione, sacra, umile e

pura espressione della frenesia divina; tu, che i pagani ammirarono, perdona a chi

ha voluto parlare in tua lode se male ha eseguito il suo compito. Ha parlato

umilmente, come il suo cuore voleva; ha parlato brevemente, come conveniva. Ma

non dimenticherà mai che cento anni dovettero passare per te prima che tu

ricevessi, contro ogni attesa, il figlio della vecchiezza; e che, per conservare Isacco,

tu dovesti levare il coltello. Non dimenticherà mai che, fino a centotrent'anni, tu

non eri andato al di là della fede.

 

Problemata

Effusione preliminare

… Innumerevoli generazioni hanno saputo a memoria, e parola per parola, la storia

di Abramo; ma a quanti essa ha provocato l'insonnia?

Quella storia ha la strana virtù d'esser sempre magnifica, per quanto poveramente

la si voglia comprendere, a condizione tuttavia di voler lavorare e darsi da fare. Ma

si pretende, invece, comprenderla senza fatica. Si parla in gloria di Abramo. Ma

come? Si indica tutta la sua condotta con una espressione generica: « Fu grande per

avere amato Iddio al punto di avergli sacrificato quanto aveva di meglio ». Certo:

ma quel « meglio » è assai vago. Pensando e parlando, si identificano

tranquillamente Isacco e « il meglio », e intanto colui che medita può, a piacer suo,

fumare la pipa mentre compie le sue riflessioni e colui che ascolta può

comodamente sgranchirsi le gambe. Se il giovane ricco, che Gesù incontrò cammin

facendo, avesse venduto tutto il suo e ne avesse distribuito ai poveri il ricavato, noi

loderemmo la sua condotta come ogni azione grande, pur non potendo

comprenderla appieno senza lavoro e fatica. Tuttavia, egli non sarebbe divenuto un

Abramo per il fatto di aver sacrificato quanto aveva di meglio! Quel che si omette,

nella storia del patriarca, è l'angoscia. Perché, mentre non sono legato da alcun

obbligo morale verso il denaro, il padre è legato dal più nobile e dal più sacro di

quegli obblighi verso suo figlio. Ma l'angoscia è pericolosa per i delicati. Per

questo la si tace, e tuttavia si pretende parlare d'Abramo. Si perora; e, sempre

discorrendo, si mescolano le due parole, « Isacco » e « il meglio ». Tutto fila

benissimo. Ma se fra gli ascoltatori vi è alcuno che soffra di insonnia, si rischia

allora il tragicomico del più profondo e del più spaventoso malinteso. Il nostro

uomo ritorna a casa, desideroso di imitare Abramo. Il suo figliolo non è forse il


meglio che abbia? Se l'oratore lo viene a sapere, certo si precipita dietro di lui,

raccoglie tutta la sua dignità di prete e grida: « Uomo abbietto, rifiuto della società!

Quale demone ti possiede e ti spinge a uccidere la tua creatura! ». E quel prete, che


il sermone su Abramo non ha né riscaldato, né fatto sudare, stupisce della potenza e

della giusta collera con la quale ha folgorato quel poveruomo. È contento di sé,

perché mai ha parlato con tanta forza e persuasione. Dice a se stesso, e ripete a sua

moglie: « Ho il dono della parola. Finora, non mi è mancata che l'occasione.

Domenica, quando ho predicato su Abramo, non ero affatto preso dal mio

argomento ». Se quel predicatore avesse una qualche particella di ragionevolezza

da perdere, penso che la perderebbe quando il peccatore gli rispondesse con calma

e dignità: « Ma quanto tu stesso ci hai detto domenica nella tua predica ».

D'altronde come avrebbe potuto immaginare il prete una cosa simile? Eppure non

c'era davvero nulla di sorprendente. L'errore suo era soltanto quello di non sapere

quel che si dicesse. Come mai non si trovano poeti capaci di affrontare

risolutamente situazioni di questo genere, invece delle sciocchezze che gonfiano


commedie e romanzi! Qui, il tragico e il comico si incontrano nell'infinito assoluto.

In sé, la predica del prete è indubbiamente piuttosto ridicola, ma lo diventa

infinitamente per via del suo effetto, d'altronde affatto naturale. Sarebbe anche

possibile mostrare il peccatore convertito dal sermone del pastore, senza obiettare

nulla; e lo zelante pastore tornarsene tutto allegro a casa sua pensando che, se tocca

così il suo uditorio dall'alto del pergamo, è soprattutto irresistibile nella cura delle

anime, perché la domenica trascina l'accolta dei fedeli e il lunedì, simile a un

cherubino che brandisca una spada di fiamma, si presenta di fronte all'insensato che

vorrebbe smentire con i suoi atti il vecchio proverbio, secondo il quale le cose della vita non vanno come predica il prete.

Al contrario, se il peccatore non è stato persuaso, la sua situazione è piuttosto

tragica. Egli, molto probabilmente, viene condannato a morte o mandato in un


manicomio. Diventa insomma infelice di fronte alla cosiddetta realtà; e, beninteso, in un senso diverso da quello nel quale Abramo l'ha reso felice. Perché chi lavora non perisce.

Come spiegare la contraddizione del nostro predicatore? Si potrà dire forse che

Abramo ha acquisito per prescrizione il titolo di grand'uomo, sicché un atto come il

suo è nobile, se compiuto da lui, mentre invece è rivoltante peccato, se compiuto da

un altro. In questo caso, non ho la minima voglia di sottoscrivere un elogio tanto

assurdo. Se la fede non può giustificare il fatto di voler uccidere il proprio figliolo,

Abramo cade sotto il giudizio comune. Che poi, se non si ha il coraggio di andare

fino in fondo al proprio pensiero e dichiarare Abramo un assassino, è meglio

sempre acquistare quel coraggio piuttosto che perdere il tempo in panegirici

immeritati. Dal punto di vista morale, la condotta di Abramo si esprime dicendo

ch'egli volle uccidere Isacco; e dal punto di vista religioso, dicendo che volle

sacrificarlo. È questa la contraddizione angosciosa capace di produrre l'insonnia e

senza questa angoscia, tuttavia, Abramo non è l'uomo che è. E fors'anche egli non

ha affatto compiuto ciò che si racconta di lui. Forse il suo atto, spiegandolo con i

costumi del tempo, fu tutt'altro. In questo caso, dimentichiamoci del patriarca. A

che cosa può servire, infatti, ricordare il passato che non può diventare un

presente? O forse il nostro oratore ha dimenticato un elemento corrispondente alla

dimenticanza etica del dovere paterno. Quando, infatti, si sopprime la fede

riducendola a zero, resta solo il fatto bruto che Abramo volle uccidere suo figlio,

condotta assai facile ad imitare da parte di chiunque non abbia quella fede, che gli

rende difficile il sacrificio.

… Dev'esser difficile comprendere Hegel; ma Abramo! Uno scherzo. Superare

Hegel, è un prodigio. Ma superare Abramo, nulla di più facile! Quanto a me, ho

impiegato gran tempo nello studio del sistema hegeliano, e credo anzi di averlo

abbastanza capito. Sono persino tanto temerario da credere che, quando, malgrado

tutti i miei sforzi, non arrivo ad afferrare il suo pensiero in taluni passaggi, ciò

voglia dire che il mio autore non è abbastanza chiaro con se medesimo. Io compio

quello studio assai facilmente, in modo affatto naturale, né esso mi dà il mal di

capo. Ma, quando mi metto a riflettere su Abramo, sono come annientato. Ad ogni

istante i miei occhi cadono sull'inaudito paradosso ch'è la sostanza della sua vita.

Ad ogni istante sono respinto indietro e, malgrado il suo appassionato accanimento,

il mio pensiero non può penetrare quel paradosso neppure per un capello. Tendo

ogni muscolo nella ricerca di una via di uscita. E, simultaneamente, sono

paralizzato.

… Bisogna dunque fare a meno di predicare su Abramo? Non lo credo. Se dovessi

parlare di lui, rappresenterei anzitutto il dolore della prova. Vorrei succhiare come

una sanguisuga tutta l'angoscia, la sofferenza e il martirio del dolore paterno per

poter rappresentare quello di Abramo che tuttavia, in mezzo a tante afflizioni,

continuava a credere. Vorrei allora ricordare che il viaggio durò tre giorni e una

buona parte del quarto; e quei tre giorni e mezzo, io li farei durare infinitamente più

a lungo delle migliaia di anni che ci separano dal patriarca. A questo punto

ricorderei che, a parer mio, ciascuno può ancora far marcia indietro prima di salire

a Moriate, può ad ogni istante pentirsi della sua decisione e tornare sui propri passi.

Così facendo non correrò il pericolo di destare in taluno la voglia di essere provato

come lo fu Abramo.

Ma se si vuole smerciare un'edizione popolare ed economica di Abramo e diffidare

al tempo stesso la gente dal fare come lui, si è semplicemente ridicoli.

Io mi propongo ora di ricavare dalla storia di Abramo, sotto forma di problemi, la

sua dialettica; per vedere quale inaudito paradosso è la fede, paradosso capace di


trasformare un delitto in un atto santo e gradito a Dio, paradosso che restituisce ad

Abramo suo figlio, paradosso che nessun ragionamento può dominare, perché la

fede comincia là, appunto, dove la ragione finisce.

 

Problema I: Esiste una sospensione teleologica della morale?


La morale è propriamente il Generale e, in quanto Generale, è ciò che vale per tutti.

In altro senso si può dire che è ciò che è valido in ogni istante. Riposa, immanente

in se stessa, senza nulla di esterno, che sia il suo télos, essendo essa stessa télos di

tutto ciò che le è esterno. E quando ha integrato tutto ciò a se stessa, ha raggiunto il

suo scopo. Posto come essere immediato, sensibile e psichico, l'individuo è l'Individuo

che ha il suo télos nel Generale. E questo è il suo compito etico: esprimere

costantemente se stesso in quello, e dissolvere la propria individualità nel Generale.

Quando l'individuo rivendica la sua individualità di fronte al Generale, egli pecca,


né può riconciliarsi col Generale se non riconoscendolo. Ogni volta che l'Individuo,

dopo essere entrato nel Generale, si sente portato a rivendicare la sua individualità,

entra in una crisi dalla quale si libera solo col pentimento, abbassandosi come

Individuo nel Generale. …

La fede è, appunto, il paradosso secondo il quale l'Individuo, come tale, al di sopra

del Generale, è in regola di fronte a questo, non come subordinato, ma come

superiore; e nondimeno (si badi bene) in modo tale che l'Individuo, dopo essere stato come tale subordinato al Generale, diventa allora, per mezzo del Generale, l'Individuo come tale, superiore a quello; in modo che l'Individuo come tale è in un rapporto assoluto con l'Assoluto. Questa posizione sfugge alla mediazione, che si effettua sempre in virtù del Generale. Essa è e resta eternamente un paradosso inaccessibile al pensiero. La fede è questo paradosso, altrimenti (conseguenza che prego voler ricordare continuamente per non dovere infastidire il lettore ad ogni passo) la fede non è mai esistita perché c'è sempre stata; in altre parole, Abramo è perduto.


.. Il paradosso della fede consiste dunque nel fatto che l'Individuo è superiore al Generale, in modo che (per ricordare una distinzione dogmatica oggi raramente impiegata) l'Individuo determina il suo rapporto col Generale mediante il suo rapporto con l'Assoluto e non già il suo rapporto con l'Assoluto mediante il suo rapporto col Generale. Si può anche formulare il paradosso dicendo che esiste un dovere assoluto verso Dio; perché, in questo dovere, l'Individuo in quanto Individuo si riferisce in modo assoluto all'Assoluto. In queste condizioni, quando si afferma che amare Iddio è un dovere, si esprime una cosa diversa da quella detta prima; perché, se questo dovere è assoluto, la morale scende al livello del relativo. Nondimeno, non ne consegue che la morale debba essere abolita; essa riceve piuttosto un'espressione affatto diversa, quella del paradosso, di modo che, ad esempio, l'amore verso Dio può condurre il cavaliere della fede a dare al suo amore verso il prossimo l'espressione contraria a quanto, dal punto di vista morale, è il suo dovere.

Se non è così, la fede non ha il suo posto nella vita, essa non è che una crisi; e Abramo è perduto, in quanto ha ceduto ad essa.

Questo paradosso non si presta ad essere mediato: perché riposa sul fatto che l'Individuo è esclusivamente l'Individuo. Quando vuole esprimere il suo dovere assoluto nel Generale e prendere coscienza di quello in questo, riconosce d'essere in crisi e, malgrado la sua resistenza a questo turbamento, non arriva a compiere il sedicente dovere assoluto; e, se non lo compie, pecca, benché la sua azione traduca realiter quello che era il suo dovere assoluto. Che cosa dovrebbe fare Abramo, allora? Se dicesse a qualcuno: « Amo Isacco più di ogni altra cosa al mondo; ecco perché mi è così penoso sacrificarlo », il suo interlocutore gli risponderebbe alzando le spalle: « e perché vuoi sacrificarlo? »; a meno che, pieno di acume, non scoprisse che Abramo esibisce sentimenti in stridente contraddizione con la sua condotta.


Noi troviamo un paradosso di questo genere nella storia di Abramo. Dal punto di vista morale, il rapporto che lo lega a Isacco si esprime dicendo che il padre deve amare il figliolo. Questo rapporto morale è così abbassato al relativo in contrasto al rapporto assoluto con Dio. Se si chiede perché, Abramo non può rispondere altro che questo: che è una prova, una tentazione, ciò che (come abbiamo detto) esprime l'unità d'una condotta nella quale egli agisce per amore di Dio e per amore di se stesso. … Da una parte, la fede ha l'espressione del supremo egoismo: compie l'azione terribile, per amore di se stessa. D'altra parte, è l'espressione dell'abbandono assoluto; e agisce per amore di Dio. Essa non può penetrare il Generale per via di mediazione; in quel modo sarebbe distrutta. La fede è questo paradosso; e l'Individuo non può assolutamente farsi intendere da nessuno. Ci si immagina, lo so bene, che possa farsi comprendere da un suo pari che si trovi nella medesima situazione. Un cavaliere della fede non può assolutamente soccorrerne un altro. O l'Individuo diventa cavaliere della fede assumendo su di sé il paradosso, o non lo diventai mai. In regioni come queste non si pensi di poter andare in compagnia. L'Individuo non può ricevere che da se stesso una spiegazione più particolareggiata di quel ch'egli debba intendere come « Isacco ». E se, dal punto di vista del Generale, fosse possibile determinarlo abbastanza esattamente (ma sarebbe una contraddizione profondamente ridicola situare l'Individuo, che è, appunto, al di fuori del Generale, sotto categorie generali, poiché deve agire proprio in quanto Individuo fuori del Generale), l'Individuo non potrà tuttavia assicurarsene mai con altri, ma solo attraverso se stesso, in quanto Individuo. Così, quand'anche un uomo fosse tanto vile e miserabile da voler diventare cavaliere della fede sotto responsabilità altrui, non lo diverrebbe; perché soltanto l'Individuo, in quanto Individuo, lo diventa. Là è la sua grandezza, che io comprendo bene e alla quale, per mancanza di coraggio, non so pervenire; ma là è anche l'aspetto spaventoso della cosa. E questo posso concepirlo molto meglio.

S. Kierkegaard, Timore e tremore, Arnaldo Mondadori, Milano, 2008. Estratti pag. 247-58,