quarta di copertina da "I Simpson e la filosofia"

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venerdì 10 agosto 2007

ARISTOTELE, POETICA testo integrale

POETICA di ARISTOTELE

I.
Dunque dell'arte della poesia in sé e delle sue forme, quale potenzialità intrinseca ciascuna abbia e
come si debbano comporre i racconti perché la poesia appaia ben fatta a chi la fruirà e, inoltre, di quante e di quali parti si costituisca e, allo stesso modo, di tutti gli altri argomenti che concernono questa ricerca, trattiamo iniziando, come è naturale, da ciò che viene prima.
L'epica e la poesia tragica, nonché la commedia e la composizione di ditirambi e la maggior parte dell'auletica e della citaristica, tutte si trovano ad essere, nel complesso, imitazioni; ma si distinguono l'una dall'altra per tre aspetti: nell'imitare o con strumenti diversi o oggetti diversi o diversamente e non nel medesimo modo.
Come, infatti, alcuni imitano ricreando molti oggetti sia con colori sia con figure (alcuni per arte, altri per pratica), mentre altri con la voce, così, anche nelle suddette arti, tutte compiono l'imitazione con il ritmo e con la parola e con l'armonia, separatamente oppure combinati: ad esempio servendosi solo
dell'armonia e del ritmo l'auletica, la citaristica e tutte le altre arti che si trovano ad essere simili nella loro potenzialità intrinseca, come, ad esempio, l'arte della zampogna; del solo ritmo senza armonia si serve l'arte dei danzatori (ed infatti costoro, grazie a dei ritmi figurati, riproducono caratteri, sentimenti e azioni); l'arte che utilizza solo le nude parole e quella che si serve dei versi metrici, sia combinandoli gli uni con gli altri sia usandone una sola tipologia, si trovano ad essere, fino ad ora, prive di un nome; giacché non potremmo chiamare con una denominazione comune i mimi di Sofrone e di Senarco e i discorsi socratici, neppure se uno con trimetri o versi elegiaci od altri versi analoghi compisse l'imitazione. Se non che gli uomini, unendo al verso il comporre, definiscono gli uni compositori di elegie, gli altri
compositori epici, non chiamandoli poeti per l'imitazione, bensì comunemente per il metro; ed infatti anche coloro che espongono in versi qualcosa che concerne la medicina o la natura, così si è avvezzi a
denominarli; mentre, a parte il verso, Omero ed Empedocle non hanno nulla in comune; pertanto sarebbe giusto definire l'uno poeta, l'altro filosofo della natura piuttosto che poeta; similmente, anche qualora uno compisse l'imitazione unendo tutti i tipi di metro, come Cheremone compose il Centauro, che è
una rapsodia combinata di tutti i metri, dovrebbe essere chiamato poeta.

E queste sono le distinzioni da fare su tale argomento.

Vi sono poi alcune arti che si servono di tutti i mezzi sopracitati, intendo dire il ritmo e il canto e il metro, come la poesia dei ditirambi e quella dei nomi, la tragedia e la commedia: differiscono, però, nel
senso che alcune li usano tutti insieme, altre solo in parte.

Queste, dunque, sono le differenze tra le arti quanto ai mezzi con cui esse compiono l'imitazione.

II.
Dato che coloro che imitano, imitano persone che agiscono, e necessariamente queste sono o nobili o ignobili (i caratteri, infatti, corrispondono pressoché sempre a questi soli tipi, giacché tutti differiscono quanto al carattere in vizio o in virtù), dunque o migliori di noi o peggiori o anche tali quali a noi, come i pittori: Polignoto, infatti, li ritraeva migliori, Pausone peggiori, Dionisio tali e quali. È evidente che anche ciascuna delle suddette imitazioni mostrerà queste differenze e sarà differente per il fatto di imitare in questo modo diversi oggetti. Ed infatti nella danza, nell'auletica e nella citaristica è possibile riscontrare queste diversità, come anche nella prosa e nella poesia senza accompagnamento di canto: Omero, ad esempio, (rappresenta persone) migliori; Cleofonte simili; Egemone di Taso, che per primo compose parodie e Nicocare, l'autore della Deiliade, peggiori; lo stesso si può dire nel caso dei ditirambi e dei nomi, poiché si potrebbe compiere l'imitazione come Timoteo e Filosseno con I Ciclopi. Secondo la medesima distinzione anche la tragedia differisce dalla commedia: infatti questa si prefigge di rappresentare persone peggiori delle persone reali, quella migliori.
III.
La terza differenza, poi, consiste nel modo in cui si potrebbe compiere l'imitazione di ciascuna di queste cose. Infatti, è possibile imitare con gli stessi strumenti e gli stessi oggetti sia in forma narrativa - diventando qualcun altro come fa Omero, oppure rimanendo se stessi senza alcun mutamento - sia imitando tutte le persone che agiscono e operano. In queste tre differenze sta l'imitazione, come si è detto da principio, nei mezzi, negli oggetti e nel come. Tant'è che, per un aspetto, lo stesso Sofocle potrebbe essere imitatore di Omero, giacché entrambi imitano persone nobili; per un altro aspetto di Aristofane: infatti entrambi imitano persone che fanno ed agiscono. Pertanto si afferma che queste opere sono chiamate azioni teatrali, in quanto imitano persone che agiscono. Perciò i Dori arrogano a sé la paternità della tragedia e della commedia (la commedia i Megaresi, tanto quelli di qui, quando da loro si era affermata la democrazia, quanto quelli di Sicilia, giacché di lì era Epicarmo, il poeta che fu di molto precedente a Chionide e a Magnete; la tragedia
alcuni del Peloponneso) facendo dei nomi un segno [cioè mediante etimologie, ndr]: essi, infatti, sostengono di chiamare kómai i villaggi, mentre gli Ateniesi li chiamano démoi, come se i commedianti [komodói] non derivassero il loro nome dall'andare per le strade cantando e danzando [komázein], ma dal loro vagare per i villaggi [katá kómas] tenuti a vile dalla città; sostengono anche che essi chiamano il fare "agire" [drán], mentre gli Ateniesi compiere [práttein]. Per quanto riguarda le differenze dell'imitazione, quante e quali siano, basta quanto detto.

IV.
In generale sembra che due cause abbiano generato l'arte poetica e si tratta di cause naturali. Infatti da una parte l'imitare è connaturato agli uomini fin da quando sono bambini ed in questo si distinguono dagli altri esseri viventi, per il fatto di essere più portati ad imitare e per il fatto di acquisire,
grazie all'imitazione, i primi rudimenti del comportamento; dall'altra tutti provano piacere dalle imitazioni. Lo dimostra quel che accade in pratica: le immagini di ciò che in sé ci dà fastidio vedere, come, ad
esempio, le figure degli animali più spregevoli e dei cadaveri, ci arrecano piacere allorché le guardiamo riprodotte in modo molto particolareggiato. E ne è causa anche il fatto che l'apprendere è molto
piacevole, non solo per i filosofi, ma anche, allo stesso modo, per tutti gli altri; soltanto che questi ne
partecipano per poco tempo. Infatti per tale ragione, allorché vedono le immagini, traggono un piacere poiché accade che, guardando, si impara e si considera che cosa sia ogni cosa, ad esempio che
questo è quello; qualora, poi, capiti di non averlo visto già prima, non in quanto imitazione procurerà
piacere, ma a causa della perfezione della sua fattura o del suo colore e per qualche altro motivo analogo.

Dunque visto che noi possediamo naturalmente la capacità di imitare e l'armonia e il ritmo (infatti è
evidente che i versi sono parte del ritmo), inizialmente coloro che erano più inclini per natura a queste
cose generarono la poesia muovendo, a poco a poco, dalle improvvisazioni poetiche.

Poi la poesia fu distinta in base alle peculiarità dei caratteri individuali dei poeti: infatti quelli di animo
più nobile imitavano le azioni nobili, dignitose e di nobili persone, mentre quelli di animo meno nobile
imitavano le azioni della gente mediocre, dapprima componendo motteggi, come altri inni ed encomi.

Non possiamo riferire alcun componimento poetico del genere di nessuno di quelli che precedettero
Omero, ma è verosimile che ne esistessero in gran numero; mentre, invece, è possibile farlo prendendo le mosse da Omero, ad esempio, per il suo Margite e opere simili. Ed in quelle, secondo convenienza, comparve anche il verso giambico - per questo motivo ora si chiama giambo, per il fatto che in questo verso si schernivano reciprocamente. E, fra gli antichi, gli uni divennero poeti di poesie eroiche, gli
altri di giambi.

Come dunque Omero fu soprattutto colui che fornì il modello per il genere serio (fu, infatti, unico non
solo poiché lo fece bene, ma anche per il fatto che compì imitazioni di genere drammatico), così per primo egli tracciò anche la forma della commedia, scrivendo in maniera drammatica non il motteggio, bensì il ridicolo; infatti il Margite è in stretto rapporto con la commedia, come l'Iliade e l'Odissea lo sono con
la tragedia.

Pertanto apparvero la tragedia e la commedia; coloro che per la propria natura si accingevano all'una

o all'altra poesia, gli uni divennero autori di commedie anziché di giambi, gli altri, anziché di canti epici, di tragedie, giacché queste forme erano più importanti e più stimate di quelle.
Ricercare se la tragedia sia sufficientemente fornita di elementi oppure no e giudicare ciò sia in sé sia
in rapporto agli spettatori, è un altro discorso.
Dunque sorta la tragedia da un inizio di improvvisazione - sia essa sia la commedia, e l'una da coloro che intonavano il ditirambo, l'altra da coloro che guidavano i cortei fallici che ancora oggi in molte città sono rimasti in uso - a poco a poco si sviluppò, dato che i poeti portavano avanti quanto appariva
proprio di essa; dopo molti mutamenti la tragedia cessò di mutare allorché ebbe realizzato la propria
natura.

Ed Eschilo fu il primo a portare il numero degli attori da uno a due e a ridurre le parti del coro e ad assegnare un ruolo importante al dialogo; di Sofocle sono i tre attori e la scenografia.

Quanto poi alla grandezza: da racconti piccoli e da un linguaggio ridicolo, dato che si trasformava dal
satirico, assunse tardi un tono solenne ed il metro da tetrametro si trasformò in giambo. Infatti dapprincipio adoperavano il tetrametro, dato che la poesia era satirica e più improntata alla danza, ma, allorché fu introdotto il dialogo, la natura stessa trovò il metro appropriato; infatti il giambico è il più colloquiale fra i metri: prova ne è che, quando dialoghiamo vicendevolmente, ci capita di pronunciare molti
giambi, mentre degli esametri di rado e solo quando ci si allontana dal tono prosastico.

Un altro cambiamento riguardò il numero degli episodi. E teniamo per detto come ciascun particolare sia stato perfezionato; infatti passarli in rassegna uno ad uno sarebbe forse un lavoro eccessivamente lungo.

V.
La commedia è, come abbiamo detto, imitazione di persone di poco conto, non certo per un vizio qualunque, ma perché il ridicolo è parte del disdicevole. Infatti il ridicolo è qualcosa di sbagliato e di brutto che però non causa dolore e che non è distruttivo, come la maschera comica è qualcosa di deforme
e di stravolto senza dolore. Mentre dunque i mutamenti della tragedia e i motivi per cui si sono verificati non sono oscuri, la commedia, invece, ci è ignota dato che, dal principio, non è stata considerata in
modo appropriato; infatti l'arconte concesse soltanto tardi il coro dei comici, e pertanto questi erano volontari. Quando essa aveva già una forma, quelli che sono detti suoi poeti sono ricordati. Ma la persona che stabilì maschere o prologhi o il numero degli attori o cose siffatte la si ignora.

La composizione dei racconti inizialmente venne dalla Sicilia; tra quelli in Atene Cratete per primo, tralasciando la forma del giambo, cominciò a comporre racconti e storie a carattere generale. Pertanto la
poesia epica ha una certa analogia con la tragedia fino ad essere imitazione con parole in metro di persone nobili; invece si differenziano per il fatto di usare un metro solo e per il fatto di essere una narrazione; ed anche per la lunghezza: l'una cerca il più possibile di svolgersi in una sola giornata o di debordare di poco; l'epica, invece, è indeterminata quanto al tempo ed in questo si differenzia, benché inizialmente nelle tragedie e nei canti epici si facesse allo stesso modo. Le parti, inoltre, alcune sono uguali, altre, invece, sono peculiari della tragedia: pertanto colui che si intende di tragedia che vale e di tragedia di poco conto è in grado di valutare anche i canti epici: infatti le caratteristiche dell'epica appartengono alla tragedia, mentre non tutto ciò che è caratteristico di quest'ultima si ritrova nell'epica.

VI.
Dunque dell'arte imitativa in esametri e della commedia diremo in seguito; parliamo ora invece della
tragedia, desumendo da ciò che è stato detto la definizione della sua essenza. Dunque tragedia è imitazione di un'azione seria e compiuta, che ha una sua estensione, con un linguaggio adorno, in maniera distinta per ciascun elemento nelle sue parti, di persone che agiscono e non tramite un'esposizione
narrativa, e che per mezzo di pietà e di paura conduce alla purificazione di tali emozioni.

Intendo per linguaggio adorno quello fornito di ritmo e di musica, distintamente per gli elementi il comporre alcuni solo con versi ed altri, invece, con il canto.

Dal momento che coloro che compiono l'imitazione agiscono direttamente, ne deriva anzitutto che una
parte della tragedia sarà l'ordine di ciò che viene rappresentato; poi vi è la composizione dei canti e il
linguaggio, mezzi con cui compiono l'imitazione. E intendo per linguaggio la stessa composizione dei
versi, mentre per composizione dei canti ciò che possiede un significato del tutto chiaro. E dal momento che è imitazione di un'azione ed è compiuta da alcuni che agiscono, i quali è necessario che siano
di una certa qualità in base al carattere ed al loro pensiero (infatti grazie a costoro noi diciamo che le
azioni sono di una certa qualità e, in base ad esse, tutti riportano un successo o si imbattono in un insuccesso), imitazione dell'azione è il racconto: infatti per racconto qui voglio dire la composizione dei
fatti, mentre per caratteri [intendo] ciò in base a cui affermiamo che coloro che agiscono sono di una
certa qualità; in ultimo per pensiero [intendo] ciò con cui parlando si dimostra qualcosa ovvero si manifesta un giudizio.

Pertanto è necessario che di tutta la tragedia vi siano sei parti secondo le quali la tragedia ha una certa qualità: si tratta del racconto, dei caratteri, del linguaggio, del pensiero, di ciò che si vede e della
composizione dei canti.

Due parti, infatti, sono i mezzi con cui si imita, una il modo in cui si imita e tre gli oggetti dell'imitazione; oltre a queste, non ve ne sono altre.

Non pochi dei poeti si sono serviti di tutti questi elementi: spettacolo, carattere, racconto, linguaggio,
canto e pensiero in uguale modo.

Ma il più importante di questi elementi è la composizione dei fatti. Infatti la tragedia è imitazione non
di uomini, bensì di azioni e della vita [e felicità e infelicità sono nell'azione ed il fine è un'azione, non una
qualità: ed alcuni possiedono una certa qualità grazie ai caratteri, ma sono fortunati oppure no grazie
alle azioni]; ebbene non agiscono per imitare i caratteri, ma abbracciano i caratteri a causa delle azioni; tant'è che i fatti ed il racconto sono il fine della tragedia ed il fine è la cosa più importante di tutte.
Inoltre senza azione non vi potrebbe essere una tragedia, mentre senza caratteri vi potrebbe essere:
giacché le tragedie della maggior parte degli autori recenti mancano di caratteri e, a livello generale,
molti sono i poeti siffatti, come, ad esempio, anche fra i pittori Zeusi si trova così nei confronti di Polignoto: Polignoto infatti è un valido pittore di caratteri, mentre la pittura di Zeusi non ne presenta alcuno.

Inoltre, qualora uno ponga di seguito discorsi morali ben organizzati, sia per linguaggio sia per pensiero, non si compirà ciò che è proprio della tragedia, mentre (vi riuscirà) molto di più la tragedia che si
serva di un linguaggio e di un pensiero scadenti, ma che abbia un racconto ed una composizione delle vicende.

Oltre a ciò gli elementi con cui la tragedia affascina maggiormente sono parti del racconto, sia le peripezie sia i riconoscimenti. Inoltre ne è prova il fatto che coloro che cominciano a poetare sono in grado di disporre accuratamente sia il linguaggio sia i caratteri prima che di comporre i fatti, come [è capitato] pressoché a tutti i primi poeti.

Pertanto principio e quasi anima della tragedia è il racconto, in secondo luogo i caratteri (ed in modo
analogo nella pittura: se, infatti, uno spargesse i più bei colori alla rinfusa, non trarrebbe uguale diletto
che se avesse colorato un'immagine di bianco); ed è imitazione di un'azione e, soprattutto a causa di
questa, [imitazione] di persone che agiscono.

In terzo luogo vi è il pensiero: ma questo è l'essere in grado di dire le cose possibili e convenienti, cosa che è compito dei discorsi della politica e della retorica; gli antichi, infatti, creavano personaggi che
parlavano secondo le regole dell'arte politica, i moderni secondo le regole dell'arte retorica. Carattere è
ciò che rivela quale sia il proponimento - pertanto non hanno carattere fra i discorsi quelli nei quali è del
tutto assente ciò che si propone o vuole evitare colui che parla - e pensiero ciò con cui si rivela che una
cosa è o non è, ovvero si mostra un'idea in generale.

Quarto il linguaggio: e intendo, come in precedenza si è affermato, per linguaggio la facoltà di esprimere ciò che si pensa grazie all'uso delle parole, cosa che possiede la medesima potenzialità e nel verso e nella prosa.

Fra i rimanenti la musica è il più importante degli abbellimenti, mentre l'apparato scenico è seducente [per lo spettatore], ma non appartiene all'essenza dell'arte poetica: infatti la tragedia è efficace anche senza rappresentazione e senza attori e, inoltre, per realizzare ciò che si vede è più importante l'arte del fabbricante di apparecchi scenici che quella dei poeti.

VII.
Stabiliti questi punti, parliamo ora di quale debba essere la composizione delle vicende, dato che
questo è il primo ed anche il più importante fattore della tragedia. Si è stabilito che la tragedia è un'imitazione di un'azione compiuta e completa, che possiede una certa grandezza, giacché può esistere un
intero che non ha alcuna grandezza. Intero è, inoltre, ciò che possiede un inizio, una metà ed una fine.
Inizio è ciò che esiste di per sé, non necessariamente dopo qualcosa d'altro, ma, dopo il quale, qualcosa d'altro esiste o si genera; fine, invece, è ciò che esiste o necessariamente o per lo più dopo qualcosa d'altro, ma, dopo il quale, non esiste niente altro; metà è ciò che viene dopo qualcosa d'altro e,
dopo il quale, vi è altro. Pertanto bisogna che i racconti ben composti non abbiano inizio dove capita
né finiscano a caso, bensì adoperino le forme suddette.

Inoltre ciò che è bello, sia essere vivente sia ogni cosa che sia composta di alcune parti, non solo deve avere queste parti bene ordinate, ma anche essere di grandezza non casuale: giacché ciò che è bello lo è in grandezza ed in disposizione; pertanto un bell'animale non potrebbe essere né piccolissimo
(infatti la visione si confonde avvicinandosi in tempo impercettibile) né eccessivamente grande (giacché la visione non si verifica in modo simultaneo, ma coloro che guardano perdono di vista l'unità e la
totalità), come se, ad esempio, vi fosse un animale di diecimila stadi; tant'è che è necessario che, come per i corpi [inanimati] e per gli animali deve esserci una grandezza, ma facile da abbracciare con
lo sguardo, così anche per i racconti ci deve essere una durata e questa deve essere facile da ricordarsi.

Ma il limite della durata in rapporto alle rappresentazioni ed alla ricezione [da parte degli spettatori]
non è proprio dell'arte: se, infatti, si dovessero rappresentare cento tragedie, bisognerebbe regolarsi
con la clessidra, come si dice che qualche volta sia stato fatto.

Il limite in rapporto alla natura del fatto è che è sempre più bello, per quanto concerne la grandezza,
ciò che è più grande fintanto che è evidente [che può essere abbracciato con lo sguardo, ndr]; e, per
fornire una definizione in generale, [abbia] una grandezza tale che in un succedersi di fatti, come è verosimile o necessario, si possa verificare il passaggio alla buona sorte dalla cattiva o dalla buona alla
cattiva: questa è una definizione idonea della grandezza.

VIII.
Il racconto è unitario, non come alcuni pensano, qualora tratti di una sola persona: infatti ad uno solo
accadono molti ed innumerevoli fatti in alcuni dei quali non vi è alcuna unità; così vi sono anche numerose azioni di uno solo dalle quali non si genera alcuna azione unitaria.

Pertanto sembra che sbaglino tutti quei poeti che hanno composto una Eracleide, una Teseide e componimenti di questo genere: infatti ritengono che, dal momento che Eracle era una persona sola, sia opportuno che anche il racconto sia unitario. Omero, invece, come si distingue anche in altri aspetti, anche in questo sembra aver visto bene o per arte o per predisposizione naturale: componendo, infatti,
l'Odissea non ha raccontato tutti i fatti che accaddero ad Odisseo, come, ad esempio, che fu ferito sul
Parnaso o si finse pazzo nel momento dell'adunata, due fatti dei quali non era necessario o verosimile
che ne accadesse alcuno, ma compose l'Odissea intorno ad un'unica azione nel senso che intendiamo
e, analogamente, anche l'Iliade.
Pertanto, come nelle altre arti imitative l'imitazione è unitaria se uno è il suo oggetto, così anche il racconto, dato che è imitazione di un'azione, deve esserlo di un'unica ed intera [azione] e le sue parti devono essere così legate che, tramutata o sottratta una parte, l'intero venga cambiato e stravolto: giacché ciò che, essendo aggiunto o non essendo aggiunto, non produce alcunché di manifesto, non è parte dell'intero.

IX.
Dalle suddette affermazioni risulta evidente anche che compito del poeta non è riferire i fatti realmente avvenuti, bensì quali potrebbero avvenire, cioè quelli possibili secondo verosimiglianza o necessità.
Giacché lo storico ed il poeta non differiscono nel dire in versi o senza versi (si potrebbe infatti mettere
in versi l'opera di Erodoto e nondimeno sarebbe un'opera storica con versi o senza versi); ma in questo
si distinguono: l'uno riferisce i fatti avvenuti, mentre l'altro quali potrebbero avvenire. Pertanto la poesia
è più filosofica e più degna della storia: infatti la poesia dice piuttosto ciò che è universale, mentre la
storia i particolari. È universale il fatto che ad una persona di una determinata qualità capiti di dire o di
fare cose di una determinata qualità secondo verosimiglianza o necessità, cosa a cui mira la poesia pur
dando nomi propri ai personaggi; il particolare, invece, che cosa Alcibiade fece o che cosa subì.

Pertanto nella commedia questo è risultato chiaro: infatti dopo aver composto il racconto con personaggi verosimili, impongono dei nomi a caso e non come i compositori di giambi che compongono su
di una persona in particolare. Nel caso della tragedia, invece, si attengono ai nomi già esistenti.

Ne è motivo il fatto che credibile è il possibile: pertanto noi non crediamo sempre possibile ciò che
non è avvenuto, mentre è evidente che ciò che è avvenuto era possibile: giacché non si sarebbe verificato se fosse stato impossibile.

Tuttavia anche in alcune tragedie ci sono uno o due nomi conosciuti, mentre gli altri sono creati; in altre, invece, non ve n'è alcuno, come nell'Anteo di Agatone: infatti in quest'opera sono inventati in modo
analogo sia i nomi sia i fatti e non risulta meno gradito. Tant'è che non si deve cercare di attenersi ad
ogni costo ai racconti tramandati intorno ai quali si sono costruite le tragedie. Ed infatti è ridicolo cercare questo, visto che ciò che è noto è noto a pochi, ma tuttavia risulta gradito a tutti.

Dunque da queste considerazioni è chiaro che il poeta deve essere autore più di racconti che di versi in quanto è poeta sulla base dell'imitazione ed imita le azioni. E qualora gli capiti di rappresentare fatti accaduti, nondimeno è poeta: infatti, tra le vicende avvenute, nulla impedisce che ve ne siano alcune
quali è verosimile che siano, verosimiglianza secondo la quale egli ne è autore.

Dei racconti e delle azioni semplici, quelli episodici sono i peggiori: intendo per episodico un racconto nel quale gli episodi si susseguono senza verosimiglianza né necessità. Sono composti in tale modo
dai poeti di mediocri capacità per colpa loro, da quelli valenti per colpa degli attori: giacché componendo per le recite teatrali e protraendo il racconto oltre le sue possibilità, spesso sono costretti a stravolgere il susseguirsi dei fatti. E perché l'imitazione non è solo di un'azione compiuta, bensì anche di vicende paurose e pietose e queste soprattutto si verificano allorché avvengono l'una per causa dell'altra inaspettatamente: giacché in questo si otterrà meglio il meraviglioso piuttosto che da uno svolgersi
dei fatti da sé o casualmente, dato che anche fra i fatti che si verificano per caso appaiono più meravigliosi quelli che sembra si verifichino secondo un disegno, come quando, ad esempio, la statua di Miti
in Argo uccise il responsabile della morte di Miti, rovinandogli addosso proprio mentre la stava guardando; infatti casi di tale genere non sembrano prodursi casualmente; tant'è che è inevitabile che i racconti di questo genere siano più belli.

X.
Fra i racconti, ve ne sono alcuni semplici, altri complessi: del resto anche le azioni di cui i racconti sono imitazioni sono tali. Per semplice intendo un'azione durante il cui svolgimento, come appunto si è definito, continuo ed unitario, il mutamento si realizza senza rovesciamento o riconoscimento; (per azione)
complessa quella dalla quale si produce il mutamento con il riconoscimento o con il rovesciamento o
con entrambi. E questi devono prodursi dalla stessa composizione del racconto, in modo da conseguire necessariamente o secondo verosimiglianza dai fatti precedentemente avvenuti: del resto è molto diverso se una cosa si produce a causa di un'altra o dopo un'altra.

XI.
Rovesciamento è, come si è detto, il mutamento delle cose fatte verso il loro contrario e questo, come abbiamo affermato, secondo verosimiglianza o necessità, come nell'Edipo venuto il messo per rallegrare Edipo e per liberarlo dalla paura della madre, avendo manifestato chi egli fosse, sortì l'effetto
opposto; e nel Linceo uno viene condotto per essere ucciso, l'altro, Danao, lo accompagna per ucciderlo; accade invece nello svolgimento dei fatti che questi muoia e l'altro si salvi.
E il riconoscimento, come anche il nome chiarisce, è il mutamento dall'ignoranza alla conoscenza o
all'amicizia o all'odio di coloro che sono stati destinati alla buona sorte o alla sventura; il migliore riconoscimento si ha allorché avviene contemporaneamente al rovesciamento, come si attua nell'Edipo. Ma
vi sono anche altri riconoscimenti: ed infatti il riconoscimento è possibile in relazione a cose inanimate
e comuni e se uno ha commesso qualcosa oppure no. Ma quello più proprio del racconto e dell'azione
è quello testé citato: giacché il riconoscimento e il rovesciamento di questo genere produrranno pietà o
paura (delle quali azioni si è stabilito che la tragedia è imitazione), dal momento che deriveranno da
questi la triste o la buona sorte finale. Inoltre dal momento che il riconoscimento è riconoscimento di alcune persone, alcuni riconoscimenti sono soltanto di una persona da parte di un'altra, allorché è evidente chi sia l'altra; talvolta, invece, si devono riconoscere entrambi, come, ad esempio [nella Ifigenia
in Tauride di Euripide], Ifigenia venne riconosciuta da Oreste per l'invio della lettera, mentre per lui vi era
bisogno di un altro modo di riconoscimento da parte di Ifigenia.

Pertanto due sono queste parti del racconto, il rovesciamento ed il riconoscimento; la terza è il páthos. Del rovesciamento e del riconoscimento si è detto; invece il páthos è un'azione che arreca danno

o dolore come, ad esempio, le morti esibite in pubblico e le gravi sofferenze e i ferimenti ed altre cose
analoghe.
XII.
Delle parti della tragedia delle quali ci si debba servire come di elementi essenziali, si è detto in precedenza, ma quanto al numero ed alle parti in cui si divide distintamente, sono le seguenti: prologo; episodio; esodo; canto del coro; questo si distingue in parodo e stasimo. Queste sono parti comuni a tutte le tragedie, mentre peculiari sono i canti dalla scena e i kómmoi. Prologo è l'intera parte di tragedia
che precede l'entrata del coro; episodio è l'intera parte di tragedia che è posta tra interi canti del coro;
esodo è l'intera parte di tragedia dopo la quale non vi è canto del coro; del canto del coro, parodo è
l'intero primo discorso del coro; stasimo, invece, il canto del coro privo di anapesti e di trochei; kómmos
è un lamento comune del coro e della scena.

Delle parti della tragedia di cui ci si debba servire come di elementi abbiamo già detto; quanto al numero ed alle parti in cui si divide distintamente sono queste.

XIII.
A che cosa debbano mirare e da che cosa debbano guardarsi coloro che compongono i racconti e
donde si origini l'effetto della tragedia, sarebbe da trattare di seguito alle cose dette fino ad ora. Pertanto dal momento che è necessario che la composizione della migliore tragedia sia non semplice, bensì
complessa e che questa sia imitativa di vicende paurose e pietose (infatti ciò è peculiare dell'imitazione di questo genere), in primo luogo è evidente che non si devono mostrare gli uomini degni di stima
che volgono dalla buona alla cattiva sorte, giacché questo non è né pauroso né pietoso, bensì ripugnante; né i malvagi dalla cattiva alla buona sorte, infatti questa è la cosa più estranea alla tragedia di tutte,
dato che non possiede alcunché di cui vi sia bisogno, non suscita sentimenti umanitari e non è né pietosa né paurosa; né del resto [si deve mostrare] colui che è particolarmente malvagio cadere dalla buona alla cattiva sorte: infatti una composizione di questo tipo susciterebbe sentimenti umanitari, ma non
pietà né paura, dato che si prova la pietà nei confronti di colui che versa indegnamente nella cattiva sorte, mentre si prova paura nei confronti di chi è simile; pietà per l'innocente, paura, invece, per chi è simile; cosicché casi come quelli non saranno né pietosi né paurosi.

Pertanto rimane la situazione intermedia. È tale l'uomo che, non distinguendosi né in virtù né in giustizia, non cade in disgrazia per la sua malvagità né per il suo vizio, bensì per un errore, tra coloro che si
trovano in condizione di grande fama e di fortuna, come, ad esempio, Edipo e Tieste e gli uomini illustri
discendenti da siffatte stirpi.

Pertanto è necessario che il racconto ben strutturato sia semplice piuttosto che doppio, come alcuni
sostengono e che il mutamento sia non dalla cattiva alla buona sorte, ma al contrario dalla buona alla
cattiva sorte; non per una malvagità, bensì per un grave errore di una persona che sia quale si è detta o tutt'al più migliore piuttosto che peggiore.

Ne è testimonianza anche ciò che accade effettivamente: inizialmente infatti i poeti riportavano i racconti del tutto casuali; ora invece le migliori tragedie sono composte intorno a poche famiglie, come, ad
esempio, intorno ad Alcmeone e ad Edipo e a Oreste e a Meleagro e a Tieste e a Telefo e a quanti altri
sia accaduto di subire o di compiere cose terribili.

Pertanto la migliore tragedia secondo l'arte deriva da questa struttura.

Perciò commettono lo stesso errore coloro che criticano Euripide per il fatto che questi fa ciò nelle sue
tragedie e la maggior parte di esse si conclude con la sventura. Infatti questo è corretto, come si è detto; e ve ne è un importantissimo segno: sulle scene e durante le rappresentazioni risultano più tragiche
quelle di questo tipo, qualora siano ben dirette, e Euripide, se anche non lavora bene quanto al resto, tuttavia risulta il più tragico, se si può fare questa affermazione, fra i poeti.

Seconda viene quella composizione che alcuni affermano sia la prima, quella che possiede una duplice composizione, come l'Odissea e che termina in modo opposto per i buoni e per i cattivi. Del resto
sembra essere prima a causa della debolezza del pubblico: infatti i poeti seguono gli spettatori componendo secondo il loro desiderio. Ma questo non è il piacere che deriva dalla tragedia, bensì piuttosto
quello proprio della commedia: infatti là coloro che nel racconto sono acerrimi nemici, come, ad esempio, Oreste ed Egisto, alla fine se ne vanno dopo essere diventati amici e nessuno muore per mano di
nessuno.

XIV.
Pertanto è possibile che ciò che suscita paura e compassione si produca dalla messa in scena, ma
è anche possibile che si produca dalla stessa composizione dei fatti, cosa che è preferibile e caratteristica di un poeta migliore.

Infatti anche senza l'apporto dello spettacolo il racconto deve essere composto in modo tale che colui
che ascolta lo svolgersi dei fatti rabbrividisca per la paura e provi pietà in conseguenza degli avvenimenti; sensazioni che uno potrebbe provare ascoltando il racconto di Edipo. Invece il procurare questo effetto per mezzo della messa in scena è sintomo di una certa imperizia ed è legato ai mezzi esterni.

Coloro poi che procurano per mezzo dello spettacolo non il pauroso, bensì soltanto il mostruoso non
spartiscono alcunché con la tragedia; infatti dalla tragedia non bisogna cercare un piacere qualsiasi,
ma quello che le è proprio. E dal momento che il poeta deve procurare quel piacere che deriva, per
mezzo dell'imitazione, da pietà e paura, è evidente che deve realizzare ciò nei fatti.

Pertanto consideriamo quali vicende risultino terribili e quali degne di compassione. È necessario che
tali azioni siano di uomini tra di loro o amici o nemici o nessuno dei due. Pertanto nel caso di due nemici non vi è nulla di pietoso né nel fare né nel progettare, fatta eccezione per l'evento in se stesso; e neppure se i due non hanno alcun rapporto; ma qualora i fatti si verifichino tra i famigliari, come, ad esempio, il caso di un fratello che uccida o progetti di uccidere o compia qualche altra azione analoga contro il fratello o il caso di un figlio con il padre o di una madre con il figlio o di un figlio con la madre, queste cose vanno ricercate. Pertanto non è possibile mutare i racconti tramandati, intendo ad esempio la
vicenda di Clitennestra che muore per mano di Oreste o Erifile per mano di Alcmeone, ma il poeta deve trovare il modo anche di fare buon uso di ciò che è stato tramandato.

Che cosa intenda per buon uso, lo dirò più chiaramente. È possibile che l'azione si svolga così come
gli antichi rappresentavano i personaggi, cioè coscienti e consapevoli, come anche Euripide ha rappresentato Medea che uccide i suoi figli; è possibile, invece, che il personaggio agisca, ma ignori di compiere ciò che è tremendo, poi, in seguito, venga a conoscenza del rapporto di parentela, come l'Edipo di
Sofocle; questo fuori dall'azione drammatica, mentre [accade] nella stessa tragedia all'Alcmeone di Astidamante o al Telegono ne Il ferimento di Odisseo. Ancora, come terzo caso oltre a questi, il progettare di
compiere qualcosa di irreparabile per ignoranza e il giungere alla consapevolezza prima di agire.

E oltre a questi casi non è possibile altro. Infatti si agisce necessariamente oppure no, essendo consapevoli o non essendolo. E di questi progettare essendo a conoscenza e non agire è il peggiore: infatti ha in sé ciò che è ripugnante, ma non ciò che è tragico: giacché è privo di páthos. Pertanto nessuno
si comporta in modo analogo, se non raramente, come nell'Antigone Emone con Creonte.

Secondo viene l'agire. Ed è meglio l'agire non essendo consapevoli e il giungere alla consapevolezza dopo aver agito: infatti non vi si aggiunge ciò che è ripugnante ed il raggiungimento della consapevolezza è sorprendente.

Ma migliore è l'ultimo, intendo come nel Cresfonte Merope sta per uccidere il figlio, non lo uccide, ma
lo riconosce e nell'Ifigenia la sorella [riconosce] il fratello e nell'Elle il figlio, che è in procinto di cedere
la madre, la riconosce.

Per questo motivo, cosa che si è detta prima, le tragedie sono composte intorno a non molte stirpi.
Perché, cercando [soggetti tragici] non per arte, bensì per caso trovarono tale tipo di situazioni nei miti; pertanto furono costretti a volgersi a queste famiglie, cui tali eventi drammatici erano accaduti.

Pertanto sulla composizione dei fatti e quali debbano essere i racconti, si è detto sufficientemente.

XV.
Per quanto riguarda i caratteri sono quattro i fattori a cui bisogna mirare

Il primo è che siano di valore. Si avrà carattere qualora, come si è detto, la parola o l'azione rendano
manifesto un proponimento qualunque esso sia, e di valore qualora il proponimento sia di valore. E questo è possibile in ciascun genere di persona: infatti anche una donna è di valore e lo è anche uno schiavo, benché, invero, l'uno sia un genere inferiore, mentre l'altro del tutto insignificante.

In secondo luogo occorre che siano appropriati: infatti è possibile essere coraggiosi quanto al carattere, ma non si addice ad una donna essere così coraggiosa o temibile.

In terzo luogo devono essere simili [conformi alla tradizione]. Questo infatti è diverso dal creare un carattere nobile ed appropriato come si è detto in precedenza.

Il quarto elemento è la coerenza. Giacché qualora sia incoerente colui che offre lo spunto per l'imitazione e sia supposto un siffatto carattere, tuttavia deve essere coerentemente incoerente. È possibile
fornire un modello di malvagità di carattere non necessaria (Menelao nell'Oreste), di carattere sconveniente e non appropriato (il lamento di Odisseo nella Scilla ed il discorso di Melanippe), di carattere incoerente (Ifigenia in Aulide): infatti la ragazza che prega non somiglia affatto a quella successiva. Invero nei caratteri, così come nella composizione dei fatti, bisogna sempre cercare o il necessario o il verosimile, cosicché sia necessario o verosimile che un uomo di un certo tipo dica o faccia cose di un certo tipo e sia necessario o verosimile che un fatto succeda in seguito ad un altro.

Pertanto è evidente che anche lo scioglimento dei racconti debba prodursi dallo stesso racconto e
non, come nella Medea, dalla macchina scenica e, nella Iliade, per quanto concerne la partenza [dei
Greci da Troia]. Ma bisogna servirsi della macchina scenica per ciò che si verifica fuori dall'azione drammatica, per quanto avviene prima e che non è possibile che un uomo conosca ovvero per quanto avviene dopo e che necessita di un preavviso e di un annuncio: giacché attribuiamo agli dei la facoltà di
vedere tutto.

Non ci deve essere alcunché di illogico nei fatti, altrimenti si va fuori dalla tragedia, come, ad esempio, nell'Edipo di Sofocle.

E dal momento che la tragedia è imitazione di persone migliori di noi, bisogna imitare i buoni ritrattisti: infatti quelli, nonostante ritraggano le particolari fattezze di una persona, pur riproducendole somiglianti, le dipingono più belle. Così anche il poeta che imita coloro che sono facili all'ira o coloro che sono indifferenti o altri con caratteri di questo genere, pur mantenendo tali caratteristiche peculiari, deve
rappresentarle con tratti di nobiltà, come Omero ritrae Achille valoroso e modello di durezza.

Questo, invero, si deve osservare ed oltre a ciò quel che concerne la ricezione [nel pubblico] che, necessariamente, si accompagna all'arte poetica: perché spesso è possibile che anche a questo proposito si incorra in errore; ma di ciò si è detto a sufficienza negli scritti da me già pubblicati.

XVI.
Che cosa sia il riconoscimento, si è già detto in precedenza; ora le forme del riconoscimento.

La prima è la più estranea all'arte ed è quella della quale ci si serve di più per mancanza di mezzi,
ossia quella per mezzo dei segni. Di questi alcuni sono connaturati, come, ad esempio, "la lancia che
portano i nati dalla Terra" ovvero le stelle come nel Tieste Carcino; altri sono acquisiti e di questi alcuni
nel corpo, come le ferite, altri esternamente, come le collane e come nella Tiro tramite la barca. Ed è
possibile servirsi anche di questi segni meglio o peggio, come, ad esempio, Odisseo viene riconosciuto per la sua ferita in un modo dalla nutrice e in un altro dai guardiani dei porci; infatti quei riconoscimenti il cui fine è la persuasione sono più estranei all'arte e così tutti quelli di questo genere, mentre
quelli che si producono dal rovesciamento, come quello nel bagno, sono migliori. In secondo luogo vengono quelli fatti dal poeta, pertanto estranei all'arte, come, ad esempio, Oreste nell'Ifigenia rivela di essere Oreste; lei, infatti, [viene riconosciuta] grazie alla lettera, mentre Oreste dice da sé ciò che vuole il
poeta, ma non il racconto [cioè la logica di svolgimento del racconto]. Pertanto si è vicini all'errore indicato in precedenza: [Oreste] infatti, avrebbe anche potuto portare qualche segno [per farsi riconoscere]. E nel Tereo di Sofocle "la voce della spola".

Il terzo riconoscimento si produce tramite la memoria, per il fatto di rendersi conto, vedendo qualcosa, come nei Ciprii di Diceogene: avendo, infatti, visto il disegno scoppia in lacrime e ne Il racconto di
Alcinoo, ascoltando il citaredo e ricordandosi, prorompe in pianto ed in questo modo vengono riconosciuti.

Il quarto tipo di riconoscimento si produce per deduzione, come nelle Coefore: è sopraggiunto qualcuno di somigliante e non vi è nessuno di somigliante se non Oreste, pertanto è costui ad essere sopraggiunto. Ed anche quello del sofista Poliído a proposito di Ifigenia: infatti affermò che era verosimile
che Oreste deducesse che la sorella era stata sacrificata e che anche a lui sarebbe accaduto di essere sacrificato. E nel Tideo di Teodette: sopraggiunto per trovare il figlio, egli stesso muore. E quello nelle Finídi: giacché avendo visto il luogo dedussero il destino, ossia che in quel luogo era stata fissata dal
destino per loro la morte e infatti lì furono esposte. Ve ne è, poi, anche uno combinato sul falso ragionamento del pubblico, come, ad esempio, nell'Odisseo falso messaggero: infatti che lui e nessun altro riuscisse a tendere l'arco, ciò è stato inventato e supposto dal poeta, anche se egli dice che riconoscerà
l'arco che non aveva visto. Ma è una falsa deduzione fare che si pervenga al riconoscimento grazie a
questo come se fosse grazie a quello.

Ma il migliore fra tutti i riconoscimenti è quello che scaturisce dai fatti stessi, producendosi la sorpresa tramite somiglianze, come, ad esempio, nell'Edipo di Sofocle e nell'Ifigenia: infatti è verosimile voler
inviare delle lettere. Giacché questi tipi di riconoscimento sono i soli senza artificio di segni e collane.
Secondi vengono quelli che scaturiscono da deduzione.

XVII.
Invero bisogna comporre i racconti e portarli a compimento con il linguaggio avendoli il più possibile
davanti agli occhi: così, infatti, vedendo in maniera estremamente evidente, come se si fosse in mezzo
agli stessi fatti, si può trovare ciò che è conveniente e non passeranno affatto inosservate le incongruenze. E segno di questo è ciò che veniva rimproverato a Carcino. Infatti Anfiarao faceva ritorno dal tempio, fatto del quale, non vedendolo, [lo spettatore] si dimenticò, e, durante la rappresentazione, fu cacciato poiché gli spettatori non tollerarono questa dimenticanza.

Per quanto è possibile, bisogna portarli a compimento anche con i gesti: giacché sono maggiormente credibili i poeti che si trovano nella stessa disposizione d'animo [dei loro personaggi] e fanno agire
in modo più conforme a verità colui che è sconvolto e muovono all'ira colui che è adirato. Pertanto l'arte poetica è propria di una persona dotata oppure di una esaltata: infatti fra questi i primi sono versatili, mentre gli altri si lasciano portare fuori di sé.

Inoltre bisogna che colui che crea le storie, anche quelle inventate, le esponga per linee generali, in
seguito le suddivida in episodi e le sviluppi. Sostengo che si possano considerare in questo modo le linee generali, ad esempio dell'Ifigenia: una fanciulla sacrificata e scomparsa inspiegabilmente dalla vista di coloro che l'avevano offerta in sacrificio, trasportata in un'altra regione in cui vi era la consuetudine di sacrificare gli stranieri alla dea, ricevette questo ufficio sacerdotale; tempo dopo al fratello della
sacerdotessa capitò di sopraggiungere in quel luogo, ma il fatto che fosse il dio ad ordinare di recarsi
là e per quale ragione è estraneo al racconto; arrivato e catturato, in procinto di essere sacrificato, giunse al riconoscimento, sia come lo fece Euripide sia come lo fece Poliido, dicendo, secondo verosimiglianza, che non soltanto la sorella, ma anche lui avrebbe dovuto essere sacrificato: e da questo fatto
la salvezza.

Quindi, dopo aver già dato i nomi ai personaggi, bisogna suddividere in episodi cosicché gli episodi
siano appropriati, come, ad esempio, nell'Oreste la follia a causa della quale è stato catturato e la salvezza grazie alla purificazione.

Pertanto nelle azioni drammatiche gli episodi sono concisi, mentre l'epica si prolunga attraverso questi. Infatti dell'Odissea la vicenda non è lunga: un uomo che rimane lontano dalla patria per molti anni e
deve stare in guardia da Poseidone ed è solo; inoltre, a casa sua gli averi sono saccheggiati dai pretendenti e suo figlio è insidiato; giunge egli stesso di ritorno da una tempesta e, essendosi messo a riconoscere alcuni, lui si salvò e fece perire i suoi nemici.

Pertanto questo è ciò che è proprio ed essenziale, mentre gli altri sono episodi.

XVIII.
Di ogni tragedia una cosa è l'intreccio, un'altra lo scioglimento: i fattori esterni ed alcuni di quelli interni spesso costituiscono l'intreccio, mentre il resto lo scioglimento; affermo che intreccio è la parte dall'inizio fino all'ultima parte dopo la quale si produce il mutamento verso la buona o verso la cattiva sorte; scioglimento, invece, quella parte dall'inizio del mutamento sino alla fine; come nel Linceo di Teodette l'intreccio è dato dai fatti accaduti in precedenza e dalla cattura del bambino, mentre lo scioglimento è la parte che va dalla condanna a morte fino alla fine.

Della tragedia quattro sono i tipi (altrettante, infatti, si è detto sono anche le parti): quella di intreccio,
che è tutta compresa in rovesciamento ed in riconoscimento; quella patetica, come, ad esempio, gli Aia-
ci e gli Issioni; quella che riguarda i caratteri, come le Ftiotidi e il Peleo; la quarta …. come le Forcidi e
il Prometeo e quante sono ambientate nell'Ade. Pertanto bisogna cercare di possedere tutti questi elementi o, almeno, i più importanti e i più numerosi, soprattutto se, come ora, si criticano i poeti: infatti poiché vi sono stati buoni poeti per ogni singola parte, ritengono che una sola persona debba superare
ciascuno di quelli nella sua peculiare bravura.

Per nessun altro fattore è giusto dire che una tragedia è uguale o simile ad un'altra come per il racconto: questo per quelle che hanno medesimo intreccio e scioglimento. Ma molti, che pure hanno costruito un buon intreccio, poi lo sciolgono male: bisogna, invece, strutturare bene entrambi.

È poi necessario ricordare spesso ciò che si è detto e non fare della tragedia un poema epico - intendo per epico quello dai molteplici miti - come se uno rappresentasse l'intero racconto dell'Iliade. Infatti
in quel caso, grazie all'estensione, le parti assumono la grandezza appropriata, mentre nelle azioni
drammatiche ci si allontana molto dalle aspettative. Prova ne è che quanti hanno rappresentato l'intera
distruzione di Ilio e non in parte - come fece Euripide - ovvero Niobe [cioè l'intero mito di Niobe] e non,
come Eschilo [una sua parte], o cadono o gareggiano male, dato che anche Agatone cadde soltanto in
questo.

Nei rovesciamenti e nelle azioni semplici mirano a ciò che desiderano di sorpresa: infatti questo è tragico ed è utile. Avviene ciò allorché un uomo astuto ma malvagio venga ingannato, come Sisifo, e l'audace, ma ingiusto, venga sconfitto. Questo è anche verosimile come afferma Agatone, giacché è verosimile che si verifichino molti fatti anche inverosimili.

Bisogna considerare il coro uno degli attori del dramma, renderlo una parte del tutto e far sì che prenda parte all'azione, non come in Euripide, ma come in Sofocle. Del resto negli altri poeti le parti cantate hanno a che fare con il racconto non più che con quello di un'altra tragedia; pertanto usano cantare
intermezzi, avendo cominciato per primo a fare così Agatone. Orbene, quale differenza intercorre tra il
cantare interludi corali e adattare una battuta o un intero episodio da un'opera ad un'altra?

XIX.
Delle altre forme si è detto. Resta, invece, da dire del linguaggio e del pensiero.

Per quel che concerne il pensiero, rimanga stabilito ciò che è scritto nei trattati di retorica: giacché
questo argomento attiene di più a quella disciplina. Riguarda il pensiero tutto quello che deve essere
presentato dalla parola. E sue parti sono il dimostrare, lo sciogliere e il procurare emozioni (come, ad
esempio, pietà o paura o ira ed altre del genere) e inoltre grandezza e mediocrità. Ed è evidente che
anche nelle azioni recitate bisogna regolarsi sulla base dei medesimi princìpi [del discorso] allorché si
debbano improntare fatti o pietosi o tremendi o grandiosi o verisimili; in questo solo si riscontrano delle
differenze, ossia che questi, in un caso, debbono essere mostrati senza che vengano fornite interpretazioni, mentre, nell'altro, debbono essere prodotti con la parola da colui che parla e debbono trovarsi
fianco a fianco con la parola. Quale funzione, infatti, avrebbe chi parla se ciò di cui si ha bisogno si manifestasse anche senza il tramite della parola?

Per quanto riguarda poi il linguaggio un aspetto della speculazione teorica sono le forme del linguaggio, la cui conoscenza riguarda l'arte declamatoria e colui che possiede una tale arte, come, ad esempio, che cosa sia un ordine, che cosa una preghiera e una esposizione ed una minaccia e una domanda ed una risposta e cose di questo genere. Infatti per la conoscenza o per l'ignoranza di queste cose
nessun biasimo viene rivolto all'arte di un poeta che sia meritevole di attenzione. Del resto per quale motivo uno dovrebbe supporre che siano errate le critiche che Protagora muove [all'Iliade], ossia che
[Omero], mentre pensa di pregare, impartisce un ordine, dicendo: "L'ira cantami o dea"? Giacché ordinare di fare qualcosa o di non farla, afferma [Protagora], vuol dire comandare [non pregare].

Pertanto si lasci perdere questa ricerca, poiché riguarda un'altra arte e non quella poetica.

XX.
Del linguaggio queste sono le parti: lettera; sillaba; congiunzione; nome; verbo; articolazione; caso;
discorso.

Dunque lettera è un suono indivisibile, non uno qualsiasi, ma quello dal quale si genera naturalmente un suono composto; e infatti sono propri degli animali suoni indivisibili dei quali non chiamo nessuno
lettera. Le sue forme sono la vocale e la semivocale e la muta. Vocale è quella che possiede un suono
udibile senza appoggio (della lingua); semivocale, invece, quella che possiede un suono udibile con
appoggio, come, ad esempio, sigma e ro; muta quella che di per sé con appoggio non possiede alcun
suono, ma, insieme alle lettere che hanno un qualche suono, diventa udibile, come, ad esempio, gamma e delta. Queste differiscono quanto a forma della bocca e a luoghi e ad aspirazione e a dolcezza e
a lunghezza e a brevità e, ancora, ad acutezza e a gravità e a medietà; ma di ciascuno di questi elementi è opportuno trattare nelle opere dedicate alla metrica.

Sillaba è un suono privo di significato, composto da una muta e da una che possiede un suono: ed
infatti gr senza a è una sillaba e lo è anche con a, ossia gra. Ma anche prendere in esame le differenze di queste pertiene alla metrica.

Congiunzione è un suono privo di significato che non si adatta ad essere posto all'inizio di una proposizione a sé, ad esempio, mév [invero], è toi [oppure], dé [ma]. Oppure è un suono privo di significato che da più suoni che hanno un significato ne produce un unico dotato di significato, come, ad
esempio, amphi, peri e così via. Ovvero un suono privo di significato che né impedisce né produce un
unico suono dotato di significato da più suoni, creato per essere posto sia all'estremità sia al centro.

Nome è un suono composto, che ha un significato, senza tempo, del quale nessuna parte è di per sé
dotata di significato: infatti dei nomi doppi non ce ne serviamo come avessero un significato ciascuno
di per sé, come, ad esempio, in Teodoro -doro non ha alcun significato.

Verbo è un suono composto, dotato di un significato, con tempo, del quale nessuna parte è dotata di
per sé di significato, come nel caso dei nomi: infatti uomo o bianco non significano il quando, mentre
va o è andato indicano altresì il tempo presente o il tempo passato.

Caso è proprio di un nome o di un verbo: ad esempio quello, di questo o a questo ed altri simili, o per
il singolare o per il plurale, come, ad esempio, uomini o uomo, o secondo il modo di intonare, come nella domanda e nel comando: infatti va? oppure va'! Il caso è conforme a questi elementi del verbo.

Discorso è un suono composto, dotato di un significato, di cui alcune parti hanno un significato di per
sé (giacché non ogni discorso è dato da verbi e da nomi, come, ad esempio, la definizione di uomo, ma
può essere che vi sia un discorso privo di verbi, tuttavia avrà sempre una parte che abbia un significato), come nel Cleone va [la parola] Cleone. E un discorso è unitario in due modi: infatti o possiede un
solo significato ovvero si produce da più (significati) tramite congiunzione, come, ad esempio, l'Iliade è
unitaria per congiunzione, mentre la definizione di uomo (lo è) in quanto dotata di un unico significato.

XXI.
Forme di nome sono la semplice, e per semplice intendo quella che è composta da parti che non hanno significato, come, ad esempio terra, e duplice; di quest'ultima, poi, una consta di una parte dotata
di significato e di una che ne è priva, un'altra, invece, è formata da elementi che possiedono un significato. Un nome potrebbe essere anche triplice, quadruplice e molteplice, come, ad esempio, lo sono la
maggior parte delle parole dei Massalioti, Hermo-kalko-xanthos e simili.

Inoltre ogni nome è dotato di senso proprio oppure è glossa o metafora o è ornato o coniato [dall'autore] o allungato o troncato o modificato. Ed intendo per nome dotato di un senso proprio quello che
adopera chiunque, mentre per glossa quello di cui si servono persone di altri paesi; tant'è che è evidente che la medesima parola può essere sia un nome dotato di un senso proprio sia una glossa, ma non
per le medesime persone: infatti siginna [lancia], per gli abitanti di Cipro è un nome proprio, mentre per
noi una glossa.

Metafora è un'attribuzione di un nome estraneo o da genere a specie o da specie a genere o da specie a specie ovvero secondo analogia. E intendo da genere a specie ad esempio "la mia nave è ferma
là": infatti l'essere ancorati significa in qualche modo stare fermi. Da specie a genere: "Odisseo ha compiuto davvero mille azioni valorose": giacché mille è molto e qui lo si usa in luogo di molto. Da specie a
specie: ad esempio "avendo attinto con il bronzo l'anima" e "avendo tagliato con il bronzo acuminato";
lì, infatti, ha definito l'attingere tagliare, mentre qui il tagliare attingere; giacché entrambi indicano in un
certo modo togliere.

Per analogia intendo quando, [di quattro termini], il secondo elemento si trovi in uguale rapporto con
il primo ed il quarto con il terzo: infatti si dirà, in luogo del secondo elemento, il quarto oppure, in luogo
del quarto, il secondo. E talvolta si pone, in luogo di ciò di cui si parla, ciò che riguarda questo. Ed intendo dire che si trovano in uguale rapporto, ad esempio, la coppa con Dioniso e lo scudo con Ares;
pertanto si dirà la coppa "scudo di Dioniso" e lo scudo "coppa di Ares". Oppure ciò che rappresenta la
vecchiaia rispetto alla vita, lo è anche la sera rispetto al giorno: pertanto si dirà la sera vecchiaia del
giorno o, come afferma Empedocle, anche la vecchiaia sera della vita o tramonto della vita. In taluni casi non esiste una parola che abbia analogie con altre, ma nondimeno verrà detta ugualmente: come, ad
esempio, gettare il seme è seminare, mentre gettare la fiamma da parte del sole è un'azione priva di un
nome; ma, tuttavia, questo si trova in uguale rapporto con il sole ed il seminare con la semente, perciò
si è detto "seminando la fiamma divina".

È, inoltre, possibile servirsi di questo tipo di metafora anche altrimenti, ossia, dopo aver attribuito la
parola estranea, ricusarne una delle proprietà, come se uno chiamasse lo scudo "coppa", ma non "coppa di Ares", bensì "coppa senza vino".

Nome coniato è quel nome che non è usato da altri, ma è il poeta stesso a produrlo; del resto sembra che vi siano alcuni nomi di questo genere, ad esempio "le corna germoglianti" e "il sacerdote maledicente". Un nome allungato o troncato si ha, il primo allorché si adopera una vocale più lunga dell'ordinario o una sillaba aggiunta, il secondo qualora si sottragga qualcosa che gli appartiene; allungati, ad
esempio, sono da città cittade e Peleiádeo [Pelide] invece di Peleídou [Pelide]; mentre tronchi sono han e ca e "un unico veder di entrambi". Un nome è modificato allorché qualcosa del nome si mantiene, mentre qualcosa viene creato, come, ad esempio, "al seno destro" invece che "destro".

Degli stessi nomi alcuni sono maschili, mentre altri femminili, altri ancora neutri; maschili quanti terminano in "ni" e in "rho" e in "sigma" e quante lettere sono composte da queste (sono due "psi" e "csi"); femminili quanti terminano in vocali sempre lunghe come, ad esempio, "eta" e "omega" e fra quelle allungate in A; tant'è che i maschili e i femminili si trovano, quanto a numero, ad avere terminazioni uguali: infatti "psi" e "csi" sono composte. Nessun nome, invece, termina con vocale muta, né con vocale breve.
Con I solo tre nomi: meli, kommi, peperi. In "upsilon" cinque... In "iota", "upsilon", "alfa" e in "ni" e in "sigma" finiscono i nomi neutri.

XXII.
Un pregio del linguaggio [poetico] è di essere chiaro e non ordinario. Pertanto chiarissimo risulta quel
linguaggio che consta di parole dotate di un senso proprio, ma è ordinario; ne è un esempio la poesia
di Cleofonte e di Stenelo.

Solenne, invece, e che si allontana dalla trivialità è quello che si serve di parole straniere; ed intendo
per straniere la glossa e la metafora e l'allungamento e ogni altro elemento che si opponga al senso letterale. Ma qualora uno adoperi tutti gli elementi di questo genere, si avrà o un enigma o un barbarismo:
pertanto dalle metafore l'enigma, dalle glosse il barbarismo. Infatti il principio di un enigma è questo: nel connettere elementi che non si potrebbero collegare; dunque per quanto riguarda la composizione di
altre parole non è possibile fare ciò, mentre è possibile con le metafore, come, ad esempio, "vidi un uomo con il fuoco incollare bronzo su un uomo" e simili. Barbarismo, invece, è ciò che si produce dalle
glosse.

Pertanto bisogna in un certo modo contemperare questi elementi: giacché gli uni, come la glossa e
la metafora e l'ornamento e tutte le altre forme suddette, non produrranno né ciò che è triviale né ciò
che è ordinario, mentre i termini adottati nel loro significato proprio daranno la chiarezza. Inoltre un apporto non piccolo alla chiarezza del linguaggio e alla sua non trivialità arrecano gli allungamenti e i troncamenti e i mutamenti delle parole: infatti a causa del loro essere distanti dal senso proprio, contro l'uso abituale, produrranno ciò che non è triviale, mentre a causa del loro rapportarsi con l'uso abituale si produrrà la chiarezza. Tanto è vero che non giustamente esternano il loro scherno coloro che criticano un siffatto modo di esprimersi e deridono il poeta, come Euclide il vecchio, sostenendo che sarebbe cosa agevole comporre se uno potesse allungare fin quanto vuole, dopo aver egli composto giambi in questo medesimo linguaggio: "Vidi Epicare andare a Maratona"; "non amando il suo elleboro". Pertanto mostrare chiaramente che ci si serve di questi modi è cosa ridicola; esiste, invece, una misura comune a
tutti questi elementi; e, infatti, adoperando metafore e glosse e tutte le altre forme e (mirando) appositamente al ridicolo, uno potrebbe pervenire al medesimo risultato.

(Per constatare) quanto sia diverso un uso appropriato, si prenda in considerazione l'epica con il suo
porre le parole in versi. E se uno sostituisse alle glosse e alle metafore e alle altre figure le parole dotate di un senso proprio, vedrebbe che affermiamo il vero: ad esempio avendo Eschilo ed Euripide composto il medesimo giambo, cambiando una sola parola, una glossa in luogo di una parola usuale, l'uno
risulta bello, mentre l'altro da nulla. Infatti Eschilo nel Filottete fece:

"un'ulcera che mi mangia le carni del piede",

mentre l'altro, in luogo di "mangia", ha posto "divora".

La stessa differenza si avrebbe se invece di:

"ora invece me uno che è piccolo e da nulla e indegno"

si dicesse, dopo aver sostituito con parole dotate di senso proprio:

"ora invece me uno che è basso, fiacco e brutto";

e

"posto su di un rozzo seggio e ad un piccolo desco",

"posto su di una sedia brutta e ad una tavola bassa";

e

"le rive muggiscono",

"le rive risuonano."

Ed inoltre Arifrade derideva i tragici per il fatto che si servivano di parole che nessuno avrebbe mai
pronunciato nella conversazione, come, ad esempio, "da casa via" e non "via da casa", "teco" e "io ei" e
"ad Achille intorno" e non "intorno ad Achille" e altri esempi simili. Infatti proprio per il fatto di non essere nella normalità tutti questi elementi producono nel linguaggio ciò che non è triviale; ma egli ignorava
questo fatto. È importante adoperare in modo opportuno ciascuno degli elementi suddetti, sia i nomi
doppi sia le glosse, ma ancor più importante è essere metaforici. Infatti non è possibile desumere da un
altro questo soltanto ed è dimostrazione di ingegno versatile; giacché l'usare bene le metafore significa
vedere ciò che è simile.

Fra le parole, quelle doppie si adattano soprattutto ai ditirambi, le glosse ai versi eroici, mentre le metafore ai giambi. E nei versi eroici sono utili tutte le forme suddette, mentre nei giambi, per il fatto che
questi cercano di imitare il più possibile il linguaggio quotidiano, sono appropriate quelle parole che uno
userebbe anche nei discorsi; e tali sono le parole dotate di senso proprio e le metafore e le parole di ornamento.

Dunque sulla tragedia e sull'imitazione nell'azione ci basti quanto è stato detto.

XXIII.
Per quanto riguarda la narrazione e l'imitazione in versi, che si debbano comporre i racconti come nelle tragedie in modo drammatico ed intorno ad un'unica azione, intera e compiuta, che abbia un inizio,
una metà ed una fine, cosicché, come un unico animale intero, arrechi il piacere che le è peculiare, (tutto ciò) è evidente e, inoltre, le composizioni non debbono essere simili alle opere storiche nelle quali inevitabilmente viene fatta l'esposizione non di un'unica azione, bensì di un unico periodo, quanti fatti si
siano verificati intorno ad una o a più persone, ciascuno dei quali, nei confronti degli altri, ha un rapporto del tutto casuale. Come, infatti, nel medesimo periodo si verificarono la battaglia navale a Salamina
e la battaglia in Sicilia contro i Cartaginesi senza che queste mirassero allo stesso fine, così anche nei
tempi successivi talvolta si verifica un fatto dopo l'altro dai quali, però, non scaturisce alcun risultato unico. Ma pressoché la maggior parte dei poeti si comporta così.

Ecco perché, come già abbiamo affermato, anche per questa ragione Omero dovrebbe risultare straordinario rispetto agli altri poeti. Egli, infatti, non tentò di rappresentare interamente la guerra benché
questa avesse un inizio ed una fine; il racconto sarebbe stato eccessivamente grande e non facile ad
abbracciare con un unico sguardo oppure, pur essendo misurato nella grandezza, [sarebbe stato] intricato per la varietà. Ora, invece, avendo preso una sola parte, si è servito di numerosi episodi, come,
ad esempio, con il catalogo delle navi e con altri episodi, ha portato avanti il poema.

Invece gli altri su di una sola persona e su di un unico tempo compongono un'azione molteplice, come, ad esempio, colui che ha composto le Ciprie o la Piccola Iliade. Pertanto mentre da entrambe l'Iliade e l'Odissea si ricava una sola tragedia o solo due, dalle Ciprie e dalla Piccola Iliade molte.

XXIV.
L'epica deve avere le medesime forme della tragedia: infatti deve essere o semplice o complessa o
di costumi o di eventi traumatici; e le parti, fatta eccezione per la musica e per la vista, debbono essere le medesime: infatti vi è bisogno dei rovesciamenti e dei riconoscimenti e degli stati emotivi; inoltre i
pensieri e il linguaggio debbono essere ben strutturati. E di tutto ciò Omero ha fatto uso per primo e in
maniera esaustiva. Infatti ha composto entrambi i tipi di poema, l'Iliade semplice e di eventi traumatici,
mentre l'Odissea complessa (giacché vi sono riconoscimenti ovunque) e al tempo stesso di carattere;
e, inoltre, quanto a linguaggio e a pensiero, ha superato tutti.

L'epica, però, differisce nella lunghezza della composizione e nel metro. Dunque il limite sufficiente
della lunghezza è quello che è stato detto: infatti si deve poter abbracciare con un unico sguardo l'inizio e la fine. Questo si verificherebbe se le composizioni fossero più brevi di quelle antiche e si avvicinassero alla quantità di tragedie che vengono rappresentate in un'unica rappresentazione. Inoltre la
poesia epica, per quanto concerne l'estensione della sua grandezza, possiede un tratto caratteristico
ragguardevole per il fatto che nella tragedia non è lecito riprodurre allo stesso tempo molte parti, bensì
soltanto la parte che si svolge in scena e con gli attori; nell'epica, invece, per il fatto di essere una narrazione, è possibile rappresentare molte parti che si compiono allo stesso tempo, dalle quali, qualora
siano opportune, risulterà accresciuta la magnificenza del poema. Tant'è che possiede questa utilità in
vista della magnificenza, ossia far mutare sentimenti all'ascoltatore e strutturarsi in episodi dissimili: infatti ciò che è sempre uguale sazia in breve tempo e produce la caduta delle tragedie.

Il verso eroico si è adattato sulla base dell'esperienza. Se, infatti, uno componesse un'imitazione di
genere narrativo in un qualsiasi altro verso o in molti, risulterebbe inopportuno: giacché l'eroico è il verso più lento e più ampio (per questo motivo tollera più di tutti e le glosse e le metafore; infatti l'imitazione di tipo narrativo ne possiede in abbondanza più delle altre), mentre il giambo ed il tetrametro sono
versi che implicano un movimento, l'uno di danza, l'altro di azione. E sarebbe ancora più assurdo se uno
li mescolasse, come Cheremone. Pertanto nessuno ha composto un'ampia composizione in un altro verso se non in quello eroico, ma, come abbiamo detto, la stessa natura insegna a scegliere ciò che le è
adatto.

E Omero, degno di ricevere elogi per molti altri aspetti, lo è anche per questo, ossia per il fatto che è
l'unico dei poeti a non ignorare ciò che deve fare. Infatti il poeta deve parlare il meno possibile in prima
persona: giacché non è imitatore in questo. Pertanto gli altri per tutto il tempo rappresentano in prima
persona ed imitano poco e raramente; invece Omero, dopo aver composto un breve proemio, subito introduce un uomo o una donna o un altro personaggio e nessuno è sprovvisto di carattere, ma ne possiede uno.

Pertanto nelle tragedie si deve produrre il meraviglioso, mentre nell'epica è maggiormente ammissibile l'irrazionale, grazie al quale soprattutto si produce il meraviglioso, per il fatto che non si vede colui
che agisce; dal momento che le circostanze dell'inseguimento di Ettore rappresentate sulla scena apparirebbero ridicole, gli uni che rimangono fermi e non inseguono, l'altro che fa cenni con il capo, nei
versi epici (tutto ciò) è taciuto.

Il meraviglioso è piacevole: prova ne è il fatto che tutti raccontano facendo delle aggiunte nella convinzione di arrecare piacere.

E soprattutto Omero ha insegnato agli altri a dire il falso come si deve. Questo è il falso ragionamento. Infatti gli uomini pensano che, qualora, essendoci questo, vi sia quest'altro ovvero, prodottosi questo, si produca quest'altro, se vi è ciò che viene dopo, vi sia anche ciò che viene o si produce prima: e
questo è l'inganno. Perciò, qualora il primo sia falso, ma sia necessario, essendoci questo, che ci sia o
si produca un altro, occorre aggiungerlo. E per il fatto che si sa che questo è vero, la nostra mente erroneamente pensa al primo come se esistesse. Un esempio di ciò si ha dal Bagno.

Bisogna preferire l'impossibile verosimile piuttosto che il possibile inverosimile; e non si devono comporre i racconti di parti illogiche, bensì che non abbiano, soprattutto, alcunché di irrazionale, altrimenti,
al di fuori del racconto, come, ad esempio, Edipo non è a conoscenza di come sia morto Laio, ma non
nella vicenda drammatica; come nell'Elettra coloro che riferiscono i giochi pitici o nei Misi l'uomo senza
voce che sopraggiunge da Tegea nella Misia. Tanto è vero che il dire che il racconto ne risulterebbe distrutto è ridicolo: infatti fin dal principio non si devono comporre tali racconti. Qualora, però, lo si componga e risulti abbastanza verosimile, si deve accettarlo anche assurdo, dal momento che anche la parte nell'Odissea relativa allo sbarco è illogica e risulterebbe chiaramente inaccettabile se la avesse composta un poeta di mediocri capacità. Ora, invece, il poeta con gli altri suoi lati positivi dissimula, rendendolo piacevole, l'assurdo. Inoltre bisogna curare molto il linguaggio nelle parti inutili e in quelle senza
caratteri e senza pensiero; infatti il linguaggio eccessivamente brillante offusca i caratteri ed i pensieri.

XXV.
Per quanto riguarda i problemi e le soluzioni, di quante e di quali tipologie siano, dovrebbero così apparire a coloro che li esaminano. Infatti dal momento che il poeta è un imitatore al pari di un pittore o di
un altro creatore di immagini, inevitabilmente imita sempre in una delle tre modalità che sussistono
quanto a numero: o come le cose erano oppure sono, o come dicono e sembra (siano), ovvero come
devono essere.

E ciò viene riferito con il linguaggio, in cui vi sono glosse e metafore e molte mutazioni della lingua:
giacché noi facciamo queste concessioni ai poeti. Oltre a ciò non sono le stesse la correttezza propria
della politica e quella della poetica né quella di qualche altra arte e quella della poetica.

E duplice è l'errore della poetica in sé considerata: infatti vi sono l'errore in sé e quello che si verifica
accidentalmente. Giacché se si è scelto di imitare [correttamente e si sbaglia nell'esecuzione a causa
dell'] incapacità, l'errore riguarda la poetica in quanto tale; se, invece, si è avuta un'idea errata dell'oggetto rappresentato e, ad esempio, (si è riprodotto) un cavallo che protende entrambe le destre, allora
l'errore afferisce ad un'arte particolare, come alla medicina o ad un'altra arte e non è un errore essenziale [per la poetica].

Tanto è vero che guardando a questo si devono confutare le critiche contenute nei diversi problemi.

In primo luogo per quanto riguarda l'arte in sé. Se si sono create cose impossibili, si è sbagliato; tuttavia sta bene lo stesso, se si raggiunge il fine proprio dell'arte (giacché il fine è stato definito), se in
questo modo si rende o questa stessa parte oppure un'altra maggiormente sorprendente. Ne è un
esempio l'inseguimento di Ettore. Se, tuttavia, si poteva raggiungere il fine meglio e non peggio anche
rifacendosi all'arte che pertiene a questi fatti, non sta bene: giacché non bisogna, in generale, se è cosa possibile, commettere alcun errore.

Inoltre a quale dei due tipi appartiene l'errore, a quelli che riguardano l'arte oppure a quelli che riguardano altri fatti? Giacché è meno importante se uno non sa che una cerva femmina non possiede delle
corna piuttosto che se l'ha disegnata senza imitarla. Oltre a ciò, qualora si critichi che non è vero, si può
ribattere che forse [è rappresentato] come dovrebbe essere, come, ad esempio, anche Sofocle affermò
di ritrarre gli uomini quali dovrebbero essere, mentre Euripide li rappresentava quali sono; e così risolvere il problema.

Se nessuno dei due modi, (si può rispondere) che è conforme all'opinione comune, come, ad esempio, [i racconti] su ciò che riguarda gli dei: giacché forse parlarne in questo modo non è né meglio né
vero e forse le cose stanno come riteneva Senofane; tuttavia quella è l'opinione comune.

Altre cose forse (vengono rappresentate) non sotto una luce migliore, ma così come erano, come, ad
esempio, ciò che riguarda le armi: "Portavano lance dritte sul puntale inferiore dell'asta"; così infatti allora usavano, come, anche ora, gli Illiri.

Per quanto riguarda poi se uno ha detto o ha fatto bene o non bene, non soltanto bisogna guardare
a ciò che è stato fatto o è stato detto in sé, considerando se è serio o di scarso valore, ma anche (bisogna guardare) a colui che agisce o parla, a quale persona si rivolge, quando o per quale ragione o con
quale scopo, come, ad esempio, perché si realizzi un bene maggiore o perché si allontani un male maggiore.

Prendendo in considerazione il linguaggio, bisogna confutare altre critiche, come, ad esempio, con
una glossa "i muli in primo luogo"; giacché forse non parla dei muli, bensì dei guardiani; e Dolone "che
nell'aspetto era brutto", non dal corpo sproporzionato, ma dal viso sconcio; infatti i Cretesi definiscono
di bell'aspetto chi ha un bel viso; e "mesci con poca acqua", non puro come gli ubriachi, bensì più velocemente.

Per quanto riguarda la metafora si intende altro, come "tutti, sia dei sia uomini, dormirono per tutta la
notte"; e contemporaneamente (il poeta) afferma: "e allorché guardò la piana troiana, uno strepito di flauti e di trombe"; infatti "tutti" viene detto in luogo di "molti" con una metafora giacché "tutto" è un genere di
"molto".

E "unica esente" con metafora: infatti ciò che è più conosciuto è unico.

In base all'accentuazione, come Ippia di Taso risolse, "concediamogli di ottenere la gloria" e "una parte del quale è imputridita dalla pioggia".

Altre tramite la divisione, come Empedocle "subito nacquero mortali le cose che precedentemente
avevano appreso essere immortali e intatte prima che si fossero mescolate".

Altre tramite l'ambiguità; "se ne è andato il più della notte": infatti "il più" è ambiguo.

Altre secondo la consuetudine del linguaggio. Dicono che quello che viene mescolato sia vino donde è scritto "schiniere di stagno lavorato di recente" e bronzisti coloro che lavorano il ferro, donde si dice che Ganimede mesca il vino a Zeus, benché essi non bevano vino. Questo sarebbe, invero, con una
metafora.

Qualora una parola sembri manifestare una certa contradditorietà, bisogna anche considerare quanti significati essa possa esprimere in ciò che è stato detto, come, ad esempio, "qui si fermò la lancia di
bronzo" in quanti sensi è possibile essere trattenuti qui, così o così, come, per lo più, uno potrebbe intendere; e contrariamente a quanto afferma Glaucone, ossia che alcuni irragionevolmente si formano
delle opinioni a priori e questi stessi, dopo averle criticate, ricavano delle deduzioni e biasimano, come
se fosse stato detto, ciò che sembra loro, qualora sia contrario al loro pensiero. E' successo questo a
proposito di Icario. Infatti pensano che egli fosse Iacone; pertanto sarebbe illogico che Telemaco, recatosi a Sparta, non lo incontrasse. Ma forse la cosa sta così come sostengono i Cefalleni: infatti affermano che Odisseo si sposò presso di loro ed era Icadio, ma non Icario. Un errore di nome da cui è sorto
il problema.

Comunque, in generale, ciò che è impossibile deve essere ricondotto o alla poesia o al meglio o all'opinione comune.

Infatti nell'ambito della poesia un impossibile credibile è preferibile ad un incredibile benché possibile. ... che vi siano esseri, come quelli, ad esempio, che raffigurò Zeusi, ma essi sono qualcosa di meglio: infatti il modello deve risultare superiore [alla realtà].

Ciò che chiamano irrazionale può essere giustificato, anche mostrando che, a volte, non è irrazionale: giacché è verosimile che si verifichi un fatto anche contro la verosimiglianza.

Ciò che viene detto in modo contraddittorio deve essere preso come le confutazioni nelle opere se la
medesima cosa e in rapporto alla stessa e in modo tale che costituisca anche una contraddizione o rispetto a ciò che egli stesso afferma o rispetto a ciò che un uomo assennato può supporre.

Giusta, invece, è la critica sia all'illogicità sia alla malvagità, qualora, senza che ve ne sia alcuna necessità, ci si serve dell'illogicità, come Euripide di Egeo, ovvero della malvagità, come nell'Oreste di
quella di Menelao.

Pertanto si rivolgono cinque tipi di critiche: infatti (si dice) che ciò che viene rappresentato dal poeta
è impossibile o irrazionale o dannoso o contraddittorio ovvero è contro la correttezza che appartiene all'arte. Invece le confutazioni devono essere prese in considerazione sulla base dei numeri sopracitati e
sono dodici.

XXVI.
Uno potrebbe essere incerto se sia migliore l'imitazione dell'epica o quella della tragedia. Se, infatti,
è migliore quella meno grossolana e tale è sempre quella che è rivolta a spettatori migliori, è del tutto
manifesto che quella che imita ogni cosa è grossolana: gli attori, infatti, si muovono con molti movimenti, come se [il pubblico] non potesse capire che in questo modo, come i suonatori di flauto di scarso valore si rotolano, qualora si debba imitare un [lancio del] disco, o trascinano il corifeo, allorché suonano
Scilla.

Dunque la tragedia è tale, come anche gli antichi pensavano degli attori che li avrebbero seguiti; giacché Minnisco chiamava scimmia Callippide il quale eccedeva ogni misura ed una tale fama riguardava
anche Pindaro; e come questi stanno a quelli, l'intera arte sta all'epica.

Pertanto si dice che l'una sia indirizzata a spettatori di ottimo livello che non necessitano di tali atteggiamenti, mentre la poesia tragica a quelli di scarso valore; dunque, se è grossolana, è evidente che
dovrebbe risultare inferiore.

In primo luogo l'accusa non è rivolta alla poetica, bensì all'arte dell'attore, dal momento che è possibile esagerare con i gesti anche essendo un rapsodo, ciò che faceva Sosistrato, e cantando, ciò che
faceva Mnasiteo di Opunte.

In secondo luogo non bisogna criticare ogni movimento (se non si vuole criticare addirittura la danza), ma solo quello (prodotto) da persone mediocri, cosa che veniva criticata appunto a Callippide ed
ora ad altri, di non imitare donne nobili.

Inoltre la tragedia, anche senza movimento, realizza ciò che le è proprio, come l'epica; giacché, tramite la lettura, risulta chiaro quale essa sia; se, dunque, è superiore nel resto, non necessariamente proprio questo le pertiene nella sua essenza.

In secondo luogo per il fatto che possiede tutto ciò che possiede l'epica (e, infatti, è possibile che si
adoperi il metro) e, inoltre, in non piccola parte la musica, tramite la quale i piaceri divengono ben evidenti.

Ed ancora possiede l'evidenza sia nella lettura sia nella esecuzione.

Inoltre, per il fatto che in minore ampiezza vi è il fine dell'imitazione (giacché ciò che è più condensato è maggiormente gradevole di ciò che è diluito in un lungo tempo, come se, ad esempio, uno ponesse l'Edipo di Sofocle in versi epici quanti sono quelli dell'Iliade).

Ancora, l'imitazione che compie l'epica è meno unitaria (e ve ne è una prova, giacché da qualsiasi ti

16 POETICA


po di imitazione si producono più tragedie), al punto che, qualora compongano un unico racconto, o risulta tronco, qualora sia esposto brevemente, oppure, qualora sia conforme alla lunghezza del verso,
annacquato; intendo dire come, ad esempio, qualora da più azioni ve ne sia una composta, come l'Iliade possiede molte parti di questo tipo e l'Odissea ne possiede che hanno grandezza anche in sé; eppure questi poemi sono stati composti nel miglior modo possibile e sono, il più possibile, imitazione di
un'unica azione.

Se, pertanto, la tragedia si distingue per tutti questi aspetti ed anche per l'effetto dell'arte (giacché è
necessario che quelle producano non un piacere a caso, bensì quello suddetto), risulta evidente che è
superiore all'epica in quanto raggiunge meglio il suo fine.

Pertanto, per quanto concerne la tragedia e l'epica e le loro forme e le loro parti e quante sono e in
cosa si differenziano e quali siano le cause della buona riuscita oppure no e le critiche e le confutazioni, valga quanto ho detto.